La globalizzazione nei paesi avanzati sta fallendo: chi la
sostiene dovrebbe ammettere che ha fatto vittime. Wolfgang Münchau
pubblica sul Financial Times la spiegazione alternativa a quella mainstream: la causa della crisi
non sono gli Stati che non hanno fatto le “riforme” necessarie a
renderli più competitivi. Nessun dato avvalla questa tesi.
La realtà è
che le inevitabili crisi legate alla globalizzazione non sono state
governate dagli Stati, nell’idea che la globalizzazione e l’integrazione
europea avrebbero fatto del bene a tutti. Non siamo nel momento
migliore per stringere un accordo come il TTIP o fare ulteriori
liberalizzazioni, ammonisce Münchau.
La globalizzazione e l’appartenenza
all’Eurozona hanno danneggiato non soltanto alcuni gruppi sociali, ma
intere nazioni. Se i politici non si muoveranno di conseguenza,
sicuramente lo faranno (lo stanno già facendo) gli elettori.
di Wolfgang Münchau, 24 aprile 2016
La globalizzazione sta fallendo nei paesi occidentali avanzati, dove
questo processo, già osannato con l’idea che avrebbe fatto del bene a
tutti, ora affronta un contraccolpo politico.
Perché? Il punto di vista dell’establishment, perlomeno
in Europa, è che gli Stati abbiano trascurato di mettere in atto le
riforme economiche necessarie per renderci più competitivi a livello
globale.
Vorrei proporre una lettura alternativa. Il fallimento della
globalizzazione in Occidente in realtà dipende dall’incapacità delle
democrazie di governare gli shock economici
che inevitabilmente derivano dalla globalizzazione – come la
stagnazione dei salari reali medi per due decenni. Un altro shock è
stata la crisi finanziaria globale – una conseguenza della
globalizzazione – e il suo impatto permanente sulla crescita economica a
lungo termine.
In una grande parte dell’Europa, la combinazione di globalizzazione e
progresso tecnico ha distrutto la vecchia classe operaia e ora sta
mettendo a rischio i posti di lavoro qualificati della classe media
inferiore. Così l’insurrezione degli elettori non è né stupefacente né
irrazionale. Perché gli elettori francesi dovrebbero accogliere con
gioia la riforma del mercato del lavoro, se questa potrebbe avere come
conseguenza la perdita del loro posto di lavoro, senza alcuna speranza
di trovarne uno nuovo?
Alcune riforme hanno funzionato, ma chiediamoci il perché. Le
acclamate riforme del mercato del lavoro tedesche nel 2003 hanno avuto
successo nel breve periodo, perché hanno migliorato la competitività di
costo del paese grazie a salari più bassi rispetto a quelli degli altri
paesi avanzati. Ma queste stesse riforme hanno prodotto una situazione
vicina alla piena occupazione solo perché nessun altro paese ha fatto lo
stesso. Se altri avessero seguito l’esempio, non ci sarebbe stato alcun
guadagno netto.
Inoltre, le riforme tedesche hanno avuto un enorme lato negativo:
hanno abbassato i prezzi relativi in Germania e così hanno fatto
impennare le esportazioni nette, il che a sua volta ha generato un
enorme deflusso di risparmi, vale a dire la causa profonda degli
squilibri che hanno portato alla crisi dell’eurozona. Riforme come
queste ben difficilmente possono essere la ricetta giusta per affrontare
il problema della globalizzazione da parte delle nazioni avanzate.
Del resto non c’è alcuna prova basata su fatti che i Paesi che hanno
fatto le riforme abbiano ottenuto risultati migliori o siano
maggiormente in grado di far fronte alle spinte populiste.
Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno strutture di mercato più
liberali rispetto alla maggior parte dell’Europa continentale. Eppure il
Regno Unito potrebbe essere sul punto di uscire dalla UE; mentre negli Stati Uniti i Repubblicani potrebbero essere in procinto di eleggere un populista estremista
come loro candidato presidenziale. La Finlandia è in testa a tutte le
classifiche di competitività, ma la sua economia è un caso disperato di
non-ripresa e ha un forte partito populista.
L’impatto economico delle riforme è solitamente più sottile di quanto
ammettono i loro sostenitori. E non c’è nessun collegamento diretto tra
riforme e supporto ai partiti politici tradizionali.
La mia diagnosi è che la globalizzazione ha travolto le società
occidentali sia dal punto di vista politico sia tecnico. Non c’è nessun
modo in cui possiamo – né dobbiamo – sfuggirle. Ma il cambiamento deve
essere governato. Questo significa accettare che questo potrebbe non
essere il momento più adatto per un altro accordo di scambio commerciale
o una liberalizzazione del mercato.
Nel week end scorso in Germania ci sono state grandi proteste contro il Transatlantic Trade and Investment Partnership
(TTIP – Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti), un
accordo tra Stati Uniti e Unione Europea. Uno dei suoi aspetti più
criticati è che ridurrebbe la sovranità in campo legale dei suoi
partecipanti.
Negli ultimi due anni c’è stato un drastico capovolgimento dell’opinione pubblica in Germania
sui benefici del libero commercio globale in generale, e del TTIP in
particolare. Nel 2014, quasi il 90 per cento dei tedeschi era favorevole
all’abolizione delle barriere commerciali, stando a un sondaggio di
YouGov. Oggi l’assenso è precipitato al 56 per cento. Nello stesso
periodo le persone che si oppongono esplicitamente al TTIP sono
aumentate dal 25 al 33 per cento. Questi numeri non suggeriscono che
l’Unione Europea debba diventare protezionista. Ma il rapido mutare
delle cifre dovrebbe servire come segnale d’allarme per i politici,
invitandoli a muoversi con prudenza.
Non capisco perché Sigmar Gabriel, leader del patito
socialdemocratico tedesco e ministro dell’Economia, sia un sostenitore
così appassionato del TTIP. Se davvero cerca di interrompere l’erosione
di consenso nei confronti del suo partito, dovrebbe essere maggiormente
in grado di comprendere il costo politico di questo accordo. Non è molto
sorprendente che una larga parte dei sostenitori del partito xenofobo
Alternative für Deutschland provenga dalle file degli ex elettori della
SPD.
Un no al TTIP perlomeno eliminerebbe uno dei fattori che sono alla
base dell’irrompere di sentimenti contro l’Unione Europea o contro la
globalizzazione. I marginali vantaggi economici legati all’accordo non
sono sufficienti a controbilanciare le conseguenze politiche della sua
adozione.
Quello che i sostenitori della liberalizzazione globale dei mercati
dovrebbero ammettere è che sia la globalizzazione sia l’integrazione
europea hanno fatto vittime. Si pronosticava che entrambi avrebbero
creato una situazione in cui nessuno ci avrebbe rimesso, mentre alcuni
ci avrebbero guadagnato. Non è andata così. Siamo vicini al punto in cui
la globalizzazione e l’appartenenza all’eurozona hanno danneggiato non
soltanto alcuni gruppi sociali, ma intere nazioni. Se i politici non si
muoveranno di conseguenza, sicuramente lo faranno gli elettori.
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