Quando Jeroen Dijsselbloem – sorridente jena della Troika che guida l’Eurogruppo e, per un semestre, anche l’Ecofin – ha aperto il vertice dei ministri finanziari esponendo la necessità di “riformare” il patto di stabilità, qualcuno si era illuso, qualche altro (Renzi & co,) aveva cantato vittoria. Speravano che dopo nove anni di crisi anche nelle teste più stupidamente ordoliberiste si fosse fatta strada la necessità di allentare la ferocia di vincoli disegnati per economie in fase di espansione, quindi suicide in fasi di recessione duratura. A noi era parso chiaro che in realtà l’olandese mordente e la Germania intendevano “stringere” le regole di quel patto “troppo complicato” che governa le leggi finanziarie di tutti i paesi dell’Unione Europea e attraverso cui passano le scelte di austerità.
Le bordate sparate ieri da Jens Weidmann contro l’Italia e i suoi traccheggiamenti, contro le scelte “accomodanti” della Bce – fatte tra l’altro proprio a Roma, nella sede dell’ambasciata tedesca – confermano che, se di “riforme” si parla, queste vanno intese come più lacrime e più sangue, mai meno.
L’unione monetaria, a suo giudizio, «non può correre all’indietro», quindi la strada da percorre dovrebbe passare per una “maggiore integrazione”, secondo un modello per cui «gli Stati trasferiscono sia il potere decisionale sia la responsabilità per le questioni di bilancio a livello europeo, ad esempio nella forma di una unione fiscale europea». La traduzione è abbastanza semplice, sul piano istituzionale, perché questa concentrazione delinea un vero e proprio ministro del Tesoro comunitario, che sostituisce e annulla quelli nazionali (incaricati, a quel punto, della semplice attuazione delle direttive). Per Weidmann si tratterebbe di «una vera unione fiscale [che] potrebbe effettivamente ristabilire la giusta armonia tra le azioni e la responsabilità».
Sembra una cosa semplice, ma significa la distruzione del legame tra “responsabilità politica” e legittimazione popolare. Un ministro del Tesoro europeo, nell’attuale quadro istituzionale della Ue – al pari dell’Eurogruppo (struttura neppure prevista dai trattati, dunque “illegale” ma dotata di poteri eccezionali) – dipenderebbe soltanto dalla volontà dei governi riuniti. Quindi, per i normali rapporti di forza dentro gli organismi intergovernativi, dalla volontà del governo tedesco e dei suoi più stretti alleati (Olanda, Polonia, Austria, Finlandia, Svezia, est europeo in genere).
Questa “riforma” assolutistica impedirebbe, in futuro, comportamenti fiscali nazionali in contrasto con le direttive della Commissione, e persino i perenni mercanteggiamenti annuali tra i singoli governi alle prese con la legge di stabilità (l’ex legge finanziaria, la più importante delle leggi di uno Stato perché determina la distribuzione dei costi e dei redditi tra le varie figure sociali). Specialità, ha in pratica detto espressamente, dell’Italia e di altri Piigs mediterranei.
È un percorso lungo, ha ammesso il presidente della Bundesbank, perché presuppone ampie modifiche ai Trattati europei e gli inevitabili referendum confermativi nei vari paesi (ma non in Italia, per esempio).
Banalmente, una simile “riforma”, brucerebbe ogni velleità da bullo nei confronti dell’Unione. E la citazione per Renzi è apparsa quasi un ultimatum: «L’anno scorso, in occasione della presentazione del bilancio italiano ha dichiarato che la politica fiscale italiana viene fatta in Italia e che l’Italia non permette che essa venga dettata dai burocrati di Bruxelles. In una unione fiscale questo cambierebbe». O meglio, sarebbe impossibile.
Anche lui la vede insomma difficile, ma immagina anche un “piano B”. Se il trasferimento dei pieni poteri di bilancio non avviene, allora bisogna incrudire le conseguenze derivanti dal non rispetto delle direttive e dei parametri: «ora dobbiamo decidere, se il passo finale possa essere quello di osare un salto di qualità verso una maggiore integrazione oppure se debba essere rafforzato il principio della responsabilità sancito dal quadro di Maastricht».
Detto soavemente: o ci date il potere di decidere per tutti voi, oppure vi facciamo a pezzi sul piano economico e finanziario.
Anche il “piano B” presenta difficoltà, certamente, perché «da quando esiste l’Unione monetaria le regole del patto di stabilità e crescita sono state violate da alcuni Stati, fra i quali anche l’Italia, più spesso di quanto siano state» osservate. Il tecnoburocrate, peraltro, ammette che «anche la Germania, nel biennio 2003/2004, ha contribuito a indebolire la forza vincolante delle regole». Curiosamente, però, ricorda soltanto il periodo in cui – per effetto dello sforzo fatto nella riunificazione della Germania, Berlino sforò ripetutamente i parametri del deficit/Pil; ma non fa nessun cenno al fatto, ancora più evidente, del tuttora perdurante sforamento del parametro opposto, quello del surplus. E in un mercato comune, è matematico che se ci sono paesi in forte e duraturo surplus (con entrate maggiori delle uscite), altri dovranno forzatamente essere in deficit.
Ma per quanto sia difficile la strada, Weidmann e la Germania intendono percorrerla senza fare sconti a nessuno. E sopratutto a un paese come l’Italia, il cui grande debito pubblico è definito senza mezzi termini come una minaccia alla stabilità dell’eurozona. Per questo – anche qui senza spazio per equivoci – l’idea italiana, formalizzata da Pier Carlo Padoan – di «una ampia condivisione delle responsabilità tra gli Stati dell’Eurozona senza il corrispettivo meccanismo di controllo comune rappresenterebbe un percorso sbagliato». La traduzione non è difficile: prima mettete ordine nel vostro debito secondo le nostre indicazioni, poi, se sarete ancora vivi, vedremo di individuare le forme di “condivisione” dei rischi, ad esempio sulla garanzia europea dei depositi bancari.
Pochi giorni fa, del resto, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble aveva proposto di imporre un tetto alla quantità di titoli di stato nazionali che ogni banca poteva detenere in deposito. L’obiettivo ufficiale è “rompere il circuito vizioso tra conti pubblici e banche”, per cui ogni crisi del debito pubblico si ripercuote sula solidità delle banche e, viceversa, consente agli stati meno virtuosi di rifinanziarsi presso le banche stesse. Ma imporre questa regola ora significa obbligare le banche – soprattutto quelle italiane, ma non solo – a vendere in tempi stretti grandi quantità di titoli di stato. Il che si tradurrebbe in una riduzione di prezzo di quei titoli, un innalzamento improvviso e drastico degli spread, un aumento degli interessi da garantire, un conseguente aggravamento del debito pubblico e infine una maggiore difficoltà degli Stati a finanziarsi sul mercato. Di fatto, la riapertura della crisi del debito pubblico europeo, stoppata soltanto dalle politiche monetarie adottate dalla Bce dal 2012 in poi.
Ma questa crisi, appunto, consentirebbe di “stringere” maggiormente il cappio intorno al collo dei governi che, per motivi diversi, sono considerati “troppo lenti” nel realizzare le “riforme”.
Non che manchino gli apprezzamenti per le cose peggiori fatte da Renzi e soci – il Jobs Act sembra l’unica cosa in grado di far sorridere Weidmann – ma la strada da fare per raggiungere l’obiettivo di imporre un unico ministro del tesoro a tutta l’Unione Europea è troppo dura perché siano regalate pause di riposo a chi è ancora in fondo al gruppo.
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