di Michele Paris
Sull’onda dei risultati delle primarie di New York della settimana
scorsa, gli stati del nord-est americano che si sono recati alle urne
martedì hanno consegnato vittorie piuttosto nette sia a Donald Trump che
a Hillary Clinton, consolidando le rispettive posizioni nella corsa a
una nomination ormai a portata di mano di entrambi.
Viste anche
le modalità di assegnazione dei delegati in palio previste dal Partito
Repubblicano, in prevalenza con il metodo maggioritario, l’affermazione
in cinque stati su cinque ha permesso a Trump di fare un passo quasi
decisivo verso l’obiettivo finale. Trump ha superato la soglia del 50%
dei consensi in Connecticut (58%), Delaware (61%), Maryland (54%),
Pennsylvania (57%) e Rhode Island (64%), mentre nella prima fase delle
primarie aveva quasi sempre vinto solo con la maggioranza relativa dei
voti.
Un dato, quest’ultimo, particolarmente significativo e
legato in parte a condizioni elettorali e demografiche a lui più
favorevoli nel nord-est degli Stati Uniti, ma dovuto probabilmente anche
ai riflessi delle recenti polemiche con i vertici del partito e degli
attacchi che gli sono stati rivolti nel tentativo di ostacolare la sua
corsa alla nomination. Una dinamica solo apparentemente insolita e che
conferma invece il forte sentimento anti-sistema che anima anche gli
elettori Repubblicani.
Del tutto deludente è stata ancora una
volta la prestazione dell’unico vero sfidante di Trump rimasto in gara,
il senatore del Texas di estrema destra, Ted Cruz, in grado di superare
il 20% solo in Pennsylvania. A parte questo stato, Cruz è finito alle
spalle anche del governatore dell’Ohio, John Kasich, in tutte le
competizioni di martedì.
Il saldo di Trump dopo il più recente
appuntamento elettorale è ormai di oltre 950 delegati. Per assicurarsi
automaticamente la nomination Repubblicana ne sono necessari 1.237 e,
secondo gli osservatori americani, a Trump sarebbe sufficiente ottenere
successi anche modesti in due stati a questo punto decisivi: Indiana e
California.
Una manciata di altri stati che ancora mancano
all’appello in queste primarie sembrano già orientati piuttosto
nettamente a favore di Trump o di Cruz, mentre Indiana e California – al
voto rispettivamente martedì prossimo e il 7 giugno – risultano a
tutt’oggi in bilico, anche se i sondaggi più recenti assegnano un
leggero margine a Trump.
L’unica ambizione di Cruz, e ancor più
di Kasich, resta in ogni caso quella di impedire al miliardario
newyorchese di raggiungere la maggioranza assoluta dei delegati alla
chiusura del calendario delle primarie. In questo caso, nella convention
Repubblicana di Cleveland a luglio i delegati avranno facoltà di
scegliere il candidato preferito alla Casa Bianca senza essere vincolati
ai risultati del voto nei vari stati.
In Indiana, Cruz si
giocherà così il tutto per tutto e, per impedire la vittoria di Trump,
nei giorni scorsi aveva annunciato il raggiungimento di un accordo con
Kasich. I termini di questa intesa già traballante prevedono che
quest’ultimo rinunci a correre in Indiana, in modo da favorire Cruz, il
quale, a sua volta, sospenderebbe di fatto la campagna elettorale in
Oregon e New Mexico in modo da spingere i suoi sostenitori a votare per
Kasich.
Il cammino di Trump continua ad ogni modo a disorientare
sia l’establishment Repubblicano sia i media ufficiali. Nelle ultime
settimane, l’imprenditore e showman è passato da probabile vittima delle
macchinazioni del partito a super-favorito inarrestabile, come lo era
stato già a inizio anno, da “outsider” con propensione alle gaffes a
candidato sulla via del politicamente corretto dopo un rimpasto del suo
staff.
Al di là di tutto, Trump rimane un candidato difficilmente
inquadrabile per la politica di Washington, vista la ovvia mancanza di
esperienza in questo ambito. A una prima analisi, è chiarissimo il suo
tentativo di capitalizzare le frustrazioni dell’elettorato di destra –
quasi sempre decisivo nelle primarie Repubblicane – con una retorica
populista e in odore di fascismo.
Soprattutto
il relativo successo tra la “working-class” bianca si spiega però in
maniera differente, a meno di non volere etichettare quest’ultima come
un blocco demografico e sociale con tendenze prevalentemente razziste e
fasciste.
Assieme alle sparate contro gli immigrati, Trump ha saputo comunicare
un messaggio che ha fatto presa su una parte considerevole, ancorché
disorientata, delle classi più colpite dal degrado economico e sociale
che affligge gli Stati Uniti, grazie principalmente alla completa
trasformazione del Partito Repubblicano nella casa dei ricchi e potenti e
al drastico spostamento a destra di quello Democratico.
Come ha commentato mercoledì il Washington Post,
Trump “ha dato voce alle frustrazioni che sono state in incubazione per
anni tra molti elettori, promettendo di trasformare Washington e agire
in maniera ferma per smantellare i trattati di libero scambio e
rilanciare le città industriali che hanno visto sparire posti di lavoro
ben pagati”. Che, poi, queste aspettative siano destinate a essere
deluse su tutti i fronti appare evidente, ma nella dinamica delle
primarie di questi mesi hanno indubbiamente giocato un ruolo
fondamentale nell’affermazione di Trump.
Sul fronte Democratico,
la sfida era apparsa già segnata dopo il successo di Hillary Clinton a
New York settimana scorsa. Con tutti i giornali “liberal” impegnati a
proclamare la sostanziale fine della corsa alla nomination, molti
potenziali sostenitori di Bernie Sanders hanno probabilmente deciso di
disertare le urne. Ciò sembra essere almeno in parte confermato dal
sensibile calo della percentuale degli elettori più giovani che hanno
votato martedì rispetto a quasi tutte le primarie precedenti.
Sanders
ha comunque vinto in maniera netta in Rhode Island, non a caso l’unico
stato tra i cinque chiamati a esprimersi questa settimana che prevedeva
primarie aperte, cioè non limitate ai soli elettori registrati come
Democratici. Il senatore del Vermont ha fatto segnare fin qui numeri
migliori rispetto all’ex segretario di Stato tra gli “indipendenti”, una
fetta di elettorato solitamente considerata cruciale nelle elezioni
presidenziali vere e proprie.
La strada di Sanders verso la
nomination è dunque ormai di fatto chiusa, visto che dovrebbe
conquistare circa il 70% dei delegati ancora in palio per superare
Hillary, cosa impossibile se non altro per il fatto che nelle primarie
Democratiche vige il sistema proporzionale. Un numero consistente di
delegati sarà comunque in gioco soprattutto il 7 giugno prossimo, quando
voteranno sei stati, tra cui California e New Jersey, ma la matematica e
soprattutto la campagna a favore di Hillary dell’apparato del partito e
della stampa avranno probabilmente già decretato la fine sostanziale
della competizione con Sanders.
Dopo il voto di martedì, Hillary
si è dedicata in gran parte al prossimo sfidante Repubblicano per la
Casa Bianca, ignorando Sanders sia pure senza giungere a chiederne il
ritiro dalle primarie. Il faccia a faccia che sembra ormai profilarsi
con Trump farà dell’elezione di novembre la prima negli Stati Uniti tra
due candidati visti con sfavore dalla maggioranza degli americani.
Per
quanto riguarda la Clinton, la macchina del Partito Democratico si è
già attivata non solo per convincere Sanders ad abbassare i toni e a
sostenere senza riserve la beneficiaria della nomination, ma anche per
ripulire l’immagine di una candidata ampiamente screditata agli occhi di
decine di milioni di elettori.
Le manovre in questo senso stanno
procedendo in due direzioni. Da un lato sono chiari gli sforzi di
minimizzare gli strettissimi legami della famiglia Clinton con Wall
Street e i poteri forti americani, da cui dipende interamente la fortuna
politica e la ricchezza dell’ex presidente e della candidata alla
presidenza. Dall’altro, visto il successo di Sanders e il desiderio di
buona parte dell’elettorato di politiche veramente progressiste, c’è
invece il ricorso a una retorica “liberal” da parte di Hillary, sia sui
temi domestici sia, almeno a giudicare dalle ultimissime uscite, su
quelli relativi alla politica estera.
L’uscita
di scena di Bernie Sanders sembra quindi sempre più vicina. Il
candidato auto-definitosi “democratico-socialista” ha per ora promesso
di rimanere in corsa fino al termine del calendario delle primarie,
anche se martedì ha lasciato intendere che le speranze di conquistare la
nomination sono ormai svanite. In un comizio in West Virginia davanti a
migliaia di sostenitori, Sanders si è impegnato a presentarsi alla
convention Democratica della prossima estate “con il maggior numero
possibile di delegati” e soltanto “per battersi per una piattaforma
progressista” del Partito Democratico.
Con la fine delle
ambizioni di nomination, insomma, Sanders e il suo team mostrano di
essere pronti a tornare a svolgere il ruolo che i vertici del partito
auspicavano oltre un anno fa, cioè quello di intercettare e dare sfogo
alle frustrazioni degli elettori potenzialmente di sinistra, per poi
convogliarle in maniera inoffensiva verso il candidato alla Casa Bianca
preferito dall’establishment Democratico.
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