Di Cuore si è detto nel corso degli ultimi decenni tutto il
male possibile. Rimane un libro inequivocabilmente di destra. Trapassata
la fase dell’emozione collettiva, superata quella della demolizione
necessaria, possiamo invece oggi, in questo centotrentesimo anno dalla
pubblicazione, tentarne una sua rivalutazione critica.
Probabilmente Cuore non
ha più alcuna centralità pedagogica nella formazione delle giovani
generazioni. Venti e passa anni fa era però ancora uno dei testi
privilegiati delle scuole elementari. Persiste dunque una sua
specificità, nonostante il significato del libro – quello di contribuire
alla formazione civica della prima generazione di “italiani” – sia
andato disattivandosi nel tempo.
Della necessaria demolizione di questa
pastoia di moralismo positivistico, di perbenismo borghese, di
interclassismo compassionevole, ha già detto tutto Umberto Eco nel suo Elogio di Franti. Non
serve aggiungere altro nel 2016, a cinquantaquattro anni di distanza da
una definitiva presa di coscienza che si è andata imponendo come unica
lettura possibile nel secolo della lotta di classe. Franti continua a
rimanere l’unica via di fuga accettabile, violenta, dissacratrice. Oggi
però che il post-moderno ha sostituito i rapporti di produzione di
brechtiana memoria, persino un libro come Cuore riesce a
recuperare un senso. Si profana il sacro, ma in assenza di quest’ultimo,
che significato ricopre oggi la critica al libro di De Amicis?
Abbiamo detto che Cuore si presenta inconfondibilmente come
un testo pedagogico di destra. E’ una sintesi forzata ma, tutto sommato,
accettabile, laddove per “destra” intendiamo la tendenza all’elegia
nazionalistica, la fedeltà al potere costituito – la monarchia nel caso
in questione – la centralità del nucleo familiare sulla società,
i moralismi interclassisti, la volontà di uno Stato di forgiare una
collettività umana in base a una serie di valori a-storici, indefiniti
ed eterni. E’ la stessa destra che governa oggi l’Europa? Ci
permettiamo qualche dubbio. L’obiettivo implicito ma primario
dell’operazione deamicisiana era quello manifesto di associare un
consorzio umano diviso da secoli e da pochi anni unito politicamente.
Formare pedagogicamente le generazioni dell’unità ai valori e a una
morale pubblica. Imporre un etica, una visione del mondo, una forma di
cittadinanza, allo scopo di includere la popolazione nello Stato. L’interclassismo stucchevole che emerge ad ogni pagina del libro non si propone di escludere le
classi sociali subalterne dal consesso civile, ma di convincerle della
naturale differenza sociale insita in una data comunità. Pacificare gli
animi attorno ad una morale condivisa, questo il compito rivendicato
dall’operazione.
Sebbene fondato su presupposti irricevibili, addirittura ripugnanti
in molte sue parti, il libro è comunque lo strumento culturale di
un’impresa che oggi non ha epigoni. Oggi le destre politiche e culturali
che egemonizzano il discorso pubblico mirano, all’opposto,
all’esclusione di quote sempre più maggioritarie di società dal consesso
civile dove risiedono i diritti di cittadinanza. Laddove Cuore insegnava ad occuparsi della cosa pubblica, oggi si rivendica il non impegno come forma suprema della libertà individuale; laddove Cuore plasmava
nuovi cittadini integrati in una comunità (dai pessimi valori), oggi si
punta all’espulsione dei subalterni da ogni possibile partecipazione e
rappresentanza. In Cuore è lo Stato – che è un
tutt’uno con la monarchia e la morale cattolica – a troneggiare. Oggi
lo Stato è il Leviatano da abbattere, recuperando pezzetto dopo pezzetto
quegli spazi di a-socialità scambiati per autonomia individualista.
Imporre dei “valori” (che in genere sono sbagliati, ma possono essere
anche giusti: è comunque un terreno contendibile al nemico) è oggi
l’ultimo degli interessi dello Stato e peggio ancora del “libero
mercato”. Oggi l’obiettivo è imporre dei non-valori. Una
società basata su disvalori veicolati attraverso l’atomizzazione
individualistica della sfera valoriale: ogni “cittadino” ha il suo
valore, incomprimibile da ogni ente esterno alla persona, non
confondibile con gli altri, associabile solo volontariamente.
Per giunta, da sancire giuridicamente attraverso operazioni di lobbying
più o meno mascherate. L’a-moralità post-contemporanea è di riflesso
un’assenza di eticità. In Cuore è presente un’etica sociale,
pubblica, manifesta? No, piuttosto una morale privata puritana che
assume carattere pubblico solo quando coincidente con la sottomissione.
Il rispetto del padre assume valore collettivo quando si trasforma in
rispetto per il Re; la sottomissione incondizionata alla famiglia
diviene morale pubblica quando corrisponde alla devozione alla patria;
la reverenza ai genitori – esplicitata in una serie di formalismi
comportamentali – quando si tramuta in ossequio alle immutabili distanze
sociali.
Storicizzare Cuore potrebbe servire allora non a recuperare
un “tempo perduto” di cui oggi rimpiangeremmo la scomparsa (una società
spietata ma con dei valori, piuttosto che quella odierna egualmente
spietata ma informe). Al contrario, la demolizione di un’operazione
funziona solo in presenza dell’operazione stessa. Ma è tutto il castello
che reggeva quell’intenzione ad essere venuto meno. Oggi i primi a
sghignazzare di quella messa in scena non sarebbero novelli Franti
tramutabili in futuri Gaetano Bresci, ma rampanti Ceo aziendali
che dello Stato e di presunte morali pubbliche non saprebbero che
farsene. Tutto questo, si potrebbe convenire, complica notevolmente le
cose.
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