Sono uscite qualche giorno fa le ultime statistiche Bloomberg sui super ricchi del pianeta che, incrociate con i dati Istat, Censis e Oxfam, mettono nero su bianco ciò che milioni di persone percepiscono e sperimentano ormai da qualche decennio e, ancora più acutamente, dallo scoppio della decennale crisi economica del 2007. In cosa consiste tale ovvietà? Nel semplice fatto che la cosiddetta umanità, se mai è esistita, non esiste più, nemmeno nei presunti paesi del primo mondo se non come concetto astratto, buono per la retorica natalizia o, peggio, per quella interventista. D’altronde, quando sentiamo parlare di diritti umani, ormai sappiamo tutti che si prepara l’ennesima guerra al dittatore di turno o a qualche “Stato canaglia”.
I diritti “naturali” dell’89 e quelli sociali, ben più sostanziali e storici, delle carte del secondo dopoguerra sono ormai dei fantasmi che si aggirano per l’Europa. La carica universalistica che la parola diritto comporta e che ha pervaso di sé generazioni di uomini nel mondo, suona oggi vuota e mistificante in ogni ambito, dal politico al sociale.
L’impresa trentennale dello Stato sociale europeo può essere riassunta nel tentativo di rendere effettivi alcuni diritti, ovvero nello sforzo di ritagliare all’interno di un’economia di mercato fondata su sfruttamento, competitività e diseguaglianza, un ambito minimo di equità sociale e di reale esercizio della cittadinanza. Di consenso, d’altronde, il capitalismo aveva assoluto bisogno per dimostrare, nella competizione della guerra fredda, che il sistema liberale era in grado di funzionare meglio delle democrazie popolari e di essere compatibile con la giustizia sociale e l’uguaglianza delle opportunità.
Solo in tale lontano contesto si può comprendere come le socialdemocrazie siano state tollerate e abbiano potuto prosperare per decenni in tutta Europa e come i socialdemocratici abbiano potuto pensare che il problema fondamentale del capitalismo non stesse nell’arricchimento di un’élite, bensì nella lotta alla povertà. Oggi un principio del genere suona del tutto paradossale, a meno che non si torni a credere alla teoria premoderna della generazione spontanea. La ricchezza è, oggi più che mai, risultato di sfruttamento del lavoro, di negazione di diritti, di appropriazione di risorse, di beni pubblici e comuni, di servizi.
Un emblema della fine dell’umanità e della sua aspirazione all’universalità è del tutto palese nella dimensione eugenetica che assume ormai il capitalismo neoliberista. Qualche anno fa, Peter Brabeck, presidente della Nestlè, maggior gruppo alimentare mondiale, affermò che coloro che sostengono il libero accesso all’acqua e la sua nazionalizzazione sono degli estremisti: all’acqua bisogna dare un valore di mercato, come a ogni altra cosa.
È un principio che non fa una grinza per una multinazionale che intende appropriarsi della risorsa più preziosa del pianeta. Tradotto in termini pratici, questo significa che l’accesso all’acqua, base stessa della vita, è appannaggio solo di chi può accedere al mercato, vale a dire di chi può pagare. Ne consegue che il diritto universale alla vita non può più essere garantito, con buona pace degli “estremisti”.
Questa convinzione, sparsa ormai a piene mani e implementata per decenni dai media mainstream, è diventata senso comune: non esistono diritti, esistono solo servizi, quelli che si pagano. Tutto ciò vale soprattutto per quelli che un tempo erano diritti e che si volevano universali: salute, lavoro, previdenza, pensione, casa, istruzione. Pago dunque esisto, questo il motto della società ideale neoliberale.
Accanto al suo trionfo indiscusso, anzi proprio grazie ad esso, il capitalismo neoliberista porta con sé anche la potenziale minaccia al nuovo ordine, quella di decine di milioni di esclusi dal banchetto: poveri assoluti, poveri relativi, interi ceti sociali in via di proletarizzazione, giovani generazioni super sfruttate, senza lavoro e senza prospettive. Negli ultimi anni, specie nel continente europeo memore del welfare, tale minaccia all’ordine neoliberale si è manifestata in modi e con forme differenti. La prima e la più evidente è stata quella della protesta: astensionismo diffuso e sfiducia nella logica della rappresentanza; voto alle forze politiche percepite come anti – establishment; referendum vari, da quello greco contro la governance affamatrice della Troika, a quello britannico per l’uscita dalla UE, per giungere, infine, a quello italiano che ha detto no allo stravolgimento della Costituzione.
Non è un caso che Mattarella, in qualità di fedele sacerdote dell’establishment italiano pro UE, abbia fatto un discorso di fine anno incentrato sull’importanza della partecipazione: sarebbe imbarazzante se il prossimo parlamento venisse eletto da una minoranza degli aventi diritto. Soprattutto perché la prossima legislatura, volenti o nolenti, dovrà attuare altri tagli draconiani a sanità, scuola, pensioni e a molto altro, ovviamente in omaggio al Fiscal Compact, strumento principe della governance UE. Come spiegheranno allora i solerti opinionisti di Repubblica e del Corsera agli italiani che il Parlamento è pienamente legittimo e che lo hanno votato loro, se la maggioranza degli aventi diritto se ne starà casa?
La protesta e l’astensionismo di massa sono certamente segno di disagio, di sfiducia e di una certa consapevolezza circa il fatto che dal voto di rappresentanza degli interessi, si è passati alla pura e semplice rappresentazione di una tragedia dal copione già scritto per mano dei grandi poteri economico – finanziari a danno dei settori popolari, dei loro interessi e dei loro diritti.
Accanto al voto e al non voto di protesta, un altro fenomeno dell’ultimo decennio è stato quello dell’emergere del conflitto sociale in forme varie e disparate: dalla dialettica classica legata a vertenze di lavoro, alla richiesta di diritti e di migliori condizioni di vita e di lavoro, fino a quella generata dallo scontro tra speculazione del capitale e devastazione dell’ambiente da un lato, e vivibilità dei territori dall’altro. Dalle mobilitazioni No Tav a quelle No Tap a i molti movimenti per il diritto alla casa, passando per quelle contro la militarizzazione e la sottrazione dei territori in Sicilia e Sardegna, il conflitto sociale, a differenza della protesta, ha avuto e ha il merito d’aver tenuto viva negli anni una forte aspirazione alla lotta e alla presa di coscienza collettiva. I molti movimenti e sommovimenti sociali che in questi anni hanno agitato miriadi di istanze diverse, al di là delle differenze, pongono un problema fondamentale, quello della sovranità popolare e del controllo democratico di chi vive e lavora sui quei territori che il capitale intende ridurre a mero strumento di speculazione e di accumulazione del profitto, stritolando le esistenze di milioni di persone.
Quel che ancora deve avvenire nel nostro paese e che non è più rinviabile, è il salto di qualità che deve condurci al necessario passaggio dal conflitto sociale ed economico alla sua traduzione in termini di lotta politica di classe. Senza una sintesi politica e l’individuazione di un nemico comune in quello che è l’artefice dell’architettura della governance italiana ed europea a uso e consumo del grande capitale, non sarà possibile una concreta possibilità di vittoria reale delle mille istanze sociali richiamate sopra.
Non bisogna dimenticare che tutte le controriforme degli ultimi decenni, quelle che hanno trasformato i cittadini in semplici consumatori, i lavoratori in precari flessibili, i ceti medi in aspiranti alla povertà, i giovani in disoccupati o futuri lavoratori poveri, gli studenti in adepti del lavoro gratuito, i pensionati in affamati, hanno un’unica regia, quella dell’Unione Europea.
L’attuale società autoritaria di mercato, istituita dai Trattati europei, è una costruzione che pretende di innalzarsi al di sopra delle costituzioni nazionali e che risponde perfettamente agli interessi del grande capitale e all’ideologia della grande impresa. Dalle norme sulla flessibilità del lavoro perfezionate dal Jobs Act, all’abolizione dell’articolo 18, allo smantellamento dello stato sociale per ottemperare al pareggio di bilancio, alla Buona scuola e all’alternanza scuola – lavoro, per giungere, da ultimo, alla repressione del disagio sociale e del dissenso perfezionata dal decreto Minniti, la logica è sempre e solo la stessa: tutto deve essere commisurato al principio del massimo profitto e del massimo sfruttamento. Chi non accetta questa logica e questa dittatura di classe, deve essere considerato un problema di ordine pubblico e affrontato come tale.
Organizzarsi, prendere coscienza del fatto che, al di là delle molte differenze, gli interessi fondamentali sono gli stessi, riappropriarsi dell’azione politica è un imperativo per tutti i settori popolari, che siano in lotta o sfiduciati. Oggi più che mai, la questione della rappresentanza delle istanze popolari è una questione di sopravvivenza, prima di tutto, e di riscossa in prospettiva. Da questa necessità oggettiva, comune ai settori popolari, deve nascere una forte capacità di mobilitazione collettiva che sia in grado di procedere oltre la protesta e la sfiducia e che sappia essere complementare alle forme del conflitto, indicando il nemico di classe per quello che è, e mettendo in campo una proposta politica all’altezza della sfida. Nell’attuale momento storico, il progetto di Potere al Popolo inaugurato dai compagni di Napoli è, più che una scelta, un’assoluta necessità.
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