La sinistra di classe deve fare i conti con il populismo. Questo il giudizio
– a dire il vero l’unico interessante nella marea di commenti
preconfezionati letti in questi giorni – espresso da Carlo Formenti
riguardo alle proteste francesi contro la riforma del lavoro predisposta
dalla legge El Khomri. Interessante perché problematizza
l’interpretazione di un movimento, altrimenti raccontato unicamente nei
termini enfatici tipici di certe “analisi” interessate. Le mobilitazioni
“spontanee”, “orizzontali”, e (ovviamente) “giovanili” generano sempre
entusiasmi trasversali pari solo alla rapidità del riflusso che le
caratterizza e al vuoto che lasciano dietro di sé. Formenti non si ferma
però a rilevare i limiti di uno schema ormai caratteristico delle
sinistre europee. Dice anche che con tali venature populiste bisogna
farci i conti, sporcandosi le mani, senza banalizzazioni libresche,
cogliendone non solo i limiti ma, forse soprattutto, le potenzialità di
“rigenerazione” della sinistra. In ogni caso questo ventennio ci sta
consegnando una modalità di partecipazione politica che non è solo il
frutto distorto di certo populismo progressista, ma anche il prodotto
specifico dello scenario politico contemporaneo. Prima di affrontare la
questione bisognerebbe chiedersi se la mobilitazione francese in corso
ricalchi davvero forme di populismo.
Populismo è concetto sviante per descrivere bene un movimento di
protesta. E’ un’astrazione generica, trasversale, disorientante, che si
presta poco alla comprensione effettiva di un fenomeno politico. Vale
sicuramente in alcune circostanze (ad esempio, il “peronismo”
corrisponde bene al concetto di populismo, così come certi movimenti
qualunquisti europei, vedi il M5S), ma non basta ritrovare alcuni
elementi in questa o quella mobilitazione per marchiare politicamente un
movimento come “populista” (che ha, sempre, una valenza negativa e mai
tecnica). Il movimento francese in questione, più che populista, ci
sembra ricalcare piuttosto le modalità organizzative e gli orizzonti
politici della sinistra movimentista europea dell’ultimo ventennio. Le
differenze, che pure ci sono a leggere certe analisi, soprattutto di Frederic Lordon,
sono più il riflesso della contingenza particolare e dell’esperienza
accumulata, che date dalla natura politica del movimento, mentre le
aderenze agli altri movimenti di protesta di riferimento (Occupy Wall
Street o Indignados) ci sembrano maggiori. Il problema strutturale che
invece si può rilevare è d’altro tipo.
La particolare situazione francese non consente più movimenti di
protesta che partano o stabiliscano il proprio campo ideale e logistico
nel centro della metropoli. In Francia la frattura di classe passa dalla
segregazione geografica, razziale, economica e culturale delle banlieue
contro la città integrata, inclusa, ricca, turistica. Non c’è
movimento di classe se non parte e se non coinvolge le classi subalterne
migranti delle periferie. La riproposizione di mobilitazioni per
diritti, anche sociali, da cui sin dal principio sono esclusi gli
emarginati della società francese, non farà che approfondire il solco
traumatico tra classi integrate nello Stato e classi escluse e
disintegrate dalla partecipazione politica.
Sono rappresentati i bisogni, i problemi, la condizioni di vita e di
lavoro delle periferie francesi nella lotta alla legge El Khomri oggi in
Francia? I dubbi sono molti, conoscendo l’incomunicabilità radicale tra
centro e periferia attualmente esistente, nonché la composizione
sociale di queste proteste. Certo gauchismo, se un tempo aveva la forza
della mobilitazione a scapito della propria innata trasversalità
sociale, oggi può essere più un problema che una soluzione.
Evidentemente è meglio mobilitarsi contro la deriva neoliberista che
anche in Francia sta trovando disposizione giuridica, ma se l’obiettivo
della mobilitazione stessa non assume subito i contorni dello scontro
tra periferia e centro, questo è destinato non tanto alla sconfitta, ma
al repentino assorbimento nel campo del dissenso compatibile,
fisiologico e in qualche maniera utile all’autonarrazione delle
possibilità democratiche del liberalismo occidentale. Insomma, qui il
problema non è tanto quel che si dice o si pensa, che può essere più o
meno condivisibile, quanto il pezzo di società che si vuole o si può
rappresentare. Ed è un problema maledettamente complesso, perché se per
tutto il Novecento lo schema era più “intuibile” e legato ad
automatismi virtuosi, oggi lo sfaldamento sociale e politico impone una
scelta di campo e un cambio di paradigma. Frederic Lordon dice cose
condivisibili: la critica dei limiti dei movimenti simili precedenti
(appunto OWS e Indignados) va nella direzione giusta (critica però mai metabolizzata dai suoi epigoni: chi si entusiasma per Nuit Debout è
lo stesso che si entusiasmava per il 15M o i vari Occupy, senza
rilevare differenze, senza sollevare dubbi, procedendo per esaltazione
allogena, e in nessun caso avanzando per autocritica), soprattutto nel
rimettere al centro la natura politica dello scontro in atto, il suo
posizionarsi inequivocabilmente nella frattura destra-sinistra, nella
sua radice nel rapporto tra capitale e lavoro. Dice anche cose meno
condivisibili, a partire dalla retorica costituente che caratterizza
certo pensiero tardo-post-operaista onanistico. Non è questo, davvero,
il problema. Piuttosto, ecco: l’ennesima lezione del professorino in
carriera che spiega la necessità di ribellarsi, prima ancora che ai
comunisti in via d’estinzione, ha stancato e disilluso quel proletariato
migrante e autoctono escluso dai processi d’integrazione
sociale, processi ai quali invece aspirano quei più o meno giovani
mobilitati nel centro della metropoli occidentale.
Carlo Formenti dice però una cosa decisiva nel suo invito a non
banalizzare quello che lui chiama “populismo di sinistra”. L’attuale
forma della politica, la sua natura intrinsecamente distante e opposta
ai bisogni e agli istinti della popolazione subalterna, nonché la
stagnazione economica che non consente redistribuzioni di reddito capaci
di suscitare consenso, impongono il populismo come forma tipica delle
istanze politiche antagoniste di questi anni. La mobilitazione
trasversale contro il ceto politico è sbagliata in termini politici, ma
riveste una natura sociale che è importante cogliere, la quale è il prodotto
della particolare dinamica capitalistica di questi ultimi decenni, che
genera reddito per élite sociali e impoverimento per il resto della
popolazione. E’ in atto una polarizzazione sociale che si esprime
politicamente attraverso istanze confusionarie, parzialmente
trasversali, assolutamente spurie, in una parola: populiste, come le
definisce Formenti con un termine che condividiamo poco. E una sinistra
degna di questo nome tale problema non può nasconderlo, ma farci i
conti, pena la sua scomparsa. Siamo d’accordo. Sporcarsi le mani
significa d’altronde esattamente questo, saper stare dentro certe
proteste, colme di contraddizioni e altrettanto foriere di
potenzialità. In ogni caso, starne completamente fuori non aprirebbe
spazi concorrenti ma al contrario chiuderebbe ulteriori possibilità di
influenza sociale e politica, relegherebbe certa sinistra non solo
all’irrilevanza, ma definitivamente nel campo della nemicità popolare.
E’ una dialettica mai stabile per definizione, ma che va perseguita in
maniera militante, questo si, e insediata socialmente laddove ci
interessa stare. Non è la confusione politica oggi il freno, ma la
natura di classe dei soggetti mobilitati. E in Francia questo limite ci
sembra presente non da oggi, ma da un ventennio abbondante.
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