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26/04/2016

Miserie e nobiltà del libro Cuore

Di Cuore si è detto nel corso degli ultimi decenni tutto il male possibile. Rimane un libro inequivocabilmente di destra. Trapassata la fase dell’emozione collettiva, superata quella della demolizione necessaria, possiamo invece oggi, in questo centotrentesimo anno dalla pubblicazione, tentarne una sua rivalutazione critica.

Probabilmente Cuore non ha più alcuna centralità pedagogica nella formazione delle giovani generazioni. Venti e passa anni fa era però ancora uno dei testi privilegiati delle scuole elementari. Persiste dunque una sua specificità, nonostante il significato del libro – quello di contribuire alla formazione civica della prima generazione di “italiani” – sia andato disattivandosi nel tempo.

Della necessaria demolizione di questa pastoia di moralismo positivistico, di perbenismo borghese, di interclassismo compassionevole, ha già detto tutto Umberto Eco nel suo Elogio di Franti. Non serve aggiungere altro nel 2016, a cinquantaquattro anni di distanza da una definitiva presa di coscienza che si è andata imponendo come unica lettura possibile nel secolo della lotta di classe. Franti continua a rimanere l’unica via di fuga accettabile, violenta, dissacratrice. Oggi però che il post-moderno ha sostituito i rapporti di produzione di brechtiana memoria, persino un libro come Cuore riesce a recuperare un senso. Si profana il sacro, ma in assenza di quest’ultimo, che significato ricopre oggi la critica al libro di De Amicis?

Abbiamo detto che Cuore si presenta inconfondibilmente come un testo pedagogico di destra. E’ una sintesi forzata ma, tutto sommato, accettabile, laddove per “destra” intendiamo la tendenza all’elegia nazionalistica, la fedeltà al potere costituito – la monarchia nel caso in questione – la centralità del nucleo familiare sulla società, i moralismi interclassisti, la volontà di uno Stato di forgiare una collettività umana in base a una serie di valori a-storici, indefiniti ed eterni. E’ la stessa destra che governa oggi l’Europa? Ci permettiamo qualche dubbio. L’obiettivo implicito ma primario dell’operazione deamicisiana era quello manifesto di associare un consorzio umano diviso da secoli e da pochi anni unito politicamente. Formare pedagogicamente le generazioni dell’unità ai valori e a una morale pubblica. Imporre un etica, una visione del mondo, una forma di cittadinanza, allo scopo di includere la popolazione nello Stato. L’interclassismo stucchevole che emerge ad ogni pagina del libro non si propone di escludere le classi sociali subalterne dal consesso civile, ma di convincerle della naturale differenza sociale insita in una data comunità. Pacificare gli animi attorno ad una morale condivisa, questo il compito rivendicato dall’operazione.

Sebbene fondato su presupposti irricevibili, addirittura ripugnanti in molte sue parti, il libro è comunque lo strumento culturale di un’impresa che oggi non ha epigoni. Oggi le destre politiche e culturali che egemonizzano il discorso pubblico mirano, all’opposto, all’esclusione di quote sempre più maggioritarie di società dal consesso civile dove risiedono i diritti di cittadinanza. Laddove Cuore insegnava ad occuparsi della cosa pubblica, oggi si rivendica il non impegno come forma suprema della libertà individuale; laddove Cuore plasmava nuovi cittadini integrati in una comunità (dai pessimi valori), oggi si punta all’espulsione dei subalterni da ogni possibile partecipazione e rappresentanza. In Cuore è lo Stato – che è un tutt’uno con la monarchia e la morale cattolica – a troneggiare. Oggi lo Stato è il Leviatano da abbattere, recuperando pezzetto dopo pezzetto quegli spazi di a-socialità scambiati per autonomia individualista. Imporre dei “valori” (che in genere sono sbagliati, ma possono essere anche giusti: è comunque un terreno contendibile al nemico) è oggi l’ultimo degli interessi dello Stato e peggio ancora del “libero mercato”. Oggi l’obiettivo è imporre dei non-valori. Una società basata su disvalori veicolati attraverso l’atomizzazione individualistica della sfera valoriale: ogni “cittadino” ha il suo valore, incomprimibile da ogni ente esterno alla persona, non confondibile con gli altri, associabile solo volontariamente. Per giunta, da sancire giuridicamente attraverso operazioni di lobbying più o meno mascherate. L’a-moralità post-contemporanea è di riflesso un’assenza di eticità. In Cuore è presente un’etica sociale, pubblica, manifesta? No, piuttosto una morale privata puritana che assume carattere pubblico solo quando coincidente con la sottomissione. Il rispetto del padre assume valore collettivo quando si trasforma in rispetto per il Re; la sottomissione incondizionata alla famiglia diviene morale pubblica quando corrisponde alla devozione alla patria; la reverenza ai genitori – esplicitata in una serie di formalismi comportamentali – quando si tramuta in ossequio alle immutabili distanze sociali.

Storicizzare Cuore potrebbe servire allora non a recuperare un “tempo perduto” di cui oggi rimpiangeremmo la scomparsa (una società spietata ma con dei valori, piuttosto che quella odierna egualmente spietata ma informe). Al contrario, la demolizione di un’operazione funziona solo in presenza dell’operazione stessa. Ma è tutto il castello che reggeva quell’intenzione ad essere venuto meno. Oggi i primi a sghignazzare di quella messa in scena non sarebbero novelli Franti tramutabili in futuri Gaetano Bresci, ma rampanti Ceo aziendali che dello Stato e di presunte morali pubbliche non saprebbero che farsene. Tutto questo, si potrebbe convenire, complica notevolmente le cose.

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