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14/06/2016

Orlando: come spiegare la strage fra Isis, omofobia e violenza sociale?

Sconvolgente e poco chiara questa strage di Orlando. Sconvolgente per l’incredibile facilità con cui uno spostato qualsiasi può fare 50 morti e 53 feriti da solo, prima di essere fermato. Poco chiara sugli scopi e le caratteristiche dell’episodio nel quale omofobia e fondamentalismo islamico si fondono e si confondono. Ed ancora: l’assassino era un regolare dell’Isis o un lupo solitario? La rivendicazione dell’Isis, successiva alla strage, non chiarisce nulla: è ovvio che in un momento in cui il Califfato se la sta vedendo brutta, ha tutto l’interesse a rivendicare anche il gesto isolato di un lupo solitario, per dare l’impressione di aver riaperto il fronte terroristico in occidente.

A far dubitare che si tratti di una azione decisa a Raqqa e fatta eseguire ad un lontano militante, stanno diverse cose: ad esempio l’Isis ed i suoi predecessori non hanno mai colpito in Usa, a differenza di Al Quaeda, preferendo l’Europa e il Medio Oriente, né ci sono stati segnali di attivazione di cellule dormienti prima della strage, la madre lo dipinge come instabile, aggressivo e poco religioso (cosa strana per uno jihadista).

Né le cose poco chiare finiscono qui: l’attentatore sarebbe stato schedato dall’Fbi ma, nonostante qualche ragione contraria, messo tranquillamente in libertà. Che nella scelta dell’obbiettivo ci fosse una chiara volontà omofoba lo confermano i ricordi del padre, ma questo non vorrebbe dire perché l’omofobia è molto diffusa fra gli jhiadisti. Peraltro, l’episodio si perde nel marasma di casi simili in cui uno studente bianco ed americanissimo è andato nel suo college ed ha mitragliato colleghi e docenti, il taxista impazzito che ha cominciato a sparare dalla sua auto in piena strada, e così via. Ovviamente, alla base di questo c’è la libera vendita di armi, per cui un privato cittadino può comperare tranquillamente un’arma da guerra come un sacchetto di popcorn e proibire questa insana pratica è certamente il primo passo da fare. Ma non illudiamoci, sarebbe solo un modo per rallentare la degenerazione in atto, non un modo per risalire la china.

Il punto è che non abbiamo più il controllo della violenza sociale. E’ del tutto fisiologico che in una società ci sia un certo tasso di aggressività, connessa ai conflitti privati o pubblici, alle nevrosi più o meno diffuse eccetera, che si trasforma in violenza e questo può accentuarsi in determinati momenti ad esempio di crisi, di mutamento, di guerra o nei quali aumenti lo stress. Classicamente l’argine all’eccesso di violenza è rappresentato in primo luogo dalle resistenze dell’ambiente che interviene, in qualche modo, per contrastare l’azione dei violenti (quantomeno, parliamo dei casi di violenza privata e non di tipo politico). In secondo luogo, l’argine è opposto dagli apparati di sicurezza pubblica che controllano il territorio.

In Occidente (e negli Usa in particolare) abbiamo atomizzato il corpo sociale in una deriva iper individualistica, mentre gli apparati non esercitano più alcun controllo dell’aggressività sociale. Noi viviamo in società che da 70 anni non conoscono la guerra se non come proiezione esterna e lontana. Questo significa che quasi tre generazioni hanno consumato la propria esistenza in un tempo di pace (o comunque, non di guerra classica). Di questo non possiamo che essere contenti, ma sbaglierebbe chi pensasse che anche la pace non abbia i suoi effetti contro intuitivi, ad esempio, disarmando psicologicamente una parte della popolazione, rilassando costumi e pratiche di sicurezza, indebolendo l’ego sociale il che, per converso, esalta l’ego individuale dei più aggressivi. Non dico che ci voglia una bella guerra con eccidi e bombardamenti (per carità), ma che questa situazione abbia prodotto, soprattutto sul piano della psicologia sociale, problemi imprevisti ai quali dobbiamo far fronte. Nel 2007 uscì un libro di Anthony Elliott e Charles Lemert  (“Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazioneEinaudi), che contiene molti spunti sul tema meritevoli di approfondimento. Ve lo segnalo.

E’ solo con il terrorismo che le nostre generazioni hanno scoperto una forma, anche se attenuata, di guerra sul proprio territorio e questo sta dimostrando ampiamente l’inadeguatezza psicologica delle nostre società rispetto al tema della violenza che si riteneva per sempre espulsa dalla storia, per lo meno in questa parte di mondo. E, come dimostra il caso di Orlando, il terrorismo non va disgiunto da altre forme di violenza (come, ad esempio, omofobia, uccisioni di donne – di cui scriveremo a breve –, violenza da stadio, brutalità ingiustificata delle forze di polizia, stragi con moventi psichiatrici privati ecc.) ed il tema deve essere affrontato, tanto sul piano educativo quanto su quello psicologico, nel suo complesso. Ad esempio occorre studiare attentamente tutte quelle condizioni di vita quotidiana che aumentano lo stress (dall’eccesso di luce e rumore anche in orari notturni, ai frenetici ritmi di vita, dal martellamento pubblicitario alle condizioni di lavoro segnate da un orario troppo prolungato e così via): sono anche queste le ragioni dell’inasprirsi dell’aggressività. Così come occorre ripensare le forme  di organizzazione del territorio: nelle metropoli sempre più grandi diventa sempre meno efficace il controllo da parte degli apparati di sicurezza, come dimostra il ritardo dell’intervento della polizia ad Orlando. Ed occorre anche ripensare più in generale le forme della libertà individuale che, sfociate in un assurdo iper individualismo, di fatto producono l’insopportabilità del divieto e, dunque, rifiuto della norma. Ma senza norma non c’è forma sociale. Magari ricordiamocelo.

Poi c’è anche il problema del terrorismo e del che fare per contrastarlo sul serio e non con le inutili parate e gli ancor più inutili sfoghi verbali. E forse questa capacità autocritica sarà il nostro migliore omaggio a quei cinquanta ragazzi assassinati due giorni fa.

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