di Michele Giorgio – Il Manifesto
«Il governo mi chiede di
pagare quest’anno, per ogni autovettura, 5mila shekel (circa 1.200 euro,
ndr) oltre ad altre tasse. E dove li prendo questi soldi?». Mohammad A.,
33 anni, proprietario di un piccolo autonoleggio, ha un diavolo per
capello. «Qui a Gaza sono pochi a noleggiare l’auto, la nostra è una
attività con la quale riusciamo a vivere, non certo ad arricchirci. A
questo punto non pagherò (le tasse) per tutte le auto, preferisco
rischiare qualche sequestro piuttosto che chiudere l’attività», spiega
allargando le braccia. Come Mohammed A. tanti altri si lamentano
per le tasse in costante salita. Non solo imprenditori, commercianti,
proprietari di case e terreni, la classe media. Anche per i poveri – la
maggior parte della popolazione – le cose vanno sempre peggio.
L’aumento dei tributi deciso nell’ultimo anno dal governo del premier di
Hamas Ismail Haniyeh (ufficialmente dimissionario ma di fatto sempre in
carica), ha causato l’impennata dei prezzi dei generi di prima
necessità avvicinando il costo della vita a Gaza a quello della
Cisgiordania dove un altro governo, quello dell’Autorità nazionale
palestinese di Abu Mazen, da tempo applica tasse insostenibili per tante
persone. Per i palestinesi che già devono fare i conti con
l’occupazione militare israeliana e le sue conseguenze, la vita ormai è
un inferno. Non servono i sondaggi. Le parole della gente di Gaza ti
fanno capire che Hamas ha perso parecchio consenso nell’ultimo anno.
Il movimento islamico deve fare i conti con il mancato
conseguimento della «liberazione» della Striscia dall’assedio israeliano
che ha promesso più volte da quando è andato al potere a Gaza nel 2007,
in particolare durante lo scontro armato con Israele nell’estate del
2014. Gaza resta la prigione a cielo aperto di sempre, anzi è
persino peggio di prima se si considera la chiusura di Rafah che attua
l’Egitto. Le macerie provocate dai massicci bombardamenti israeliani
sono sempre lì. La ricostruzione è partita solo in minima parte e decine
di migliaia di sfollati vivono da un anno e mezzo in condizioni
precarie. A ciò si aggiungono la disoccupazione, tra le più alte al
mondo, le condizioni ambientali, la mancanza di acqua e di altre risorse
naturali. Certo, questi problemi enormi sono l’effetto del
blocco di Gaza e della negazione dei diritti dei suoi abitanti. A questi
però si aggiungono ora anche alcune politiche, non solo economiche, del
governo Haniyeh. Ad esempio è sempre più difficile esprimere
liberamente, alla luce del sole, la propria opinione. Lo
dimostra anche il fatto che tanti palestinesi, dopo aver parlato ai
giornalisti, chiedono di tenere nascosta la loro identità. «La
più colpita è la stampa – spiega S.K. un reporter piuttosto noto nella
Striscia – Quando critichiamo apertamente il governo, i servizi di
sicurezza ci convocano e ci fanno tante domande. In qualche caso tutto
si limita a qualche avvertimento, altre volte si rischia molto di più».
Quando ci riferiamo alla libertà di espressione afferma il giornalista,
il governo di Hamas assomiglia sempre di più all’Anp.
«Il problema quotidiano più grosso per la gente di Gaza però si chiama takafol ishtmai, una sorta di tassa per la solidarietà sociale» aggiunge S.K. «il governo ha istituito al valico di Karem
Abu Salem (Kerem Shalom) una tassa sull’importazione delle merci. Un
funzionario del ministero delle finanze chiede 50 o 100 skekel (12-24
euro) per ogni tonnellata di beni importati, dipende dal loro valore. 100 shekel per ogni vitello e 50 per ogni pecora. Merci e animali che poi sul mercato costeranno di più per tutti. La solidarietà di cui parlano è volta solo a racimolare fondi per pagare i 43mila dipendenti pubblici».
Nel 2014 il governo di Hamas raccoglieva mensilmente tasse per due milioni di euro. Una
politica fiscale leggera figlia delle “vacche grasse” degli anni
precedenti quando l’esecutivo del movimento islamico riusciva a far
entrare a Gaza decine di milioni di dollari cash, frutto di donazioni e
finanziamenti dall’estero. Inoltre raccoglieva annualmente,
secondo stime non ufficiali, circa 300 milioni di dollari con la “tassa
sui tunnel” che pagavano i proprietari delle centinaia di gallerie sotterranee per il contrabbando tra Gaza e il Sinai, chiuse o distrutte
dopo il golpe militare in Egitto del 2013. Quindi si sono
interrotti anche i finanziamenti dall’Iran. Oggi, con le nuove tasse, il
governo di Ismail Haniyeh raccoglierebbe 15 milioni di dollari al mese
che bastano a coprire solo metà dei milioni di dollari necessari per
pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici. Anche a Gaza, come
in Cisgiordania, una fetta consistente del budget governativo va ai
servizi di sicurezza e alle forze militari. Nel frattempo lo stesso
movimento Hamas chiede la restituzione, almeno in parte, del miliardo di
dollari che ha prestato al governo Haniyeh negli ultimi dieci anni.
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