Pubblichiamo in due parti un nostro
contributo su BCE e l’utilizzo dello spread come strumento di
disciplina. Qui sotto la prima parte. A breve anche la seconda. Chi
volesse leggere subito il contributo intero può scaricare il pdf qui.
Negli ottantotto giorni che hanno portato
alla formazione del nuovo governo giallo-verde si sono giocate tante
partite. La più importante è stata senza dubbio quella sull’Europa. In
una specie di percorso di rieducazione dei partiti populisti che hanno
vinto le elezioni, il Presidente della Repubblica Mattarella si è
incaricato di orientare, con singolare protagonismo, le forze politiche
verso la costituzione di un governo amico dell’Europa. Movimento 5
Stelle e Lega si sono dimostrarti straordinariamente sensibili ai
richiami all’ordine, piegandosi al primo schiocco di spread. Al
termine dei balletti, una maggioranza parlamentare a parole
euroscettica e populista ha infatti formato un esecutivo che vede nelle
posizioni chiave dei Ministeri dell’Economia e degli Esteri le figure di
Tria e Moavero Milanesi, una vera e propria garanzia per l’Europa:
l’Italia farà la brava, resterà all’interno dei vincoli che stanno
massacrando la nostra economia e non metterà mai in discussione gli
equilibri che ci vedono condannati al declino.
Mentre questo teatrino andava in scena
sotto i nostri occhi, qualcosa di importante si è mosso dietro le quinte
condizionando in maniera decisiva il corso degli eventi, qualcosa che
può spiegare come agisce il potere ai tempi della globalizzazione e
dell’Unione Europea. La storia infinita della formazione di questo
governo ha infatti avuto una svolta nell’ultima settimana di maggio,
quando il premier incaricato Conte presenta a Mattarella una
lista dei ministri che prevede Paolo Savona nel ruolo chiave del
dicastero dell’Economia. Savona incarnava un atteggiamento critico ma
dialogante nei confronti dell’Europa. Recentemente severo con la
direzione presa dalle istituzioni europee, ree secondo lui di favorire
troppo la Germania rispetto all’Italia, l’anziano docente universitario
viene dai vertici di Banca d’Italia e Confindustria, ed è quindi un uomo
delle istituzioni, assolutamente interno alla gestione di quel potere
che oggi viene amministrato da Bruxelles e Francoforte. Secondo ardite
ricostruzioni, nell’idea dei giallo-verdi Savona, dal Ministero
dell’Economia, avrebbe potuto agitare lo spettro dell’uscita dell’Italia
dall’euro come uno spauracchio, per ottenere ai tavoli negoziali
maggiori margini di spesa: abbaiando da Via XX Settembre avrebbe potuto
ottenere qualche briciola per l’Italia. È tuttavia evidente che il tanto
citato Piano B di Savona, ossia un programma tecnico per uscire
dall’euro e tornare ad una valuta nazionale, era stato concepito come un
esercizio accademico, da usare al massimo come blando strumento negoziale,
una pistola giocattolo per spaventare la controparte, senza la minima
intenzione di passare dalle parole ai fatti. Lo stesso Savona, in quelle
ore concitate, si è affrettato a precisare che avrebbe lavorato per
“un’Europa più forte”, impegnandosi solo a renderla “più equa” (A
distanza di settimane, ormai da Ministro per gli Affari Europei, si è
anche sentito in dovere di ribadire che Mercato Comune ed Euro sono due pilastri
su cui costruire il bene dei cittadini). Nessuna rottura, insomma, ma
la solita favola di un’Europa dei popoli da contrapporre alla realtà
dell’Europa che i popoli li massacra con l’austerità. Tuttavia, queste
rassicurazioni non sono bastate ed il tentativo di nominare Savona
all’Economia ha scatenato l’inferno sui mercati finanziari: i BTP sono
stati venduti in massa causando il crollo delle quotazioni e, dunque, un
aumento vertiginoso del costo del debito pubblico italiano.
Terrorizzati dall’instabilità finanziaria, Di Maio e Salvini sono scesi a
più miti consigli, procedendo alla formazione di un governo saldamente
ancorato al progetto di integrazione europea, con Savona relegato al
Ministero degli Affari Europei, senza alcuna possibilità di incidere
concretamente sulle trattative con l’Europa: una cuccia da cui potrà
abbaiare senza spaventare nessuno. Per capire come si è giunti da un
voto che ha marginalizzato i partiti apertamente filoeuropeisti, Partito
Democratico e Forza Italia, ad un governo pienamente europeista, quello
giallo-verde dominato da Tria e Moavero Milanesi e da un premier
tecnico, occorre dunque concentrare l’attenzione sui giorni della
svolta: chi ha scatenato quella tempesta finanziaria che, nel giro di
poche ore, ha avuto un ruolo così rilevante nella normalizzazione del
clima politico italiano?
La settimana decisiva ha inizio venerdì
25 maggio. In vista della formazione del governo giallo-verde, il
premier incaricato Conte si trattiene un’ora al Quirinale per un
incontro informale nel quale si discute della posizione di Savona ma,
mentre i due parlano, viene pubblicato un comunicato ufficiale dell’agenzia di rating Moody’s
nel quale si dichiara che il debito pubblico italiano è stato messo
sotto esame a causa dell’instabilità politica. Le agenzie di rating si
occupano di elaborare dei giudizi (veri e propri voti) sull’affidabilità
dei debitori, privati o pubblici che siano. Questi giudizi possono
essere utili agli investitori, che devono decidere quali titoli di
debito acquistare e sono dunque interessati a conoscere il merito di
credito dei singoli debitori: maggiore è il rating, maggiore in teoria
la probabilità che il debito sarà onorato a scadenza. Ma se si pensa che
tutto il peso delle agenzie di rating passi unicamente per
l’orientamento delle preferenze degli investitori, quasi fossero meri
commentatori dei mercati finanziari, si perde di vista l’elemento più
importante, che rende queste particolarissime società private uno dei
soggetti più influenti sui mercati. In Europa le agenzie di rating
svolgono un ruolo fondamentale che proviene direttamente dalle Direttive
della Commissione Europea, che regolano il funzionamento dei mercati
finanziari, e dalle regole interne della Banca Centrale Europea. In
parole povere il rating è legge, e quando un titolo scende al di sotto
di una certa valutazione viene definito junk bond, ovvero
‘titolo spazzatura’, perché perde due proprietà fondamentali. In primo
luogo, molti investitori istituzionali (banche, assicurazioni, fondi)
hanno vincoli patrimoniali legati al rating delle attività in loro
possesso: sono costrette dalla regolamentazione dei mercati ad investire
una certa quota delle loro risorse in titoli dotati di un rating
sufficientemente elevato. Questo significa che più il rating si avvicina
al livello junk, minore sarà l’incentivo per gli investitori a
sottoscrivere i titoli declassati, che verranno venduti e sostituiti
prontamente con attività dotate di miglior rating. Il secondo aspetto
fondamentale è legato al fatto che, quando la BCE eroga alle banche
liquidità, richiede che le banche diano in cambio dei titoli, a garanzia
del prestito ottenuto. Tuttavia la BCE accetta solo titoli dotati di un
livello di rating superiore a quello ‘spazzatura’: questo ulteriore
fattore istituzionale crea un secondo, fortissimo incentivo a tenere
nella propria pancia titoli con rating elevato e, conseguentemente, a
disfarsi frettolosamente di titoli per i quali si prevede un
declassamento, perché solo le attività giudicate più affidabili
consentono l’accesso ai finanziamenti della banca centrale.
L’Italia si trova in questo momento a
soli due punti dal livello ‘spazzatura’. Questo significa che un
eventuale declassamento metterebbe il Paese sull’orlo del precipizio,
perché i titoli del debito pubblico italiani potrebbero perdere la loro
rilevanza sia nella determinazione della solidità patrimoniale delle
istituzioni finanziarie sia per l’accesso al credito della banca
centrale. In tale contesto possiamo ora comprendere tutto il peso di
quel comunicato di Moody’s, che interviene proprio mentre si sta
decidendo una delle caselle più importanti del futuro governo italiano.
Non appena si diffonde la notizia che il debito pubblico italiano
potrebbe essere declassato, gli investitori iniziano a liberarsi dei
corrispondenti titoli svendendoli sul mercato: è l’inizio della
tempesta. Alla chiusura dei mercati di quel venerdì nero, lo spread tra
i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi – che misura il maggiore
rischio dei primi – ha superato quota 200 punti base: il governo
italiano dovrà pagare il 2% di interessi in più di quello tedesco per
indebitarsi. Nel fine settimana, quando i mercati sono chiusi,
Mattarella recepisce il segnale e, nella serata di domenica, sancisce il
fallimento del primo tentativo di formare il governo giallo-verde
dichiarando apertamente che il problema centrale è il Ministro
dell’Economia, quel Savona ritenuto un affronto inaccettabile per l’establishment
europeo. È la dura lezione dei mercati: i grandi capitali che muovono
miliardi sulle principali piazze mondiali e che – al tempo stesso –
controllano le agenzie di rating (Moody’s è detenuta
principalmente dal miliardario Warren Buffet e dai fondi speculativi
Vanguard, BlackRock e State Street) possono esercitare pressione,
attraverso lo spread, sulla politica condizionandone le scelte
fondamentali.
C’è un solo argine a questi attacchi
speculativi, una sola forza capace di opporsi alla massa di vendite che
la grande finanza può scatenare in poche ore: la banca centrale, detta
autorità monetaria proprio perché in grado di dettare legge persino ai
più grandi fondi speculativi mondiali. Come si è comportata, dunque, la
BCE, mentre il debito pubblico italiano era sotto attacco? Sappiamo che,
dal marzo 2015, l’autorità monetaria europea sta inondando i mercati
finanziari di liquidità attraverso il programma di Quantitative Easing
(QE): in pratica, la banca centrale acquista ogni mese decine di
miliardi di euro di titoli, prevalentemente debito pubblico dei paesi
dell’area euro, pagandoli con denaro nuovo di zecca, creato apposta per
dotare il settore finanziario di un cuscinetto di liquidità necessario a
scongiurare fallimenti bancari e dunque crisi sistemiche. Quella massa
di acquisti regolari di titoli del debito pubblico europei ha messo fine
alla crisi degli spread che aveva colpito Grecia, Spagna, Irlanda,
Portogallo ed Italia negli anni precedenti: così come vendite
consistenti spingono al ribasso le quotazioni accrescendo i tassi di
interesse pagati sul debito pubblico, gli acquisti della BCE hanno
calmierato il costo dell’indebitamento pubblico garantendo la stabilità
finanziaria europea negli ultimi tre anni, da quando il programma è in
vigore. Purtroppo, nel delicatissimo mese di maggio – proprio mentre si
consumava la battaglia politica intorno alla formazione del nuovo
governo italiano – la BCE fa un passo indietro clamoroso: grazie ai dati
pubblicati dalla stessa banca centrale, infatti, sappiamo che gli
acquisti netti del debito pubblico italiano si sono ridotti, tra aprile e
maggio, di 362 milioni di euro proprio mentre quelli sul debito
pubblico tedesco crescevano di oltre 2 miliardi.
Grafico: Spread (linea blu), misurato
sull’asse di sinistra in punti base, e acquisti di titoli pubblici
italiani (linea verde) e tedeschi (linea rossa) da parte della BCE,
misurati sull’asse di destra in rapporto agli acquisti netti totali di
ogni mese.
Comprare meno Italia e più Germania
significa esattamente alimentare il differenziale tra i corrispondenti
titoli pubblici: mentre l’Italia era sotto attacco, la BCE stava remando
nella stessa direzione degli speculatori anziché esercitare la sua
autorità monetaria – che le deriva dal suo ruolo istituzionale – in
difesa della stabilità finanziaria del Paese. Peraltro, i dati resi
pubblici sono disponibili solamente su base mensile e dunque non
permettono di ricostruire importanti dettagli della vicenda, come ad
esempio la scansione temporale di questo passo indietro della BCE
rispetto all’Italia: sarà avvenuto assecondando la spinta ribassista
avviata il 25 maggio dalle agenzie di rating, oppure sarà avvenuto
prima? Nel primo caso, la colpa della banca centrale sarebbe l’aver
accompagnato un attacco speculativo, anziché contrapporvisi come
imporrebbe la custodia della stabilità monetaria dell’area euro. Nel
secondo caso, la BCE avrebbe addirittura dato la prima spinta al domino,
scatenando poi la coerente reazione dei mercati.
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