di Mario Lombardo
L’instabilità che caratterizza da ormai parecchi anni il quadro
politico australiano si è ulteriormente aggravata martedì, quando il
primo ministro conservatore, Malcolm Turnbull, dopo appena sette mesi
alla guida del governo federale ha annunciato lo scioglimento di
entrambi i rami del Parlamento di Canberra ed elezioni anticipate, da
tenersi “molto probabilmente” il 2 luglio prossimo.
Il gabinetto
australiano è sostenuto da una coalizione formata dal Partito Liberale
del premier e dal suo tradizionale partner, il Partito Nazionale,
espressione della borghesia rurale del paese. Turnbull aveva sostituito a
capo del governo il collega, Tony Abbott, lo scorso mese di settembre
dopo un voto interno al partito nel tentativo di fermare il crollo dei
consensi dei Liberali sotto la guida dell’ex leader che aveva vinto le
elezioni nel 2013.
La ragione principale del voto anticipato è da
ricercare nella crisi di un governo di centro-destra che vede
insabbiata al Senato la propria agenda, fatta di austerity e proposte di
“ristrutturazione” dell’economia, del welfare e del mercato del lavoro,
a causa dell’ostruzionismo dell’opposizione, composta dal Partito
Laburista, dai Verdi e da una manciata di indipendenti.
Fin dalla
sconfitta dei Laburisti nel 2013, il governo Liberale-Nazionale si è
ritrovato a subire le pressioni dei grandi poteri economico-finanziari
domestici e internazionali per smantellare le protezioni garantite dal
sistema australiano ai lavoratori e, in generale, alle classi più
disagiate. L’impopolarità delle iniziative in discussione, sfruttata dai
partiti di opposizione, è però tale che il governo non è finora
riuscito a mantenere i propri impegni e a superare gli ostacoli
incontrati in Parlamento.
Turnbull ha così innescato
deliberatamente un meccanismo costituzionale per giustificare nuove
elezioni, vale a dire la bocciatura per due volte in Senato di un
provvedimento approvato dalla Camera dei Rappresentanti. La legge in
questione era stata affidata al Senato il mese scorso con la
convocazione da parte del Governatore-Generale, ovvero il rappresentante
della regina d’Inghilterra e, di fatto, capo di stato australiano, di
una sessione parlamentare straordinaria della durata di tre settimane.
In questo periodo di tempo, la legge, che prevedeva il ripristino di una
commissione anti-sindacale nel settore dell’edilizia, è stata respinta
in due occasioni, di cui l’ultima nella serata di lunedì con una
maggioranza di 36 a 34.
Dopo il voto tutt’altro che sorprendente,
il primo ministro ha deciso di anticipare la presentazione del prossimo
bilancio federale al 3 maggio e dopodiché, come ha spiegato egli
stesso, entro il giorno 11 dello stesso mese chiederà “al
Governatore-Generale di sciogliere entrambi i rami del Parlamento”.
Lo
scioglimento contemporaneo di Camera e Senato è un evento piuttosto
raro in Australia, dove le elezioni generali con cadenza triennale
prevedono solitamente il rinnovo completo della prima e solo della metà
dei membri del secondo, il cui mandato dura sei anni. L’ultimo “doppio
scioglimento” del Parlamento australiano risale al 1987 e questa pratica
è avvenuta solo sei volte dal 1901, anno dell’indipendenza dalla Gran
Bretagna.
L’obiettivo dei Liberali di rompere lo stallo politico
appare dunque evidente e già nelle scorse settimane era stata approvata
una modifica alla legge elettorale per rendere più difficile l’elezione
di candidati indipendenti o di partiti minori al Senato. In caso di
“doppio scioglimento”, però, la soglia di sbarramento per entrare al
Senato si abbassa al 7%, dal 14% previsto in una normale tornata
elettorale, favorendo comunque i candidati dei partiti più piccoli.
Quella
di Turnbull appare ad ogni modo una scommessa molto rischiosa, visto
che il rapido deteriorarsi dell’indice di popolarità del suo governo
dopo i brevi entusiasmi iniziali rende del tutto possibile un esito
simile a quello del 2013, quando i Liberali-Nazionali furono in grado di
ottenere la maggioranza assoluta solo alla Camera dei Rappresentanti ma
non al Senato. A giudicare dai sondaggi pubblicati dalla stampa
australiana in questi giorni, addirittura, la coalizione di governo
potrebbe essere sconfitta dai Laburisti, dati alla pari o, in alcuni
casi, leggermente in vantaggio sui Liberali-Nazionali.
Il
Partito Laburista non gode tuttavia di particolari favori nel paese, se
non nella misura in cui beneficia automaticamente dell’ostilità nei
confronti del centro-destra al governo. Il “Labor” australiano era
uscito con le ossa rotte dal voto del 2013, dopo una serie di
avvicendamenti ai propri vertici e alla guida del governo, ma
soprattutto a causa del perseguimento, o del tentativo di perseguire,
disastrose politiche di austerity.
Il leader Laburista, Bill
Shorten, ha comunque cercato subito di sfruttare il malcontento diffuso
nei confronti del governo, dichiarando che il suo partito si batterà per
“posti di lavoro dignitosi, scuole e sanità migliori” e contro “gli
interessi delle grandi banche”.
In realtà, i Laburisti sono
anch’essi decisi a garantire la “stabilità finanziaria” dell’Australia.
Qualche giorno fa, ad esempio, il ministro-ombra del Tesoro, Chris
Bowen, aveva risposto alle minacce di “downgrade” di Moody’s affermando
l’impegno di un eventuale governo del suo partito a prendere “decisioni
difficili” nell’ambito “delle entrate e della spesa sociale”. Anche
Shorten, poi, ha criticato questa settimana il premier Turnbull per la
sua “indecisione” e l’incapacità di implementare la propria agenda, con
un velato riferimento all’urgenza di approvare misure impopolari che
vengono richieste da più parti.
Il Partito Liberale, invece,
sembra deciso a impostare una campagna elettorale basata sulla necessità
di “modernizzare” il sistema Australia, sia pure mascherata da una
certa dose di populismo, come hanno dimostrato le prime indiscrezioni su
un possibile aumento delle tasse per i redditi più alti. La proposta di
bilancio che verrà presentata in Parlamento il 3 maggio sarà una vera e
propria piattaforma elettorale dei conservatori. Come ha spiegato il
leader di questi ultimi al Senato, George Brandis, il bilancio “non
prevederà il genere di spesa irresponsabile e livelli di tassazione
esagerati che sembrano essere al centro dei piani economici del Labor”.
Sull’esito
delle elezioni di luglio influirà in maniera decisiva il costante
rallentamento dell’economia dell’Australia, principalmente a causa del
crollo delle quotazioni delle risorse del sottosuolo che il paese
esporta. Ugualmente, anche lo stesso clima d’instabilità politica che
regna da anni a Canberra è determinato in fin dei conti dall’incapacità,
se non impossibilità, della classe dirigente indigena ad attuare le
misure a sostegno del capitalismo australiano, colpito duramente dalla
crisi economica, di fronte alla ferma opposizione popolare.
Alla
questione economica si sovrappone poi quella
diplomatico-militare-strategica, legata in maniera inestricabile alla
natura e al posizionamento internazionale di questo paese. La sua classe
dirigente è esposta infatti anche alle pressioni degli Stati Uniti,
ovvero il principale alleato di Canberra, che vedono l’Australia come
uno dei pilastri della loro strategia anti-cinese in Estremo Oriente.
Come
molti paesi asiatici, e forse ancor più di essi, l’Australia si trova
di fronte a un dilemma, aggravato dalla crisi economica e dalle manovre
strategiche americane. L’Australia, cioè, risulta ormai dipendente da
Pechino sul fronte economico-commerciale, essendo la Cina il primo
mercato del proprio export, ma è allo stesso tempo uno storico partner
strategico di Washington.
Non solo, l’amministrazione Obama sta
chiedendo all’Australia di fare molto di più per contrastare l’ascesa
cinese nel continente asiatico, da ultimo sollecitando la partecipazione
alle provocatorie operazioni navali USA nel Mar Cinese Meridionale che
intendono mettere in discussione le rivendicazioni di Pechino su una
serie di isole contese con altri paesi.
Il
governo di Canberra si è finora rifiutato di prendere una decisione in
questo senso, anche se l’opposizione Laburista si è detta in larga
misura a favore, e lo stesso Turnbull ha cercato di mantenere una
posizione relativamente moderata sulla rivalità tra USA e Cina, come ha
confermato la prudenza che ha caratterizzato la recente prima visita in
terra cinese del premier.
Questo atteggiamento sarà sempre più
difficile da mantenere per i leader della politica, dell’industria e
della finanza australiani, i quali in ogni caso sono divisi, a seconda
dei rispettivi interessi, tra coloro che auspicano il mantenimento di
relazioni più che cordiali con la Cina e quelli che spingono per un
allineamento incondizionato alle posizioni degli Stati Uniti.
Quel
che è certo è che i media e le campagne elettorali dei principali
partiti australiani eviteranno quasi del tutto di sollevare le delicate
questioni strategiche con cui deve fare i conti il loro paese, anche se
esse rischiano seriamente di trascinarlo in una guerra rovinosa in un
futuro non troppo lontano.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento