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07/07/2016

L’accordo con il Canada basta a sfasciare L’Unione Europea?

Gli effetti della Brexit, una volta tanto, sono più rapidi nella sfera politica che sui mercati finanziari. Questi ultimi, dopo un capitombolo stratosferico (-12% in un solo giorno), hanno rapidamente preso confidenza con il fatto che per il distacco reale servirà tempo; minimo due anni, in pratica molti di più. Se non altro perché a Londra i capifila mainstream della Brexit (Johnson e Farage) hanno subito alzato bandiera bianca e rinunciato a gestire un passaggio a tutti gli effetti storico. Le borse, dopo aver recuperato terreno, hanno ripreso a perdere, ma la loro attenzione non va alla Gran Bretagna, quanto allo stato comatoso di buona parte del sistema bancario europeo

Sistema niente affatto omogeneo, con i paesi del Nord ingabbiati oltre il livello di guardia con la melma tossica dei “prodotti derivati”, e quelli del Sud azzoppati dalle “sofferenze” (prestiti non restituibili da parte di imprese e famiglie). Per la struttura dei mercati finanziari globali il secondo handicap è molto più grave del primo (un caso evidente di strabismo interessato, viste le dimensioni abnormi del primo handicap), quindi l’Unione Europea monta la guardia soprattutto alle soluzioni “salvifiche” in via di preparazione in Italia e non solo. Ma si sa, “il diritto è il riconoscimento del fatto”, e a poco servono le battutine di Renzi verso i tedeschi (peraltro nemmeno nominati).

La situazione finanziaria è talmente preoccupante che Jamie Dimon, ceo di Jp Morgan (la banca d’affari che tre anni fa scriveva sulla necessità di abbattere le “Costituzioni socialiste” dell’Europa mediterranea), trova ora “utile” che i soldi pubblici siano usati per rafforzare la capitalizzazione delle banche private:

“Le normative europee non consentono l’intervento pubblico nel capitale delle banche senza burden sharing, ma un accordo per mitigare queste regole in circostanze speciali, nell’incertezza di questi giorni, può meritare” (dall’intervista concessa a IlSole24Ore).

L’importante, detto fuori dai denti, è che “arrivati ad un certo punto i regolatori debbano ridurre la quantità di regole per consentire alle banche di fare il proprio mestiere: finanziare l’economia. La cosa più importante ora è la crescita e non l’introduzione di centinaia di nuove regole”.

Anche perché, a parere di Jp Morgan, intorno al tavolo delle decisioni europee ci sono “troppe persone”; soprattutto non sempre sono quelle che la stessa considera “giuste”. Non è difficile immaginare per cosa siano da considerare “giuste”.

L’intervista arriva a meno di 48 ore dalla decisione della Commissione Europea di approvare a “procedura mista” l’accordo di libero scambio con il Canada, chiamato Ceta. L’accordo anticipa molte delle tematiche e delle soluzioni che fanno parte anche del Ttip (tra Ue e Stati Uniti), anzi è decisamente meno “invasivo” di quest’ultimo. Vi si prevedono infatti la tutela dei marchi “doc” – quasi sempre solo europei – l’attenzione alla compatibilità ambientale un certo grado (minimo) di tutela dei lavoratori dipendenti, ecc.

“Procedura mista” significa che l’accordo dovrà esser ratificato sia dalla Commissione che dai 38 parlamenti dei 28 paesi dell’Unione (Gran Bretagna compresa, visto che non ha ancora notificato la richiesta d’uscita mediante l’attivazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona). In pratica è praticamente impossibile che una di queste assemblee parlamentari non bocci l’accodo. E tanto basterà, a regole vigenti, per non farlo entrare in vigore.

Ma come? Non avevano assicurato Hollande, Schaeuble, Merkel e gli altri che d’ora in poi si sarebbe andati avanti a testa bassa, “con chi ci sta”? Non c’è contraddizione. Tutti i paesi più importanti – Germania compresa – sono attraversati da forti movimenti o partiti euroscettici, non solo di destra. E nei prossimi 24 mesi quasi tutti questi andranno al rinnovo dei parlamenti. Rinviar loro la materia, nella certezza che qualcuno alla fine lo boccerà, è un modo per abbassare il prezzo politico da pagare alla scadenza elettorale. Poi sarà la forza di ciascun sistema-paese a stabilire chi e quanto potrà prendere decisioni valide per tutti i paesi membri.

Un gioco rischiosissimo, sul piano politico, che può sfociare in ogni istante nell'implosione della costruzione europea. Un gioco che i mercati finanziari vedono come il fumo negli occhi (ancora Dimon: “È fondamentale per il mondo intero che l’Europa sia forte, solida e con un’economia sana. Europa costituisce ovviamente un’economia più grande rispetto ai singoli Stati. La creazione dell’Eurozona ha rappresentato un processo molto complesso, alcuni errori erano inevitabili. E i momenti difficili sono arrivati”), ma che nessuno appare attrezzato a fermare.

A venti anni dal “trionfo della globalizzazione” la situazione è dunque la seguente: “L’economia è globalizzata, il Doha Round è morto insieme alle intese commerciali multilaterali, ormai dovunque sostituite in modo sistematico dai grandi accordi regionali bilaterali” (come Ceta, Ttip, Nafta, ecc). Ma anche quest’ultima aggregazione multipolare appare molto difficile ora da raggiungere, tanto è vero che, all’interno della Ue, è riapparsa ai massimi livelli la scelta di “ri-nazionalizzare” alcune scelte strategiche. Può darsi che ciò porti a maggiore responsabilizzazione dei governi (e dei capitali) nazionali; più probabile che si inneschi una spirale animata da forze centrifughe incontenibili, con “la politica” costretta a inseguire i capitali che non vogliono morire senza combattere.

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