di Michele Paris
La campagna per
la Casa Bianca di Donald Trump è precipitata nel caos in questi ultimi
giorni in seguito all’ennesima serie di controversie che hanno coinvolto
il candidato Repubblicano. L’impreparazione di Trump, sommata a
tendenze fascistoidi e a un atteggiamento pericolosamente impulsivo, ha
scatenato il panico nel partito, aggiungendosi ai continui attacchi da
destra portati da Hillary Clinton e dai Democratici a partire dalla loro
convention chiusasi settimana scorsa a Philadelphia.
Tutti i
giornali americani hanno dato spazio agli sfoghi e alla manifestazione
dei timori di leader ed esponenti del Partito Repubblicano per
l’incapacità evidenziata da Trump di evitare polemiche che rischiano di
costargli voti o, quanto meno, una copertura mediatica costantemente
negativa. Le frustrazioni sono accentuate dal fatto che Hillary, grazie
soprattutto a Trump, è riuscita per il momento a superare senza
particolari danni varie vicende che, in condizioni normali, avrebbero
penalizzato in maniera pesante qualsiasi altro candidato.
Tra i
Repubblicani la preoccupazione per la condotta del loro candidato alla
presidenza ha raggiunto un livello tale che mercoledì sono iniziate a
circolare voci su un possibile clamoroso ritiro dalla corsa di Trump. ABC News,
ad esempio, ha descritto un partito già intento a studiare, se non una
rosa di sostituti, almeno le modalità per favorire un’uscita di scena di
Trump.
Inutile sottolineare che un simile scenario è del tutto
straordinario, visto che Trump ha incassato la nomination ufficiale alla
convention Repubblicana solo due settimane fa, mentre né lui né nessun
membro del suo staff ha dato il minimo segnale di un possibile abbandono
della competizione.
Il Comitato Nazionale Repubblicano è dovuto
intervenire mercoledì per smentire le voci su possibili piani per
rimpiazzare Trump e per confermare la fiducia del partito nell’attuale
candidato. La sola necessità di emettere un comunicato ufficiale sulla
questione sollevata dai media è però già di per sé una prova del caos
che sembra dominare in casa Repubblicana.
I nuovi problemi per
Trump erano iniziati settimana scorsa con le sue critiche, anche di
stampo razzista, ai genitori del capitano dell’esercito di origine
pakistana, Humayun Khan, ucciso in Iraq da un attacco suicida. Khizr e
Ghazala Khan avevano a loro volta attaccato il miliardario newyorchese
sul palco della convention Democratica per le sue proposte dirette
contro i musulmani.
Le critiche, o gli insulti, di Trump avevano
scatenato una valanga di condanne da entrambi gli schieramenti, anche
perché il candidato Repubblicano era tornato più volte sulla questione
senza accennare a un abbassamento dei toni. La macchina dei media
“mainstream” ha ovviamente cavalcato e amplificato la polemica,
tralasciando qualsiasi critica al conflitto in Iraq, appoggiato in
pieno nel 2003 da Hillary Clinton, e sfruttando l’occasione per
celebrare ancora una volta il militarismo americano.
L’apparizione
dei coniugi Khan a Philadelphia era stata inoltre una manovra studiata a
tavolino dai vertici Democratici, come hanno confermato le notizie
apparse successivamente sui legami dello studio legale per il quale
lavorava il padre del capitano ucciso in Iraq con la famiglia Clinton e
il loro partito.
Nel pieno di questa controversia, Trump si è poi gettato in un altro ginepraio. Martedì, in un’intervista al Washington Post,
si è cioè rifiutato di dare il proprio sostegno ufficiale a due pezzi
grossi del partito impegnati nelle primarie Repubblicane nel mese di
agosto, il senatore dell’Arizona, John McCain, e lo “speaker” della
Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan. Entrambi avevano criticato Trump
dopo le sue dichiarazioni sui genitori del capitano Khan.
Un commento della testata on-line Politico
ha fatto notare come un affronto a Ryan da parte di Trump potrebbe
avere conseguenze “devastanti” per la sua campagna. Infatti, ciò
potrebbe “spezzare la fragile pace che Priebus [il segretario del
Partito Repubblicano] e altri si sono adoperati per negoziare tra il
partito e il suo candidato”. Quello di Ryan è d’altra parte
“l’endorsement Repubblicano più prezioso ottenuto da Donald Trump”.
Ryan
aveva appoggiato la candidatura di Trump dopo molte incertezze, ma la
sua mossa aveva contribuito a farlo accettare, sia pure in maniera
riluttante, a una buona parte del partito. Che questa tregua sia però a
rischio è ora evidente da dichiarazioni come quella dell’ex deputato
Repubblicano Vin Weber, già stretto collaboratore dell’ex “speaker”
della Camera Newt Gingrich, il quale ha definito la nomination di Trump
“un errore di proporzioni storiche”.
Lo stesso Gingrich ha
parlato di tendenze “auto-distruttive” di Trump, dicendosi poi
tutt’altro che certo che i problemi manifestati fin qui dalla sua
campagna siano risolvibili. Proprio l’ex “speaker”, secondo la NBC,
assieme all’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, e al numero uno del
Comitato Nazionale Repubblicano, Reince Priebus, potrebbe essere messo a
capo di un team con l’incarico di “salvare” la candidatura di Trump,
cercando di modificarne il corso.
Lo staff di quest’ultimo ha
smentito l’esistenza di un piano simile, ma qualche timido tentativo di
riparare i danni dei giorni scorsi si è intravisto. In questo senso può
essere inteso l’appoggio a Ryan nelle primarie del Wisconsin di martedì
prossimo espresso dal candidato alla vice-presidenza, Mike Pence. Il
governatore dell’Indiana ha anzi sostenuto di avere preso la decisione
su consiglio di Trump.
Le scosse provocate nel Partito
Repubblicano dalla nomination di Trump sono comunque innegabili. A poco
più di tre mesi dal voto le defezioni iniziano ad assumere un ritmo
preoccupante. Questa settimana, il deputato dello stato di New York,
Richard Hanna, è stato il primo membro Repubblicano del Congresso a
dichiarare il proprio sostegno a Hillary Clinton. Poco più tardi, anche
il deputato dell’Illinois e veterano dell’aeronautica militare, Adam
Kinzinger, ha dichiarato di non potere accettare la candidatura di
Trump.
Hillary ha ottenuto inoltre l’appoggio di tre donne
influenti negli ambienti Repubblicani: le ex consigliere di Jeb Bush e
del governatore del New Jersey Chris Christie, rispettivamente Sally
Bradshaw e Maria Comella, e la presidente e amministratrice delegata di
Hewlett Packard, nonché candidata senza successo a governatrice della
California nel 2010, Meg Whitman.
L’appoggio di quest’ultima a
Hillary è solo il più recente espresso per la candidata Democratica da
ricchi finanziatori Repubblicani e da ex membri di amministrazioni
ugualmente Repubblicane con competenze nell’ambito della “sicurezza
nazionale”. Questa tendenza conferma che l’ex segretario di Stato è
considerata più affidabile per la promozione degli interessi
dell’imperialismo americano rispetto a Trump.
Il candidato
Repubblicano continua infatti a essere attaccato da destra da Hillary e
dai suoi sostenitori per avere espresso posizioni troppo concilianti nei
confronti della Russia e del presidente Putin, ma anche perplessità sul
ruolo della NATO. Le posizioni di Trump in politica estera, anche se
spesso confuse ed evidentemente soggette a un’inversione di rotta in
caso di successo nelle presidenziali, sono una delle ragioni principali
dell’ostilità che sta incontrando nel suo stesso partito.
In ogni
caso, benché i sondaggi più recenti indichino un costante vantaggio di
Hillary Clinton su scala nazionale, la forbice tra i due candidati alla
Casa Bianca non appare eccessivamente ampia se si considera la lunga
lista di gaffe commesse da Donald Trump.
Il
suo scontrarsi con l’establishment Repubblicano, i media ufficiali e la
famiglia Clinton, assieme alla capacità di cavalcare le frustrazioni
nei confronti del sistema di una parte - quella più disorientata - delle
classi maggiormente colpite dal declino economico degli Stati Uniti,
non è detto che rappresenti un impedimento alla sua corsa alla
presidenza. Hillary è d’altra parte l’essenza stessa dello status quo di
Washington e rimane una delle figure più disprezzate di tutto il
panorama politico americano.
Forse proprio queste dinamiche
aiutano a inquadrare l’unica notizia positiva arrivata per Trump negli
ultimi giorni, quella relativa alle finanze della sua campagna. Dopo gli
stenti dei mesi scorsi, a luglio l’organizzazione di Trump e il
Comitato Nazionale Repubblicano hanno fatto segnare un’impennata delle
donazioni, salite a 80 milioni di dollari, contro i 90 raccolti da
Hillary.
I dati indicano soprattutto un’esplosione delle
donazioni fatte di importi modesti, decisamente insolite per il
candidato di un partito notoriamente controllato da ricchi e
super-ricchi, molti dei quali, infatti, in questa tornata elettorale
hanno deciso di mettere le loro risorse a disposizione dell’aspirante
Democratica alla Casa Bianca.
Fonte
Interessante notare come, mentre la classe dirigente statunitense se la canta e suona nel tentativo di spedire nello studio ovale l'ennesimo soggetto affidabile per i consueti interessi, l'elettorato dia segni d'insofferenza assolutamente totali.
Sono sempre più convinto che il riallinearsi di Sanders alla Clinton sia stato uno degli autogol progressisti più grandi degli ultimi anni, più o meno allo stesso livello dello squallidro dietrofront di un anno fa del Governo Tsipras in Grecia.
La destra peggiore nel frattempo avanza mentre la sinistra diventa quella delle élite miliardarie liberali e dei fighetti cosmopoliti.
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