Giuliana Commisso* è una docente dell’Università della Calabria. Recentemente, insieme a Giordano Sivini, ha pubblicato il libro “Reddito di cittadinanza. Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?” per le edizioni Asterios. Alcune settimane fa abbiamo intervistato Giordano Sivini, oggi torniamo con una intervista con Giuliana Commisso sul tema della povertà e del carattere coercitivo delle misure messe in campo da governo e Ue per “contrastarla”.
Nel libro vengono analizzate le diverse misure a livello europeo contro la povertà. C’è il modello liberista britannico (quello restituitoci dal film di Ken Loach “Io sono Daniel Blake"), quello ordoliberista tedesco (il famigerato modello Hartz), infine c’è questa variante italiana a metà tra assistenza e patto di servizio obbligatorio tra beneficiari e istituzioni. Dove si somigliano e dove si differenziano questi modelli?
Nella spiegazione della disoccupazione si è passati nell’arco di pochi decenni dalla prevalenza delle cause strutturali a quella delle responsabilità individuali. Per il neoliberalismo, sia nella versione tedesca che in quella anglosassone, “i sussidi non legati al lavoro sono troppo generosi e sostengono una cultura della dipendenza”.
In Germania, il discorso sulla disoccupazione come “comportamento antisociale” piuttosto che come fallimento del mercato, è diventato egemone grazie alle riforme del welfare varate dal governo Schroeder, nel quadro dell’Agenda 2010. In linea con Blair, il socialdemocratico Schroeder ha legato il problema della disoccupazione alla mancanza di flessibilità nell’offerta di lavoro, alla crescita salariale più alta della produttività, a sussidi troppo elevati che non incentivavano il rientro nel lavoro.
Questo armamentario retorico si è tradotto, a livello di opinione pubblica, nel luogo comune secondo cui “chi vuole lavoro lo trova”; a livello normativo, nel principio della condizionalità, che informa tutte le misure di sostegno al reddito che abbiamo esaminato. La condizionalità ignora le cause da cui origina l’emarginazione, impone oneri e sanzioni ai beneficiari del sussidio con effetti che si riflettono sui famigliari, spinge ad accettare lavori precari e scarsamente retribuiti, andando contro le normative che regolavano il mercato del lavoro e le posizioni dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro.
Il punto di convergenza delle misure varate nel Regno unito, in Germania e ora in Italia è l’attivazione al lavoro e l’assunzione che i disoccupati siano persone passive da obbligare ad attivarsi.
In Germania, i posti di lavoro marginali e precari, che sono stati implementati con le riforme Hartz, fanno concorrenza alle occupazioni considerate ancora regolari e ne abbattono il costo. Non si è ancora realizzato il lavoro coatto senza salario come nel Regno unito, ma in ogni caso si è sdoganata una forma di lavoro servile: lavoro a buon prezzo a cui ciascuno deve obbligarsi come condizione legale della sua propria esistenza. Il Reddito di Inclusione Sociale appena varato in Italia affronta solo gli aspetti più gravi dell’emarginazione, e fa restare i poveri nella povertà dopo averli costretti al lavoro coatto.
Nel libro si indica un approccio alle misure contro la povertà di tipo coercitivo verso i poveri, parlate addirittura di “lavoro coatto” con una immagine che rimanda a modelli ottocenteschi o alla lugubre scritta sul cancello di Auschwitz “Il lavoro rende liberi”. Come siete giunti ad una conclusione così drammatica?
In Gran Bretagna, chi non cerca attivamente lavoro e non dimostra che lo sta facendo incorre in sanzioni che variano da un mese a tre anni di sospensione del sussidio, a seconda della gravità della trasgressione e del numero di volte in cui si verifica. La condizionalità dei sussidi e le modalità di erogazione delle sanzioni hanno portato alla formazione di un sistema penale parallelo: le decisioni di bloccare i pagamenti sono prese in segreto dai funzionari, in assenza degli interessanti, i quali non sono neppure legalmente rappresentati. Chi si appella viene ascoltato solo dopo che la sanzione è stata applicata. I sussidi che i beneficiari ottengono a fronte del lavoro che obbligatoriamente devono fare sono tra un terzo e un quarto del minimo salariale, nel rapporto con il datore di lavoro non hanno protezione e se si dimettono incorrono in sanzioni.
In Germania, le famigerate riforme Hartz, che hanno introdotto il reddito minimo condizionato allo svolgimento di attività lavorative, hanno creato normativamente occasioni di lavoro che ampliano il precariato. L’obiettivo era flessibilizzare gli strati medio bassi del lavoro, contando sul fatto che il sussidio avrebbe abbassato i salari individuali fin sotto il livello della sussistenza. L’obbligatorietà di inserimento nell’attività lavorativa è stata facilitata dall’implementazione dei midi e mini jobs, che prevedono rispettivamente una remunerazione massima di 850 e 450 euro lordi mensili, oltre che degli ein-euro jobs, la cui paga oraria varia da 1 a 2,50 euro, per attività di pubblica utilità che servono a dimostrare la disponibilità del beneficiario all’inserimento. I mini jobs sono sette milioni e mezzo e costituiscono l’unica fonte di lavoro salariato per oltre quattro milioni e mezzo di persone. L’effetto della riforma è l’ampliamento senza precedenti del settore occupazionale a bassa retribuzione e l’incremento dei working poors. La paura di perdere il posto è cresciuta e i lavoratori si tengono stretti anche gli impieghi più desolanti. La paura di Hartz IV e della conseguente povertà e stigmatizzazione sociale sono più forti anche del meno dignitoso dei lavori.
Nel libro smonti categoricamente l’ipotesi dominante a livello europeo della flexsecurity. Che rapporto c’è tra questa e l’aumento dei working poors?
Con la revisione della strategia di Lisbona del 2005, la governance dell’Unione Europea si è concentrata sulla flexisecurity, che, nel quadro dell’Economia sociale di mercato altamente competitiva, subordina le politiche sociali alle politiche di attivazione al lavoro. L’obiettivo è abbassare il costo del lavoro e renderlo mobile e flessibile alle necessità delle imprese, come condizione necessaria per ripristinare la posizione competitiva degli Stati. Il concetto di flexisecurity fa convergere occupazione e disoccupazione nella formula dell’occupabilità del lavoratore, la cui responsabilità è acquisire, accumulare e investire il proprio “capitale umano” per tutto il corso della vita. Il disoccupato è considerato un ‘lavoratore in transito’, su e giù per la scala salariale, da un’attività a un’altra, da un mercato del lavoro all’altro. Le politiche sociali devono fornire alle imprese lavoratori adatti alle loro esigenze.
Cultura imprenditoriale, personalizzazione dei percorsi, logiche di progetto, enfasi sull’auto-attivazione nel lavoro e nella sua ricerca sono parte integrante di un ordine del discorso e di una logica di intervento che mirano a far interiorizzare a individui, gruppi e popolazioni, la precarietà lavorativa come condizione normale di esistenza.
La matrice ideologica della flexisecurity, come principio cardine della politica sociale europea, è rinvenibile nell’ordoliberalismo. Per gli ordoliberali la povertà non ha carattere materiale ma deriva dalla mancanza di iniziativa dei lavoratori proletarizzati; è una povertà di aspirazione, un’incapacità morale di provvedere a se stessi, che determina e aggrava le condizioni della loro povertà. “Invece di aiutare se stessi e gli altri a far fronte agli shock economici, i poveri che rimangono inetti sovvertono i sentimenti morali indispensabili al sistema della libertà” (Röpke). Chi non riesce a dimostrare tali capacità non è semplicemente disoccupato, ma è inoccupabile, quindi inadatto alla società.
Da tali presupposti deriva la de-socializzazione del diritto di assistenza e la sua concomitante contrattualizzazione individuale. L’obiettivo, antitetico e sostitutivo del welfare, che viene perseguito dalla governance europea mediante la flexisecurity, è piegare al lavoro coatto e/o servile coloro che si trovano in condizioni di povertà. Come ho detto in precedenza, in Germania la povertà è stata creata per "legge”, con Hartz IV. Il salario non è sufficiente per vivere, e rende necessaria l’integrazione pubblica. Questa è la condizione della massa degli Aufstocker, 1,3 milioni, continuamente riprodotta attraverso i jobcenter. Dunque, lavorano tutti o quasi, ma quella che nel 2005 era una massa disoccupata ora è una massa di working poors. Il loro numero è aumentato costantemente, mentre per lo stesso lavoro il guadagno diminuisce. Il 40 per cento dei lavoratori dipendenti riceveva nel 2015 un salario reale inferiore a quello di metà anni ’90. Da recenti indagini di associazioni sociali, richiamate anche da un recente articolo su questo quotidiano, emerge che circa 13 milioni di cittadini tedeschi vivono al livello di sussistenza. (Cfr. F. Poggi, La ricca Germania dei senzatetto e dei minijob)
L’automazione nella produzione inevitabilmente avrà un impatto su quella che chiamano la disoccupazione tecnologica. Quali misure andrebbero adottate per evitare che alla già precaria situazione si aggiungano nuovi disoccupati? È sufficiente operare sul fronte del reddito?
Gartner, una società statunitense di consulenza e di analisi nel campo della tecnologia, ha recentemente rilevato che nel 2021 l’intelligenza artificiale genererà 2,9 trilioni di dollari e farà risparmiare 6,2 miliardi di ore di lavoro. Questi dati evidenziano che siamo alla vigilia di una grande espulsione del lavoro umano dai processi produttivi.
Alla progressiva riduzione del lavoro complessivamente necessario alla riproduzione della società si contrappone la massima intensificazione dello sfruttamento per quella ridotta parte di forza lavoro che viene effettivamente impiegata. Questa contraddizione ha una portata senza precedenti e i suoi effetti degenerativi sono sotto gli occhi di tutti: una minoranza si è enormemente arricchita a scapito della stragrande maggioranza, che si è invece impoverita a vari livelli: passando dal ceto medio alla povertà, dalla povertà alla miseria, dalla miseria all’impossibilità di sopravvivere.
Le proposte sul terreno sono due, spesso date in contrapposizione: la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e il reddito universale incondizionato.
La proposta della riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, condivisibile, è stata centrale nel dibattito negli anni Ottanta e Novanta del Novecento ma ha perso di centralità nel dibattito attuale. Mi chiedo se ciò non scaturisca dalla difficoltà di misurarsi con filiere produttive di valore che non obbediscono più al richiamo degli stati-nazione e in cui il salario, diretto o differito, è sempre più eroso. Non si tratta semplicemente dello smantellamento dello Stato sociale, o dell’arretramento dello Stato dalla funzione di mediazione del conflitto tra capitale e lavoro. Siamo dentro un dispositivo generale della governamentalità che, come ho cercato di argomentare nelle risposte precedenti, ridetermina le forme dello Stato e del sociale come proiezioni in superficie dell’economia imprenditoriale globalizzata. La proposta deve misurarsi con le diverse articolazioni di questo dispositivo. Può essere avanzata sul terreno del rapporto tra capitale e lavoro, ma a condizione di rompere definitivamente la gabbia concettuale del lavorismo, secondo cui l’emancipazione sociale può avvenire solo attraverso il lavoro salariato, entro i cui limiti battersi per l’espansione dei diritti.
D’altra parte, la proposta del reddito, come misura da corrispondere a ciascun individuo e sganciata dal lavoro, è oggi usata dai governi neoliberali di ogni latitudine come strumento per liquidare definitivamente i sistemi di protezione sociale e le tutele del lavoro conquistati attraverso le lotte. Al di fuori e contro questa ambiguità, è necessario porre l’affermazione di misure strutturali per la redistribuzione della ricchezza come terreno di lotta e di pratiche sociali che anche sui luoghi di lavoro rifiutano i ricatti e si battono per i diritti di esistenza, diritti che non sono più sostenibili nelle traiettorie di sviluppo e di crescita del capitalismo. È evidente la possibilità della riduzione del tempo individuale di lavoro al minimo necessario e questa evidenza chiama in causa l’esistenza o meno di una soggettività che si propone il superamento del modo di produzione capitalistico e che assuma questo mondo, e non quello del secolo scorso, come terreno di lotta per una trasformazione radicale dei rapporti sociali di produzione.
Dunque, oltre a tentare di capire come operare empiricamente, c’è da porsi il problema teorico e politico che Francesco Piccioni ha posto ricordando che: “Non si può evitare di sottolineare come il massimo di tensione mai registrata tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione corrisponda al punto forse più basso fatto segnare dalla soggettività rivoluzionaria da un secolo a questa parte. Un problema teorico, certo, ma anche decisamente politico. Perché se non c’è chi prende in mano la situazione, c’è solo la degenerazione...” (F. Piccioni, 100 anni dopo. Ascesa e crisi del movimento comunista internazionale nel ‘900)
* Giuliana Commisso è autrice tra gli altri di La genealogia della governance. Dal liberalismo all’economia sociale di mercato e di Soggettività al lavoro. Operai italiani e inglesi nel post-fordismo
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