A una settimana dal voto sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea, la campagna referendaria entra nel vivo.
Il primo ministro Cameron, promotore del referendum (scaturito da una promessa elettorale nella campagna delle Politiche del 2015, al fine di arginare il potenziale attrattivo dell’UKIP di Nigel Farage), e capo del fronte schierato a favore della permanenza, si trova a dover fronteggiare ora una situazione probabilmente non preventivata. I sondaggi fotografano infatti una totale incertezza, frutto di un grande equilibrio e di un grosso numero di indecisi, con una forte accelerazione, negli ultimi giorni, delle intenzioni di voto pro-Brexit [1].
La posta in gioco è altissima: di sicuro, il referendum avrà pesantissime ripercussioni anche sulla politica interna e sugli equilibri del Partito Conservatore. L’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, a capo della campagna per la fuoriuscita dalla UE, spera di potere utilizzare una eventuale vittoria nel voto del 23 Giugno anche per guadagnare la posizione di primo ministro, a scapito del suo collega di partito.
In uno scenario simile è naturale, per Cameron, ricercare alleanze insolite, al fine di portare a casa la pagnotta e salvare la propria pelle. Di qui, la necessità di uno “sfondamento a sinistra” delle ragioni del Remain; molte delle analisi proposte dagli istituti demoscopici ravvisano infatti nell’elettorato laburista delle ex roccaforti manifatturiere del Nord dell’Inghilterra il vero ago della bilancia che potrebbe decidere l’esito della consultazione. Un’area geografica dal solido profilo working class, che ha sofferto, più di ogni altra, i processi di de-industrializzazione e smantellamento degli apparati produttivi, avvenuti a seguito dell’applicazione delle ricette neoliberiste e della globalizzazione dell’economia, e perciò particolarmente ostile all’Unione Europea. È questo, dunque, il bacino di voti che il Remain deve conquistare.
E, con grande pragmatismo, il premier britannico ha deciso di farlo stringendo un implicito patto con i più tradizionali avversari del Partito Conservatore: le Trade Unions. Nonostante una perdita di influenza (ad oggi, solo 6 milioni di britannici risultano iscritti ad un sindacato; nel settore privato il tasso di sindacalizzazione è pari ad un modesto 6%), frutto di una legislazione in materia tra le più restrittive al mondo, i sindacati britannici conservano ancora un ruolo di cinghia di trasmissione del Partito Laburista (essendo molti di essi direttamente affiliati al Labour), costituendone, tramite i rispettivi fondi politici, i maggiori finanziatori.
Durante lo scorso autunno, il governo Cameron aveva addirittura messo in cantiere un progetto di legge (noto come Trade Unions Bill) [2], volto ad operare un ulteriore giro di vite sulle libertà sindacali, rendendo quasi impossibile la proclamazione di scioperi ed altre forme di agitazione sui luoghi di lavoro, e a riformare le modalità tramite le quali i sindacati possono finanziare i partiti politici (come detto, essenzialmente il Partito Laburista), destinando ad essi parte delle quote d’iscrizione versate dai propri membri.
La conversione in legge del disegno, avvenuta agli inizi di Maggio, ha però visto l’approvazione di alcuni emendamenti volti ad addolcire, seppur in maniera minima, le parti più odiose del provvedimento (riguardanti le modalità di svolgimento dei referendum interni ai sindacati per l’indizione degli scioperi), oltre al rinvio dei decreti attuativi al prossimo autunno [3]. Un chiaro tentativo, a detta di molti militanti del sindacalismo conflittuale britannico, di blandire i vertici delle Trade Unions in vista del referendum. Un tentativo andato perfettamente a segno, a giudicare dall’entusiasmo col quale Frances O’Grady, segretaria generale del Trade Union Congress (TUC), partecipa alla campagna a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Al punto da affermare che un’eventuale Brexit “metterebbe a rischio molti diritti dei lavoratori, attualmente salvaguardati dalla UE”. Una posizione condivisa dai maggiori sindacati (UNITE, GMB, UNISON) affiliati al TUC, impegnati, in questi giorni, nelle iniziative referendarie del fronte del Remain, con argomenti che paiono ignorare l’enorme arretramento registrato, negli ultimi decenni, nel Regno Unito (ed ovunque nel continente) sul terreno delle condizioni della working class, nonostante (o grazie a...) l’appartenenza all’Unione.
Dunque, Cameron e le burocrazie sindacali britanniche procedono a braccetto. Al punto da spingere autorevoli commentatori a parlare di “strange bedfellows” (strani compagni di letto) a proposito di questa insolita accoppiata [4].
Al di là di come la si pensi sulla Brexit, provoca tristezza vedere la stragrande maggioranza dei dirigenti sindacali britannici (fatta salva qualche eccezione) rinnegare la propria storia (gloriosa), ed un secolo di conquiste, sostenendo che i diritti dei lavoratori siano sostanzialmente dovuti all’Unione Europea. Quasi come se si parlasse di elargizioni, e non di avanzamenti frutto di lotte generose, costate grandi sacrifici al movimento operaio. Affermazioni che mettono in luce i danni prodotti dall’ultimo quarantennio di sbornia neoliberista, anche per quel che concerne la possibilità di conservare un punto di vista autonomo della classe lavoratrice.
In questo panorama spiccano le voci delle combattive Trade Union RMT (lavoratori dei trasporti), ASLEF (macchinisti ferroviari), BFAWU (industria alimentare), protagoniste della campagna Trade Unionists Against EU. “Il fatto che l’Unione Europea rappresenti un organismo che favorisca i diritti dei lavoratori è un mito da sfatare. Nei fatti, l’UE sta sviluppando nuove politiche volte ad attaccare le libertà sindacali, la contrattazione collettiva, la salvaguardia dei livelli occupazionali e salariali. Condizioni simili sono già state imposte nei paesi che hanno dovuto accettare le condizioni di bailout”, ha dichiarato Mick Cash, segretario dell’RMT.
Risorse Online
[1]Sondaggio, pubblicato dal quotidiano “The Independent”, che assegna un margine di 10 punti all’opzione di uscita: http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/eu-referendum-poll-brexit-leave-campaign-10-point-lead-remain-boris-johnson-nigel-farage-david-a7075131.html
[2] Il testo complete del Trade Unions Bill: http://services.parliament.uk/bills/2015-16/tradeunion.html
[3] Articolo sulla parziale “inversione ad U” del Governo Cameron sul Trade Unions Bill, e sugli emendamenti ad esso apportati: http://www.theguardian.com/politics/2016/apr/26/no-10-makes-new-u-turn-over-trade-union-bill
[4] Articolo sulla strana alleanza anti-Brexit tra Cameron e le Trade Unions: http://www.theguardian.com/commentisfree/2016/apr/28/david-cameron-unions-brexit-trade-union-bill-brendan-barber
Fonte
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