di Michele Paris
L’orribile
tragedia avvenuta nella notte tra sabato e domenica a Orlando, in
Florida, è stata puntualmente seguita da rivelazioni e commenti,
rilasciati dagli esponenti politici americani, che ricalcano in maniera
inquietante quelli già registrati in seguito a praticamente tutti gli
episodi di sangue di questo genere accaduti in questi anni negli USA e
altrove.
Le reazioni del presidente Obama e dei candidati alla
sua successione, Hillary Clinton e Donald Trump, hanno avuto toni
diversi, ma tutti hanno prevedibilmente mancato di fare anche un minimo
riferimento alle ragioni di ordine sociale e politico che stanno dietro
alla manifestazione violenta e distorta della profondissima crisi della
società e del sistema di potere negli Stati Uniti.
Se le
motivazioni ultime che hanno spinto il 29enne Omar Mateen, nativo di New
York ma di origine afgana, a commettere una strage nel night club gay
Pulse non si conoscono e forse non si conosceranno mai, è evidente che
il moltiplicarsi di assassini di massa in America non può essere
ricondotto semplicemente a concetti astratti come “odio” o “male”, né
alla mancanza di regolamentazioni stringenti sulla vendita di armi in
questo paese.
I possibili legami di Mateen a una qualche rete
terroristica internazionale sono inoltre tutti da dimostrare, nonostante
la dubbia rivendicazione dello Stato Islamico (ISIS) giunta poco dopo
la sparatoria e il “giuramento” al califfato fatto dall’attentatore in
una telefonata al numero di emergenza 911 durante l’assalto alla
discoteca.
L’ex moglie di Mateen ha parlato di una (breve) vita
di coppia fatta di abusi, mentre il padre, attivista afgano impegnato
contro il governo-fantoccio di Washington al potere a Kabul, ha escluso
la motivazione religiosa, facendo riferimento piuttosto al risentimento
del figlio nei confronti degli omosessuali.
Ragioni personali e
psicologiche possono essersi perciò fuse ai contraccolpi sociali
provocati dall’attività criminale di un governo, come quello americano,
in perenne stato di guerra, soprattutto contro paesi musulmani,
spingendo Mateen, come già altri individui chiaramente disturbati, ad
abbracciare anche solo idealmente il fondamentalismo islamico e a
portare a termine un atto di violenza indicibile che è costato finora la
vita a 49 persone innocenti.
L’atmosfera tossica venutasi a
creare negli Stati Uniti del dopo 11 settembre, fatta di repressione,
violenza, promozione di forze ultra-reazionarie, deve svolgere un ruolo
nella preparazione di ripetute stragi di massa che, con questa frequenza
e gravità, non si registrano in nessun altro paese del mondo.
Questa
realtà stride fortemente con la sterile risposta offerta dal presidente
Obama alla strage di domenica. L’inquilino uscente della Casa Bianca
non ha come al solito speso una sola parola per cercare di spiegare
l’accaduto, se non riferendosi a un altro atto di “terrore e odio”, ma
si è limitato a invitare gli americani a “stare uniti” e ha promesso di
“proteggere... e difendere la nostra nazione”, nonché di “agire contro
coloro che ci minacciano”.
Obama, va ricordato, è stato costretto
a fronteggiare pubblicamente un’altra strage, l’ennesima che ha
caratterizzato la sua amministrazione, solo un paio di giorni dopo la
notizia della sua autorizzazione all’escalation della guerra in
Afghanistan, rimangiandosi sostanzialmente la promessa di mettere fine a
questo interminabile conflitto.
Trump, da parte sua, ha
riproposto le proprie teorie razziste per spiegare la violenza
terroristica o presunta tale, assieme al rilancio del divieto di
ingresso negli Stati Uniti di tutti gli stranieri di fede musulmana.
Cosa, quest’ultima, evidentemente inutile per prevenire il massacro del
fine settimana, vista la nascita e la cittadinanza americana di Omar
Mateen.
La reazione più minacciosa è stata però quella di Hillary
Clinton, la quale ha riassunto alla perfezione, e in modo non troppo
velato, la volontà della classe dirigente USA di sfruttare simili
eventi, ma soprattutto il dolore e il disorientamento che suscitano tra
la popolazione, per giustificare ulteriori iniziative improntate al
militarismo e alla compressione dei diritti democratici. Il tutto per
rendere gli Stati Uniti un posto più sicuro.
Fermo
restando dunque il dubbio sulla matrice dell’assalto al night club di
Orlando, è inevitabile rilevare come ancora una volta la condotta delle
forze di polizia di un paese occidentale – in questo caso l’FBI –
sollevi una lunga serie di interrogativi. Soprattutto in considerazione
dei poteri di sorveglianza e controllo sulla popolazione senza
precedenti garantiti negli Stati Uniti da leggi del Congresso, direttive
presidenziali e sentenze di tribunali.
Sono bastate infatti
poche ore dopo la sparatoria a rivelare che Mateen era finito non una ma
due volte all’attenzione del “Bureau” nel recente passato. Nel 2013, il
giovane con origini afgane era stato sentito da agenti federali in
seguito alla denuncia di un suo collega di lavoro, secondo il quale
Mateen aveva vantato possibili collegamenti con organizzazioni
terroriste.
Un anno dopo, l’FBI era di nuovo su Mateen,
sospettato di essere entrato in contatto con Moner Mohammad Abusalha,
cresciuto in Florida e primo cittadino americano a farsi esplodere in
Siria, dove combatteva nelle file del Fronte al-Nusra, filiale di
al-Qaeda nel paese mediorientale.
Il fatto che entrambe le
indagini fossero state chiuse senza ulteriori provvedimenti da parte
dell’FBI non esaurisce la questione. Il livello di paranoia ostentato
dall’apparato della sicurezza nazionale americano e l’incriminazione o
la condanna di sospettati di terrorismo in casi con fondamenta
praticamente inesistenti, non spiegano come Mateen abbia potuto
continuare a lavorare indisturbato per una nota società che fornisce
servizi di sicurezza e avere accesso ad armi di vario genere, sia
attraverso il proprio impiego sia tramite un acquisto fatto la settimana
prima della strage.
Il potenziale violento di Mateen era quindi
facilmente ipotizzabile da parte dell’FBI, visto il suo possesso di un
porto d’armi rilasciato dallo stato della Florida, ma in qualche modo la
polizia federale americana non ha ritenuto esserci elementi per
sottoporlo a sorveglianza o renderlo inoffensivo.
Questi stessi
elementi giudicati inesistenti nel caso dell’attentatore di Orlando
sembravano invece essere presenti, a detta dell’FBI e del Dipartimento
di Giustizia di Obama, in altri casi presumibilmente di natura
terroristica in cui il “Bureau” è stato impegnato nei mesi scorsi,
quando Mateen stava verosimilmente studiando il proprio obiettivo.
Uno
di questi casi riguarda ad esempio James Gonzalo Medina, senzatetto di
Miami con documentati problemi mentali, finito di recente agli arresti
dopo essere stato al centro di una delle tante operazioni sotto
copertura dell’FBI che prevedono la fabbricazione di trame terroristiche
da parte di agenti in incognito al fine di incastrare un malcapitato
potenziale terrorista.
In
queste operazioni, l’FBI fornisce direttamente armi – spesso
inutilizzabili – ai sospettati oppure, in alcuni casi, consente a questi
ultimi di acquistarle direttamente, salvo poi procedere all’arresto
prima che essi mettano in pratica i propositi terroristici alimentati a
dovere dagli stessi agenti federali.
Se al momento non esistono
elementi che facciano pensare per la strage di Orlando a un’operazione
sotto copertura dell’FBI finita male, è però altrettanto evidente che,
alla luce di quanto già emerso e anche dei dettagli resi noti in seguito
ai precedenti attentati negli USA e in Europa, le forze di polizia non
possono essere in nessun modo sollevate sommariamente da quelle che
appaiono ancora una volta come pesanti, e forse decisive,
responsabilità.
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