Mauro di Vito - Il Manifesto
Chimiary piange nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Fermo. I medici le hanno appena detto che suo marito è in coma irreversibile e che nel giro di poche ore i macchinari verranno staccati perché non c’è più nulla da fare. Lui si chiama Emmanuel, nigeriano di 36 anni, e martedì pomeriggio è stato massacrato di botte a Fermo all’imbocco di via Veneto, a due passi dal Seminario. Stavano passando di lì, Emmanuel e Chimiary, per andare a prendere una crema per proteggersi dal sole, e hanno incrociato due uomini seduti su una panchina. Uno ha alzato lo sguardo e, dopo aver guardato la donna, ha detto: «Scimmia», sghignazzando e dando di gomito all’amico seduto di fianco. Emmanuel si è avvicinato, la situazione è degenerata, il nigeriano è stato prima colpito alla testa con un palo della segnaletica stradale e poi ha continuato a prendere calci e pugni quando era ormai inerte, forse addirittura già in coma. Gli aggressori – ancora a piede libero – sono stati riconosciuti come vicini agli ambienti fascistoidi che ruotano intorno alla curva della Fermana. A.M., quello che avrebbe colpito Emmanuel con il cartello stradale, ha un Daspo che da quattro anni gli vieta di entrare allo stadio. Le indagini sono ancora in corso e dopo la morte del 36enne il reato da aggressione per gli inquirenti è diventato omicidio.
Storia di ordinario razzismo dalla provincia cronica e crudele: mentre Emmanuel era ancora in coma ha cominciato a discutere se il fatto debba per forza essere catalogato come «crimine d’odio» o se si sia trattato di una «semplice rissa».
Anche l’amministrazione comunale, per ora, aspetta l’esito dell’inchiesta e il sindaco Paolo Calcinaro, pur condannando «il germe del razzismo», invita tutte le parti «ad abbassare i toni» perché «quanto accaduto crea un gravissimo danno alla comunità fermana».
Don Vinicio Albanesi della Comunità di Capodarco non ha paura a schierarsi: «Mi costituirò parte civile come presidente della Fondazione Caritas in Veritate alla quale i due erano stati affidati. Noi comunque non invochiamo vendetta: chi ha commesso l’aggressione ha sì rovinato la vita del ragazzo e della sua compagna, ma anche la propria e quella della propria famiglia. L’odio porta solo odio».
La paura è che tutto diventi ancora più complicato di quanto già non sia adesso. Su 124 rifugiati, 19 sono di nazionalità nigeriana, tutti sconvolti per quanto accaduto, quasi increduli di fronte a un’esplosione di violenza inaudita ma certo non inaspettata: «piccola città, bastardo posto», qui la presenza di migranti fa discutere (tanto) ogni estate, quando con la bella stagione ricominciano anche gli sbarchi e si attivano le associazioni che si occupano di accoglienza, con i rifugiati che vengono alloggiati qua e là per la provincia. Fastidio, chiacchiere, occhiate ora intimorite e ora minacciose. Poi arriva l’episodio violento. Poi si dimentica. Poi si ricomincia. Qualche giorno fa, appena quaranta chilometri più a sud, a San Benedetto del Tronto, due bengalesi sono stati aggrediti perché non conoscevano la parola del Vangelo.
Emmanuel e Chimiary erano cattolici, scappati dalla Nigeria, hanno attraversato il Niger, la Libia e il Mediterraneo prima di essere mandati a Fermo in attesa che la loro richiesta di asilo venisse esaminata. Lei durante il tragitto aveva perso il bambino che portava in grembo. Lo scorso gennaio la coppia aveva deciso di sposarsi, cosa che formalmente non era possibile vista l’assenza di documenti. Don Vinicio aveva deciso di procedere comunque: cerimonia messa in piedi nella chiesa di San Marco alle Paludi: «Ho fatto fare loro una promessa di matrimonio – racconta il sacerdote –, ho utilizzato un rito medievale che consente questa formula e poi abbiamo festeggiato tutti insieme». Sposi irregolari perché l’amore non sempre ha bisogno di una burocrazia.
Era il tentativo di costruire una vita normale, a migliaia di chilometri da casa certo, ma almeno con la prospettiva di potercela fare, un giorno magari neanche troppo lontano. Emmanuel sarà sepolto al cimitero di Capodarco, sempre per intercessione della fondazione di don Albanesi. A Chimiary è stato invece chiesto il consenso per la donazione degli organi di suo marito. Difficile: senza documenti non si può fare neanche quello.
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