di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Ucciso per un bicchiere di tè, è subito rivolta: l’uccisione a sangue freddo di un
venditore di strada e il ferimento di due passanti da parte di un
poliziotto egiziano hanno portato in strada centinaia di persone.
Immagini che riportano alle origini delle primavere arabe in Nord
Africa e ai suicidi in piazza di giovani venditori oppressi da povertà e
repressione.
Ieri Il Cairo è stato teatro di un omicidio che svela di
nuovo la perdita di quel rigido controllo che il regime di al-Sisi ha
stretto sulla popolazione. Dopo la manifestazione di massa di
venerdì, i sit-in delle famiglie dei giornalisti in prigione, articoli
che sulla stampa progovernativa e non svelano le contraddizioni interne
del governo egiziano, gli scontri di ieri potrebbero fare da miccia d'accensione per nuove rivolte.
Tutto è cominciato da un litigio sul prezzo di un bicchiere
di tè: tre poliziotti hanno aggredito verbalmente il venditore, riporta
il generale Amer, capo della polizia del distretto di New Cairo, e uno
dei tre ha aperto il fuoco. Il venditore di strada è morto sul colpo,
centrato al cuore da una pallottola.
L’agente Zeinham Abdel Razek è stato arrestato, ma ormai la rabbia era esplosa: una
folla di circa 200 persone si è lanciata sull’auto della polizia, l’ha
ribaltata e distrutta, ha picchiato un poliziotto per poi bloccare la
strada al grido di «La polizia è criminale, il Ministero dell’Interno è
criminale». Secondo un testimone presente sul luogo degli scontri, in un’intervista alla Reuters,
le forze di sicurezza hanno circondato la zona e arrestato cinque
persone, mentre familiari della vittima colpivano i poliziotti con delle
pietre.
Quelle pietre simboleggiano il crescendo di rabbia che
investe la popolazione egiziana a cinque anni dalla rivoluzione che
aveva fatto immaginare un futuro di democrazia e partecipazione
politica. L’escalation di tensioni va in parallelo con le
brutalità della polizia, che forte dell’impunità di cui gode stringe la
morsa sui cittadini: a febbraio un poliziotto aveva ucciso un tassista, a
novembre Ismailiya e Luxor erano state infiammate dalle proteste per la
morte in una sola settimana di tre detenuti. Fino allo sdegno locale e internazionale per la barbara uccisione di Giulio Regeni.
Alla violenza dei servizi di sicurezza si aggiungono fame e
disoccupazione, una crisi economica che al-Sisi cerca di risolvere con
prestiti internazionali e accordi commerciali con i paesi europei. Ma
non sono passati inosservati, venerdì intorno ad una Piazza Tahrir
blindata e inaccessibile, gli slogan cantati dai manifestanti: «Pane e
libertà», le stesse parole che risuonavano nel gennaio del 2011 e che
fecero collassare il regime trentennale di Mubarak. «Quanto successo oggi è l’inizio di un movimento popolare contro le decisioni di al-Sisi – ha detto ad al-Monitor l’attivista Ahmed Abdullah – Abbiamo cominciato a rompere le barriere della paura e della disperazione».
Una spinta, quella della rivoluzione del 2011, che forse al-Sisi
sperava di aver soffocato prima mostrandosi come il liberatore dal
pericolo islamista e poi usando il pugno di ferro. Ma le
rivoluzioni sono processi lunghi, complessi, e quella egiziana non è mai
giunta alla sua fine: i tentativi di annichilimento delle aspirazioni
libertarie e democratiche non riescono nel loro intento. E il 25 aprile,
anniversario della liberazione del Sinai, il popolo egiziano promette
di tornare di nuovo in strada.
Per ora al-Sisi ha dalla sua il sostegno della comunità
internazionale che a condanne di facciata abbina fruttuoso rapporti
economici. Il fine settimana ne è stato un esempio chiaro: prima
il presidente francese Hollande è tornato a casa con 30 accordi
commerciali e 18 memorandum d’intesa in tasca; poi il vice cancelliere
tedesco Gabriel ha aperto la strada a collaborazioni militari lungo il
confine tra Egitto e Libia.
Oggi tocca a John Kerry, segretario di Stato Usa, impegnato in questi
giorni in un tour nelle corti degli alleati mediorientali. Al Cairo
incontrerà il presidente e il ministro degli Esteri Shoukry con cui
discuterà di questioni di sicurezza regionale, la minaccia del
terrorismo di matrice islamista che tiene a galla il golpe egiziano.
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