Dopo il Jobs Act è ora la volta del Social Act sostanziato in quel piano nazionale di contrasto alla povertà attualmente al vaglio delle Commissioni Lavoro e Affari sociali della Camera: “Disegno di legge delega al Governo per il contrasto alla povertà, il riordino delle prestazioni e il sistema degli interventi e dei servizi sociali”. Molti aspetti del suddetto piano sembrano riflettere quei tratti essenziali della riforma delle politiche attive del lavoro (Dgl150/2015) contenuta nel Jobs Act ed anticipati nella fallimentare “Garanzia Giovani”. Insomma, dopo i giovani Neet, dopo i disoccupati, è ora la volta dei poveri. Ancora una volta, ci troviamo dinanzi più ad un’operazione di maquillage che di sostanziale aggressione al fenomeno della povertà diffusa; più una risposta alle richieste della Commissione Europea che non ai 4 milioni di cittadini in povertà assoluta (6,8% della popolazione) cui si sommano i 7 milioni 815 mila persone (12,9%) in stato di povertà relativa. A decreti approvati ci diranno – come già accaduto – che per la prima volta il Governo si impegna a combattere la povertà; ci parleranno di misure di protezione sociale universalistiche illudendo chi versa in condizioni di povertà di poter uscire da quella condizione, per poi scoprire, alla prova dei fatti, che nulla di tutto ciò era stato programmato. Ma per poter comprendere il senso di questo provvedimento, districandosi tra apparenza e verità, tra confusioni lessicali e pratiche dibattute tra i pochi addetti ai lavori, è bene subito precisare quegli elementi di contesto che aiutano tutti noi a comprendere la reale portata di questo provvedimento e i suoi beneficiari.
Di quali poveri si sta parlando?
Definire l’ampiezza del fenomeno è un esercizio di difficile comprensione poiché porta con sé la definizione di “povero” e del come venga costruita quell’asticella – la soglia – sotto la quale si è definiti tali. Già qui iniziano le prime distinzioni tra chi è povero-povero (povertà assoluta) e chi è un po’ meno povero (povertà relativa), tra chi già vive in uno stato di deprivazione materiale e chi è a rischio di entrarvi. Si tratta di una stima in cui vengono considerati Poveri assoluti tutti coloro che sono al di sotto o pari alla linea convenzionale di povertà data dalla spesa di un paniere di beni e servizi minimi e necessari per una vita minimamente accettabile (evidentemente tale soglia cambia in base al numero di componenti, età, luogo di residenza ecc). Per dare un’idea più chiara, potremmo prendere a riferimento una famiglia di 2 componenti adulti residenti nella città di Roma dove la soglia di povertà assoluta per questa tipologia è di 1066,30 euro che scende a 862,60 euro se vive a Napoli.
Anche le stime sulla povertà relativa assumono a riferimento una linea convenzionale di povertà che però è calcolata secondo una ratio diversa: la soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media per persona nel paese (spesa totale per consumi delle famiglie/numero dei componenti) che nel 2014 è risultata pari a 1.041,92 euro. Ebbene sì, questi due diversi modi di calcolare le soglie di povertà assoluta e relativa possono dar luogo a situazioni paradossali per cui la stessa famiglia che vive a Roma è povera in assoluto in quanto si colloca al di sotto di 1066,30 euro, ma meno povera secondo la soglia di povertà relativa: 1.041,92 euro.
Non solo, in alcuni casi si parla di individui, in altri di famiglie ed evidentemente, pur parlando delle stesse persone i dati sembrano acquisire un peso diverso. In tal senso, si dirà che nel 2014 sono 1 milione e 470 mila le famiglie che versano in povertà assoluta ( 5,7% delle famiglie residenti) e 2 milioni e 654 mila le famiglie che versano in stato di povertà relativa (10,3%). Questi numeri che richiamano l’attenzione dei media per il tempo della stesura di un articolo, costituiscono invece l’esito devastante di una impostazione neoliberista delle riforme che hanno interessato lo stato sociale e il mercato del lavoro. Politiche cui vi è sotteso un modello di sviluppo sociale sempre più disuguale che condanna alla fragilità anche quei cittadini che fino a ieri si sentivano al sicuro (Saraceno, Davis 2011).
Ma quanti sono questi cittadini non più al sicuro? Il quadro che ci fornisce Eurostat, EU-SILC (2014), evidenzia una situazione ben più allarmante di quanto descritto dalle statistiche Istat, poiché ci restituisce una fotografia del nostro paese con il più alto numero di cittadini a rischio di povertà ed esclusione sociale nella Ue a 28. La fonte parla di una popolazione pari a 17 milioni e 146 mila cittadini (2014) assumendo a riferimento tutte le persone che presentano almeno una delle seguenti condizioni: 1) sono a rischio di povertà – reddito inferiore al 60% di quello mediano; 2) soffrono di grave deprivazione materiale – si tratta di circa 7 milioni di persone; 3) vivono in famiglie con bassa intensità di lavoro.
Insomma, il 28,3% della popolazione italiana è a rischio di povertà relativa e di esclusione sociale, come precisato dalla stessa Banca d’Italia in occasione dell’audizione del 4 aprile scorso. Questo affondo, aldilà del tecnicismo evidenzia come nel calcolo dell’ammontare del fenomeno si nascondono parecchi inganni: i numeri cambiano al variare dei parametri assunti a riferimento. Ciononostante, il tema continua ad avere un ruolo marginale nella politica governativa a fronte di una emergenza sociale che inevitabilmente impatta anche sull’economia (più poveri, meno domanda di beni di consumo, meno occupazione e, dunque, più poveri ancora). Nel frattempo, questa emergenza ha interessato nuove categorie, nuove forme di povertà determinate dalla precarizzazione del lavoro, della crescente quota di lavoratori a basso salario (che tra il 2008 e 2015 passano da circa il 24% al 28% ) e così i working poor sono andati a sommarsi a quei poveri senza lavoro (disoccupati e scoraggiati). Per costoro l’assenza di uno strumento universale di contrasto alla povertà, di una misura di reddito minimo o di cittadinanza (l’Italia, insieme alla Grecia è l’unico paese a non esserne dotata) li condanna ad una traiettoria certa di mera sopravvivenza.
La lotta tra i poveri assoluti
Rispetto a questa drammatica diffusione di poveri “certificati” e di cittadini che vivono in quell’area grigia “a rischio di povertà e di esclusione sociale” la Commissione Europea, da un lato, ha imposto una politica di austerity e il pareggio di bilancio, dall’altro, si è fatta promotrice di una politica di contrasto alla povertà, al punto da definirla come una priorità della strategia Europe 2020. In tale contesto, anche la politica di coesione 2014-2020 (fondi strutturali) è stata assunta come strumento per la riduzione dei poveri, dedicando – per la prima volta – il 20% del FSE a tale fine. L’Italia, in fase di programmazione comunitaria si è perciò impegnata a ridurre il numero di questi soggetti a rischio – entro il 2020 – a circa 13 milioni, intesi come coloro che versano in un disagio ben più composito di quello definito nel calcolo della povertà assoluta e di quella relativa cui si fa riferimento nel nostro paese. Su quel target e quella priorità il Ministero del lavoro e delle Politiche sociali ha costruito il “PON Inclusione Sociale” e, coerentemente, ogni Regione nella propria programmazione comunitaria ha stanziato un 20% delle risorse di FSE sull’Obiettivo Tematico “Lotta alla povertà e all’inclusione sociale”.
Si arriva così al nuovo disegno di legge prima citato che, ben lungi dall’assumere a riferimento tutti coloro che sono a rischio di povertà e di esclusione sociale (come sarebbe stato ovvio aspettarsi) e posta la scelta politica di dedicare ben poche risorse economiche (1,4 miliardi nel 2016 e un miliardo per ciascun anno a partire dal 2017) per combattere l’esito più drammatico di questo modello di sviluppo destinato a generare povertà, si concentra esclusivamente sullo zoccolo duro di questo flagello: i poveri assoluti.
Fin qui, tutto sembrerebbe plausibile se non fosse per quel terribile ossimoro ”universalismo selettivo” che si concreta in una riduzione drastica di quella platea di poveri assoluti che potranno beneficiare dello strumento. Ebbene sì, alla faccia dell’universalismo, al sostegno di natura economica e di servizi potranno accedervi solo coloro che: 1) hanno un figlio minore; 2) un ISEE non superiore a 3000 euro; 3) nessun membro occupato; 4) almeno uno di essi deve aver avuto un periodo lavorativo non superiore a 6 mesi nel triennio precedente.
Insomma, anziché mettere a regime una misura universalistica di sostegno al reddito per tutti coloro che non riescono a consumare un paniere di beni essenziali, si preferisce procedere con quella stessa logica categoriale che da sempre è sottesa alle nostre misure – sempre più esigue – di protezione sociale. Le stime più conservative parlavano di un costo di 7 miliardi (ben al di sotto dei 9, 5 miliardi stanziati per i famosi 80 euro per i dipendenti a basso reddito) per sostenere un intervento a carattere universalistico che almeno interessasse tutti i 4 milioni di poveri assoluti, mentre lo stanziamento previsto, coprirà appena 1 milione di costoro (il 25%).
Vi è, infine, un altro aspetto inquietante di questa vicenda che sembra ricalcare pedissequamente il modello di politiche attive definito nel Jobs Act ovvero, quel principio di condizionalità cui è sotteso il postulato: povertà e disoccupazione non sono determinate dalle scelte politiche in materia di welfare, occupazione ed economia bensì da responsabilità individuali ed incapacità personali di “competere”. Sentiremo così parlare di “Inclusione attiva”, modalità elegante per vincolare l’erogazione di quel misero sostegno al reddito, a specifiche azioni da parte del soggetto, ivi compresa la partecipazione a corsi di formazione ecc. Insomma, dopo l’importante business che questo Governo ha assicurato alle Agenzie Private per il Lavoro grazie a Garanzia Giovani e al Dgl 150/2015, è ora la volta del terzo settore che, dopo lo smantellamento dei servizi sociali pubblici sarà chiamato alla “presa in carico” degli ultimi degli outsider, da condividere con le Agenzie Private per il Lavoro e gli enti di formazione. Ma a fronte di un lavoro che non c’è, tutto si tradurrà in una mera prassi burocratica (con costi esorbitanti), perdendo nuovamente l’occasione di dotarci di una misura di reddito minimo universale, garantendo così a tutti i cittadini di non scendere mai più sotto quella “linea d’ombra più o meno scura” che chiamiamo povertà assoluta.
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