Sconvolgente e poco chiara questa strage di Orlando.
Sconvolgente per l’incredibile facilità con cui uno spostato qualsiasi
può fare 50 morti e 53 feriti da solo, prima di essere fermato. Poco
chiara sugli scopi e le caratteristiche dell’episodio nel quale omofobia
e fondamentalismo islamico si fondono e si confondono. Ed ancora:
l’assassino era un regolare dell’Isis o un lupo solitario? La
rivendicazione dell’Isis, successiva alla strage, non chiarisce nulla: è
ovvio che in un momento in cui il Califfato se la sta vedendo brutta,
ha tutto l’interesse a rivendicare anche il gesto isolato di un lupo
solitario, per dare l’impressione di aver riaperto il fronte
terroristico in occidente.
A far dubitare che si tratti di una
azione decisa a Raqqa e fatta eseguire ad un lontano militante, stanno
diverse cose: ad esempio l’Isis ed i suoi predecessori non hanno mai
colpito in Usa, a differenza di Al Quaeda, preferendo l’Europa e il
Medio Oriente, né ci sono stati segnali di attivazione di cellule
dormienti prima della strage, la madre lo dipinge come instabile,
aggressivo e poco religioso (cosa strana per uno jihadista).
Né le cose poco chiare finiscono qui: l’attentatore sarebbe stato schedato dall’Fbi
ma, nonostante qualche ragione contraria, messo tranquillamente in
libertà. Che nella scelta dell’obbiettivo ci fosse una chiara volontà
omofoba lo confermano i ricordi del padre, ma questo non vorrebbe dire
perché l’omofobia è molto diffusa fra gli jhiadisti. Peraltro,
l’episodio si perde nel marasma di casi simili in cui uno studente
bianco ed americanissimo è andato nel suo college ed ha mitragliato
colleghi e docenti, il taxista impazzito che ha cominciato a sparare
dalla sua auto in piena strada, e così via. Ovviamente, alla base di
questo c’è la libera vendita di armi, per cui un
privato cittadino può comperare tranquillamente un’arma da guerra come
un sacchetto di popcorn e proibire questa insana pratica è certamente il
primo passo da fare. Ma non illudiamoci, sarebbe solo un modo per
rallentare la degenerazione in atto, non un modo per risalire la china.
Il punto è che non abbiamo più il controllo della violenza sociale.
E’ del tutto fisiologico che in una società ci sia un certo tasso di
aggressività, connessa ai conflitti privati o pubblici, alle nevrosi più
o meno diffuse eccetera, che si trasforma in violenza e questo può
accentuarsi in determinati momenti ad esempio di crisi, di mutamento, di
guerra o nei quali aumenti lo stress. Classicamente l’argine
all’eccesso di violenza è rappresentato in primo luogo dalle resistenze
dell’ambiente che interviene, in qualche modo, per contrastare l’azione
dei violenti (quantomeno, parliamo dei casi di violenza privata e non di
tipo politico). In secondo luogo, l’argine è opposto dagli apparati di
sicurezza pubblica che controllano il territorio.
In Occidente (e negli Usa in particolare) abbiamo atomizzato il corpo sociale in una deriva iper individualistica,
mentre gli apparati non esercitano più alcun controllo
dell’aggressività sociale. Noi viviamo in società che da 70 anni non
conoscono la guerra se non come proiezione esterna e lontana. Questo
significa che quasi tre generazioni hanno consumato la propria esistenza
in un tempo di pace (o comunque, non di guerra classica). Di questo non
possiamo che essere contenti, ma sbaglierebbe chi pensasse che anche la
pace non abbia i suoi effetti contro intuitivi, ad esempio, disarmando
psicologicamente una parte della popolazione, rilassando costumi e
pratiche di sicurezza, indebolendo l’ego sociale il che, per converso,
esalta l’ego individuale dei più aggressivi. Non dico che ci voglia una
bella guerra con eccidi e bombardamenti (per carità), ma che questa
situazione abbia prodotto, soprattutto sul piano della psicologia
sociale, problemi imprevisti ai quali dobbiamo far fronte. Nel 2007 uscì
un libro di Anthony Elliott e Charles Lemert (“Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione” Einaudi), che contiene molti spunti sul tema meritevoli di approfondimento. Ve lo segnalo.
E’ solo con il terrorismo che le nostre
generazioni hanno scoperto una forma, anche se attenuata, di guerra sul
proprio territorio e questo sta dimostrando ampiamente l’inadeguatezza psicologica delle nostre società rispetto al tema della violenza
che si riteneva per sempre espulsa dalla storia, per lo meno in questa
parte di mondo. E, come dimostra il caso di Orlando, il terrorismo non
va disgiunto da altre forme di violenza (come, ad esempio, omofobia,
uccisioni di donne – di cui scriveremo a breve –, violenza da stadio,
brutalità ingiustificata delle forze di polizia, stragi con moventi
psichiatrici privati ecc.) ed il tema deve essere affrontato, tanto sul
piano educativo quanto su quello psicologico, nel suo complesso. Ad
esempio occorre studiare attentamente tutte quelle condizioni di vita
quotidiana che aumentano lo stress (dall’eccesso di luce e rumore anche
in orari notturni, ai frenetici ritmi di vita, dal martellamento
pubblicitario alle condizioni di lavoro segnate da un orario troppo
prolungato e così via): sono anche queste le ragioni dell’inasprirsi
dell’aggressività. Così come occorre ripensare le forme di
organizzazione del territorio: nelle metropoli sempre più grandi diventa
sempre meno efficace il controllo da parte degli apparati di sicurezza,
come dimostra il ritardo dell’intervento della polizia ad Orlando. Ed
occorre anche ripensare più in generale le forme della libertà
individuale che, sfociate in un assurdo iper individualismo, di fatto
producono l’insopportabilità del divieto e, dunque, rifiuto della norma.
Ma senza norma non c’è forma sociale. Magari ricordiamocelo.
Poi c’è anche il problema del terrorismo
e del che fare per contrastarlo sul serio e non con le inutili parate e
gli ancor più inutili sfoghi verbali. E forse questa capacità
autocritica sarà il nostro migliore omaggio a quei cinquanta ragazzi
assassinati due giorni fa.
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