di Michele Giorgio – Il Manifesto
La detenzione di Ahmed Abdallah al Sheikh
«non è legata al rapporto con la famiglia di Giulio Regeni». La procura
egiziana alza la voce dopo l’allarme lanciato dai genitori dello
studente italiano – rapito, torturato e assassinato al Cairo – per
l’arresto del responsabile della Commissione Egiziana per i diritti e
le libertà (Ecfr), da due mesi consulente della famiglia Regeni.
Al Sheikh, spiegano i giudici egiziani è stato portato in commissariato perché accusato di «partecipazione a manifestazioni non autorizzate».
Quindi, fanno capire, per questioni “normali”. Già perché in
Egitto è “normale” finire in manette, essere processato e condannato ad
anni di carcere per aver partecipato o soltanto appoggiato
manifestazioni di protesta o in difesa dei diritti umani. Ne sa qualcosa
uno storico attivista, Alaa Abdel Fattah, da tempo dietro le sbarre.
L’instancabile procura del Cairo nel frattempo ha prolungato
da 4 a 15 giorni il fermo di Al Sheikh, contro il quale crescono con il
passare delle ore i capi d’imputazione. Se all’inizio, come si è detto,
l’arresto è stato ordinato perché il consulente della famiglia Regeni
avrebbe appoggiato le manifestazioni del 25 aprile contro la cessione
delle isolette di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita, adesso le accuse
parlano di istigazione a disordini con l’obiettivo di rovesciare le
«legittime autorità» (golpiste), di pubblicazione di notizie false e
persino di minaccia alla pace sociale, all’ordine e all’interesse
pubblico. Insomma, un mostro da sbattere subito in galera.
Proprio come Haytham Mohammedin, avvocato e portavoce del Movimento
rivoluzionario socialista (Mrs), arrestato il 22 aprile, tenuto bendato
durante gli interrogatori e portato dopo più di 24 ore di fronte a un
giudice che ne ha convalidato la detenzione per altri 15 giorni con le
accuse di «tentativo di rovesciare il governo», «convocazione di
proteste contro la ridefinizione della frontiera marittima del paese» e
«adesione al gruppo fuorilegge della Fratellanza musulmana». Accusa
assurda quest’ultima se si tiene conto della enorme differenza
ideologica tra il Mrs, di cui Mohammedin è portavoce, e l’organizzazione
islamista dichiarata fuorilegge dopo il golpe militare di tre anni fa.
Ahmad Abdallah al Sheikh e gli altri oppositori sono descritti dai media legati al regime come
dei traditori, dei terroristi travestiti da difensori dei diritti umani
se non addirittura delle spie al servizio di potenze straniere
desiderose di colpire e ridimensionare il “ruolo” dell’Egitto nella
regione. Un “attacco” che, spiegano tv, radio e giornali che
osannano al Sisi, è rappresentato proprio dalla dimensione
internazionale che ha assunto l’assassinio di Giulio Regeni, che ormai
va oltre le relazioni tra Egitto e Italia. Il Cairo con questo
atteggiamento conferma, nei fatti, ogni giorno di più, di non avere
alcuna intenzione di rivelare la verità che tanti chiedono. Il regime di
al Sisi è sprezzante verso chi mette in dubbio la verità ufficiale,
quella costruita a tavolino per negare il coinvolgimento dei servizi di
sicurezza nazionali nell’omicidio del giovane italiano. Al
governo britannico che ha condannato l’assassinio «brutale» di Regeni e
che ha detto di essere irritato per i limitati progressi fatti fino ad
oggi nella soluzione del caso, la presidenza egiziana ha replicato
chiedendo a Londra di fare luce sulla morte di un cittadino, Sherif
Habib, 21 anni, trovato ucciso nei giorni scorsi all’interno di
un’automobile data alle fiamme. «La famiglia di Habib ha il
diritto di sapere le cause della sua morte e che sia fatta giustizia»,
sottolinea il comunicato ufficiale egiziano. Giusto, è una richiesta
legittima che, allo stesso tempo, non può diventare un pretesto per il
regime di al Sisi per sottrarsi all’obbligo di rivelare la verità
sull’assassinio di Giulio Regeni.
Il regime è unito e compatto dietro Abdel Fattah al Sisi. È
talmente evidente che risultato incomprensibili le teorie rilanciare
anche in questi giorni da alcuni importanti media italiani che
inseriscono le torture e la morte di Regeni nel quadro di una presunta
lotta tra apparati di sicurezza egiziani, tra alleati e nemici del
presidente-dittatore. Mentre questi giornali avanzano ipotesi e
fanno congetture sulle “lacerazioni” interne al regime, al Sisi ieri ha
inaugurato al Cairo il braccio armato della sua brutale autorità: la
nuova sede del ministero dell’interno. Accompagnato dal premier Sherif
Ismail, dal ministro della difesa Sedki Sobhi e dal suo fedelissimo, il
ministro dell’interno Magdy Abdel Ghaffar, al-Sisi ha visitato con
espressione soddisfatta i nuovi edifici che, con umorismo nero degno dei
migliori attori britannici, include anche un dipartimento per i diritti
umani.
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