Difficile
pensare che si tratti di una mera coincidenza temporale: nel giorno
dell'80° anniversario della seconda, forse la più longeva Costituzione
dell'Unione Sovietica, quella detta “staliniana”, approvata il 5
dicembre 1936, e quando mancano due giorni al venticinquesimo
anniversario di un avvenimento ancora più decisivo, pur se,
disgraziatamente di segno completamente opposto, la disgregazione a
tavolino dell'Urss, è stato portato all'esame della Duma un disegno di
legge in cui si propone di punire con tre anni di reclusione o
un'ammenda di 300mila rubli chiunque metta in discussione i risultati
della Rivoluzione d'Ottobre.
La proposta è del deputato del PCFR Valerij Raškin che, in tal modo, scrive RT,
intende scongiurare ogni tentativo di dar vita a una “storia
alternativa”, tramite “la diffusione di false affermazioni sulle gesta
dell'Esercito Rosso" e sui "risultati della rivoluzione del 1917", come
accaduto nell'Ucraina golpista. Secondo Raškin, anche in Russia esiste
un potenziale pericolo di riscrivere la storia, dando spazio a proprie mitologie ed eroi
paralleli e non sarebbero più sufficienti gli articoli del codice
penale – in particolare: il 354.1, “riabilitazione del nazismo” e 282
“Incitamento all'odio o all'ostilità e umiliazione della dignità della
persona" – di fronte a episodi come le varie targhe apposte in onore di generali bianchi o filonazisti,
rubriche dedicate da alcune radio all'autocrazia zarista, la
pubblicazione dei dati personali di 40mila funzionari della ČeKa sul
portale dell'organizzazione revisionista Memorial.
Non si sono fatte attendere le reazioni: l'arciprete della chiesa dell'Ascensione, Vsevolod Čaplin ha dichiarato a RT
che non è il caso di abolire il diritto a valutare un periodo storico
e, anzi, “lo studio delle cause di quanto avvenuto nell'ottobre 1917 può
essere una lezione per i russi. Difficile capire di quale risultato si
tratti: della rivoluzione di febbraio o di quella d'ottobre” dice
Čaplin; “i risultati di entrambe sono comunque negativi: a febbraio
l'élite ha tradito lo zar, e in ottobre i bolscevichi versarono il
sangue che portò alla guerra civile. Deve essere chiaro che ciò non è
avvenuto senza la volontà di Dio”. Amen. D'altro canto, il politologo
Sergej Aksënov ritiene che il problema sollevato da Raškin sia reale. Si
ha l'impressione, ha detto, che negli ultimi tempi si imponga al paese,
in maniera persistente e metodica, “l'epopea bianca”. Le targhe sui
muri di Piter a Mannerheim e Kolčak,
i tentativi di abbattere il monumento a Lenin in Crimea, sono tutti
esempi di lotta col passato sovietico, alla maniera ucraina e di
perpetuazione della “liquidazione dei rossi” iniziata con Boris Eltsin.
Secondo il fondatore dell'ex Partito degli amanti della birra (!),
nonché ex vice sindaco di Volgograd (nelle cui vesti pare sia stato
implicato in non poche speculazioni terriere) Konstantin Kalačëv "oggi
rossi e bianchi si devono stringere la mano e porre fine alla guerra
civile iniziata 100 anni fa. Politicizzare la rivoluzione, è cosa del
tutto diversa da ciò cui ha invitato il presidente, parlando al
Consiglio della Federazione".
In
effetti, Vladimir Putin, accennando al prossimo centenario della
Rivoluzione d'Ottobre, era nuovamente tornato sulla questione della
“divisione della società”, quale elemento maggiormente negativo uscito
dal 1917. Ma il problema sollevato da Valerij Raškin è tangibile e non
c'è dubbio che il tema della “riconciliazione” sia sempre più spesso
tirato in ballo, ai livelli più alti. Già lo scorso giugno, in occasione
dell'inaugurazione della targa al generale finlandese Karl Gustav
Mannerheim, l'allora capo dell’amministrazione presidenziale, Sergej
Ivanov, aveva detto a mezza voce che quello era da considerasi un gesto
che mira a superare la divisione della società russa determinata dalla
Rivoluzione d’Ottobre e il Ministro della cultura, Vladimir Medinskij –
che i comunisti russi annoverano tra i “cavalieri dell'apocalisse” della
squadra liberale governativa – aveva definito Mannerheim un “cittadino
illustre della Russia”.
Significativo
quindi che la proposta di Raškin cada a cavallo di due anniversari così
rappresentativi e distanti – non solo temporalmente – tra loro. L'8
dicembre 1991, nella foresta di Białowieża, i presidenti di Russia,
Ucraina e Bielorussia commisero quello che oggi Sergej Veselovskij, su news-front,
qualifica come un “reato senza termini di prescrizione”, cioè
“tradimento della patria, a detrimento della potenza militare
dell'URSS, della sua indipendenza e dell'integrità del territorio:
spionaggio, consegna di segreti militari o statali, passaggio al nemico;
crimini punibili con la suprema sanzione penale: fucilazione e confisca
di tutti i beni”. Boris Eltsin, Leonid Kravčuk e Stanislav Šuškevič,
scrive Veselovskij, sono “nemici del popolo. I loro nomi devono rimanere
scritti nel libro della vergogna”. Altro che riconciliazione!
Sul
fronte dell'altro anniversario, Vasilij Volga chiede provocatoriamente –
“mi qualificheranno come terrorista, per questo”, scrive – che il
giorno dell'adozione della Costituzione del 1936 venga considerato
festivo. Proprio nello spirito che oggi in Russia viene definito della
“riconciliazione”, Volga ricorda come 80 anni fa, “nel momento in cui
negli Stati Uniti, milioni di persone, solo perché avevano un diverso
colore della pelle, erano discriminati nei diritti civili fondamentali,
in Unione Sovietica veniva costituzionalmente sancita l'uguaglianza di
tutti, in tutti i loro diritti. Sempre la Costituzione del 1936
dichiarava al mondo intero che i popoli dell'Unione Sovietica erano
riusciti a costruire il primo stato al mondo, in cui non vi è
sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo... uno Stato di operai e
contadini, il cui epicentro erano gli operai e non un banchiere o un
politico”.
Dunque,
a ragione oggi il 50% dei russi ritiene che si sarebbe potuta evitare
la fine dell'Urss, il 56% è dispiaciuto che ciò sia avvenuto, il 29% ne
incolpa il trio Eltsin-Kravčuk-Šuškevič, il 23% vi scorge un “complotto
di forze straniere nemiche dell'Urss” e il 21% accusa Mikhail Gorbaciov e
la sua cerchia. Una cerchia i cui eredi sono ancora ai vertici del
governo di Dmitrij Medvedev, che proprio in questi giorni ha deciso di
abbassare il cosiddetto “minimo di sopravvivenza” per l'ultimo
quadrimestre del 2016 a 9.889 rubli (10.678 per i lavoratori, 8.136 per i
pensionati e 9.668 per i minori) “grazie” alla riduzione di prezzo dei
prodotti alimentari.
Una riconciliazione con le scelte peggiori di quelli che i comunisti russi definiscono “i malvagi anni '90”.
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