Le alte temperature non sono bastate a sciogliere il gelo tra i vecchi alleati. E’ stato un vertice di circostanza quello avvenuto mercoledì tra Barack Obama e Re Salman durante la visita del presidente degli Stati Uniti in Arabia Saudita. Del resto i due paesi non sono mai stati così lontani per interessi e visioni del mondo: alla vigilia del summit di Riad il principe saudita Turki Al Faisal, ex potente capo dell’intelligence del regno, esplicitava “l’esigenza di ricalibrare le nostre relazioni con l’America” nel corso di una intervista alla Cnn.
Nel tentativo di riportare Riad all’ovile Obama ha compiuto ben quattro visite in Arabia Saudita in soli sette anni, ma il suo attivismo non sembra aver sortito grandi effetti. Ad esplicitare i cattivi rapporti tra i due paesi il fatto che né Salman né alcun esponente del governo saudita si siano degnati di accogliere personalmente l’inquilino della Casa Bianca al suo arrivo all’aeroporto, cosa che avevano invece fatto poco prima per ricevere gli omologhi provenienti dalle varie petromonarchie del Golfo. E così Obama e il suo seguito – il direttore della CIA, John Brennan, e il segretario alla Difesa Ashton Carter – si è dovuto accontentare del governatore della capitale saudita.
Dei motivi della distanza siderale tra Riad e Washington ci siamo occupati più volte: la ricerca da parte degli Stati Uniti di un accordo con l’Iran sul nucleare, l’accordo (seppur parziale) con la Russia nello scenario siriano contro i jihadisti che Riad e le altre potenze sunnite continuano invece a sostenere, la guerra del petrolio tra Arabia Saudita e Stati Uniti.
L’inimicizia si è ormai esplicitamente trasformata in conflitto, e se il Congresso di Washington discute una legge che potrebbe rendere i responsabili sauditi incriminabili per la loro collaborazione in attacchi terroristici in cui rimangano uccisi cittadini statunitensi, un documento dell’intelligence statunitense che prova il coinvolgimento della casa reale saudita negli attacchi dell’11 settembre contro le città degli States potrebbe esplodere come una bomba facendo saltare del tutto le già fragili relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Arabia Saudita che ha da parte sua minacciato Washington affermando di essere pronta, se necessario, a disfarsi degli asset e delle quote del debito pubblico statunitense e a ritirare i depositi nelle banche americane, per un danno totale di 1000 miliardi di dollari.
Non è detto che alla fine il documento venga reso pubblico, e anche se i repubblicani dovessero riuscire a far passare la legge al Congresso Obama ha già promesso di bloccarla con il suo veto. L’inquilino della Casa Bianca è ancora convinto di poter riaggiustare le relazioni con un’Arabia Saudita che nel frattempo sgomita sempre più e tenta di imbarcare le altre petromonarchie ed emirati in un blocco regionale dalle evidenti mire espansioniste e quindi per forza di cose in competizione con gli Stati Uniti.
A Riad si spera che il successore di Obama sia un partner meno ostile, come se la distanza tra i due paesi fosse il frutto di una predisposizione poco accomodante nei confronti delle richieste saudite. Ma la classe dirigente saudita sa che non è così. “Io non credo – ha detto Turki Al Faisal alla giornalista Christiane Amanpour – che noi possiamo aspettarci che con un nuovo presidente degli Stati Uniti potremmo tornare ai giorni del passato, quando le relazioni erano migliori”.
Paradossalmente, un presidente repubblicano potrebbe ulteriormente inasprire i rapporti con il blocco sunnita ed essere assai meno gradualista di Barack Obama, che tenta di recuperare un certo intendimento con gli sceicchi cedendo su alcuni punti – ad esempio continuando a sostenere una sfortunata invasione saudita dello Yemen – e insistendo su altri, come la fine del sostegno alle correnti jihadiste. E’ soprattutto su questa richiesta che Obama si è concentrato nel corso del suo colloquio con Re Salman e gli altri pezzi grossi della petromonarchie riuniti nel summit dei Paesi del Golfo che si teneva a Riad. Per l’ennesima volta l’inascoltato inquilino della Casa Bianca ha perorato la causa del comune sforzo contro lo Stato Islamico sapendo che senza i lauti finanziamenti, l’invio di migliaia di volontari e i rifornimenti di armi provenienti dalla penisola arabica – oltre che dalla Turchia – la milizia di Al Baghdadi si squaglierebbe come neve al sole. Ed è stato infatti un pubblico sordo quello che ha ascoltato con educazione ma senza alcuna empatia gli appelli di Barack Obama – che in una intervista aveva definito i partner del Golfo “i nostri cosiddetti alleati nella guerra contro l’Isis” – visto che i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo non hanno alcuna intenzione di frenare il sostegno, diretto e indiretto, alle correnti jihadiste, nonostante alcune di esse cominciano a mettere in discussione addirittura l’egemonia in Medio Oriente delle varie monarchie feudali.
L’espansione, culturale, ideologica ma anche militare dell’ideologia wahabita, del salafismo e di altre versioni reazionarie ed estreme dell’Islam viene considerata a Riad una strategia irrinunciabile di penetrazione ed affermazione degli interessi del polo sunnita. Non è un caso che Obama abbia brevemente catturato l’attenzione degli sceicchi e degli emiri solo quando ha fatto riferimento alla necessità di compiere sforzi congiunti per frenare quello che viene definito l’espansionismo iraniano nell’area, che del resto rimane il principale problema di un Consiglio di Cooperazione del Golfo tutto sunnita (anche se in una recente intervista alla rivista Atlantic il presidente statunitense ha chieste pubblicamente ai sauditi di tentare una forma di coesistenza con Teheran…).
Ma il gelo è sceso di nuovo sull’assise quando si è parlato di cooperazione militare. Nell’agenda di Obama c’era la riconferma di una vendita massiccia di armi alle petromonarchie per un valore complessivo di circa 33 miliardi di dollari. Il problema, più volte fatto presente da Obama, è che di queste armi, una volta vendute alle potenze sunnite, Washington ‘perde completamente il controllo’ finendo spesso in dote ai gruppi fondamentalisti e jihadisti che i caccia e i droni statunitensi martellano in Medio Oriente ed in Africa. Un ottimo affare per l’industria statunitense delle armi, ma anche una contraddizione politica difficilmente gestibile.
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