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01/04/2017

Iran, chi va là a Trump

“Cosa fanno gli Stati Uniti nel Golfo Persico?” si è chiesto retoricamente il ministro della Difesa di Teheran Hossein Dehqan per girare la domanda al generale Votel, massima autorità militare americana in Medio Oriente. L’ha fatto dopo la dichiarazione di quest’ultimo sulla possibilità d’un attacco alla nazione iraniana. E ha aggiunto: “E’ meglio che gli Usa lascino la regione senza molestarne i popoli. E’ inaccettabile che un rapinatore armato s’introduca nelle abitazioni altrui e s’aspetti un’accoglienza col tappeto rosso”. Dulcis in fundo ha definito il comportamento statunitense come “un’istanza di moderna barbarie”. Insomma un bel ‘ceffone diplomatico’ allo staff di Trump, in risposta alle provocazioni presidenziali Usa che in prima e seconda istanza ha ribadito il divieto ai visti per i cittadini islamici di alcuni Paesi fra cui spicca l’Iran. Per quanto dedito ai discorsi senza peli sulla lingua, l’inquilino della Casa Bianca non s’era spinto a pronunciare dirette minacce verso Teheran, l’ha fatto per bocca del suo ufficiale che dichiara quel che pensano al Pentagono e nello stesso Studio Ovale: la società degli ayatollah è una minaccia e riveste un ruolo destabilizzante nell’area mediorientale. Volutamente dimentichi della posizione rivestita nel contrastare il Daesh in Siria. Ma forse proprio per questo, perché le varie giunte americane più che pensare alla permanenza o alla dismissione di Asad, erano e sono preoccupate dal consolidato asse russo-iraniano. La risposta secca del ministro di Teheran, travalica la medesima specificità d’un dicastero, comunque centrale come quello della Difesa.

Dehqan, ex pasdaran (nell’arma dell’aeronautica) appartiene a quel partito combattente che costituisce una componente solida e pragmatica che non dispiace agli ayatollah. In realtà durante il secondo mandato di Ahmadinejad – presidente venuto proprio da quella cosiddetta ‘generazione del fronte’, quella dei militanti formatisi nella guerra contro Saddam pochi mesi dopo il successo della rivoluzione khomeinista – i pasdaran cercarono di rafforzare il loro già solido potere, forzando la mano nei confronti del clero. Non la spuntarono. La Guida Suprema Khamenei, il potentissimo Rafsanjani, tolsero la tutela verso il presidente-basij che piaceva agli ultraconservatori. Lui dopo le contestazioni dell’Onda verde e i presunti brogli elettorali, venne oscurato coi sospetti scandali del suo staff. Al di là delle questioni personali, il clero sciita non gradiva l’ingerenza laica delle Guardie della Rivoluzione, che da buoni sciiti non devono mettere in discussione il velayat-e faqih. Ovviamente il partito combattente non è amato, e in questo ricambia, dalle forze riformiste che avevano dato vita alla primavera iraniana con la presidenza comunque d’un ayatollah: Khatami. L’attuale presidente Rohani, uomo del compromesso fra le fazioni, dopo la vittoria del 2013 ha inglobato varie tendenze, aprendo le porte ai pasdaran. Il ministro Dehqan, ne è un esempio. Nelle elezioni che s’approssimo (19 maggio) tutto riceverà una verifica, e la politica estera, come sempre, rappresenterà un terreno di confronto fra vertici e base elettorale. Il muso duro di Dehqan nei confronti di Washington fa parte del gioco.

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