di Fulvio Scaglione
Riavvolgiamo il nastro e torniamo a pochi giorni prima che i droni americani uccidessero il generale iraniano Qassem Suleimani.
Che cosa vediamo? Questo. Il 27 dicembre 2019 cominciano le
esercitazioni navali congiunte di Iran, Russia e Cina, che terminano il
lunedì successivo. Il martedì Mohammad Javad Zarif, ministro degli
Esteri dell’Iran, vola a Pechino per la sua quarta visita ufficiale
nella capitale cinese. Durante i colloqui, Wan Yi, ministro degli esteri
cinese, dichiara che “Iran e Cina devono lavorare insieme contro
l’unilateralismo e il bullismo internazionale”.
È forse scattata allora, nel momento in cui Iran, Russia e
Cina hanno reso ancor più evidente la loro intesa di fondo, la condanna a
morte per Suleimani? È stato in quei giorni che la Casa Bianca
ha deciso di portare ai massimi livelli la già alta tensione nei
confronti dell’Iran? In altre parole: con i suoi droni Trump ha
bombardato l’Iran o piuttosto la Russia e la Cina?
Una cosa è certa. Trump ha cominciato ad attaccare l’Iran e a
criticare il Trattato sul nucleare siglato nel 2015 con l’Iran fin
dalla campagna elettorale (“In tutta la vita non ho mai visto un accordo
peggiore e gestito in maniera più incompetente di questo”). Ha
proseguito non appena insediato alla Casa Bianca. In tempi piuttosto
rapidi (8 maggio 2018, ma l’annuncio era di diversi mesi precedente) è
arrivato a disdettare il Trattato in modo unilaterale e a varare
pesantissime sanzioni economiche contro la Repubblica islamica.
L’accordo era stato raggiunto con la partecipazione del
Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Cina, Russia, Regno Unito e
Francia), più la Germania e l’Unione Europea, con la
“consulenza tecnica” dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica
(insignita del Premio Nobel per la Pace nel 2005). Quando gli Usa
decisero di abbandonarlo, sostenendo che l’Iran non lo rispettava e che
stava organizzandosi in segreto per avere la bomba atomica, tutti gli
altri partecipanti sostennero che, al contrario, tutto andava per il
meglio, che i programmi erano puntualmente realizzati e che l’Iran era
in regola. L’Agenzia, incaricata di ispezionare gli impianti nucleari
iraniani, confermò.
Un po' difficile credere che tutti mentissero e solo gli
americani dicessero la verità. Più facile, visti i precedenti iranofobi
di Trump, il contrario. Anche perché, nel frattempo, Trump
aveva consolidato con armi, soldi e concessioni politiche i rapporti
degli Usa con Israele e l’Arabia Saudita e quelli di Israele e l’Arabia
Saudita tra loro, non a caso gli unici due Paesi ad applaudire la sua
decisione. E aveva rafforzato le guarnigioni americane di stanza in
sette Paesi del Medio Oriente (più 33% di soldati rispetto ai tempi di
Barack Obama), in particolare quelle site nelle petromonarchie sunnite
ostili all’Iran.
Può la superpotenza americana, incrementata dall’esperienza e
dall’efficienza dei servizi segreti di Israele e dell’Arabia Saudita (https://www.politico.com/magazine/story/2018/03/05/israel-assassination-iranian-scientists-217223)
che tengono d’occhio l’apparato nucleare iraniano, essere così
preoccupata dagli eventuali maneggi di Teheran? Anche questo è un po'
difficile da credere. Conviene allora alzare lo sguardo e provare a
osservare un panorama più largo.
La Casa Bianca di Donald Trump ha ereditato da quella di
Barack Obama il coinvolgimento nella crisi siriana, con la relativa
sconfitta degli interessi americani e l’altrettanto relativa espansione
del ruolo della Russia. Trump, però, non ha mai avuto alcuna
intenzione di accettare la sconfitta, men che meno di “disimpegnarsi”
dal Medio Oriente come qualcuno peraltro ha sostenuto. Se al posto di
seguire ossessivamente i suoi tweet avessimo esaminato meglio le sue
azioni, avremmo visto che la presenza Usa nella regione con lui si è
sempre rafforzata. Ma davvero lo scopo di tutto quell’impegno è fermare
l’Iran?
Attaccando l’Iran, in realtà, gli Usa prendono tre piccioni
con una fava. Primo: soddisfano i loro proconsoli nella regione, Israele
e l’Arabia Saudita, che considerano l’Iran il primo dei loro nemici.
Non tanto per il presunto “rischio atomica” ma piuttosto per
l’influenza che la Repubblica islamica riesce ormai a esercitare in
tutta quella vasta regione a maggioranza sciita che va sotto il nome di
Mezzaluna Fertile e che si estende dall’Iran allo Yemen passando per
Iraq, Siria e Libano. Secondo: creano un grosso problema alla presenza
mediorientale della Russia, destabilizzando un suo alleato (il Cremlino
fu mediatore decisivo tra Teheran e Washington per l’accordo del 2015) e
minacciando di coinvolgere la Siria di Assad (salvato a sua volta dal
Cremlino), anch’essa alleata dell’Iran, in un nuovo conflitto. Non a
caso Vladimir Putin è volato a Damasco subito dopo la morte del generale
Suleimani, con ogni probabilità per invitarlo a tenere un basso profilo
e a non farsi coinvolgere. Terzo: tira una stoccata alla Cina, per
almeno due ragioni. La prima è che Pechino è il primo partner
commerciale di Teheran, visto che accoglie quasi il 30% delle
esportazioni iraniane e genera il 13% delle importazioni. Dall’Iran, la
Cina importa soprattutto gas e petrolio, risorse decisive per alimentare
la propria macchina economica. Le sanzioni americane anti-Iran l’hanno
costretta a ridurre le importazioni e in ogni caso l’attuale crisi ha
fatto schizzare in altro il prezzo del greggio. Un danno doppio.
La seconda ragione è che l’Iran rappresenta uno snodo
decisivo per il gigantesco progetto della Nuova Via della Seta che è il
fondamento della strategia del presidente Xi Jinping per contendere agli
Usa il predominio economico e geopolitico. Proprio nel
settembre scorso il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zafari
aveva firmato a Pechino un accordo che prevedeva investimenti cinesi
per 400 miliardi di dollari nella rete dei trasporti dell’Iran.
Russia, Cina e Iran, d’altra parte, sono i tre Paesi oggi più
toccati, anche se in modo diversi, dalle sanzioni economiche degli Usa. Che tentassero di fare cartello per difendersi era più che prevedibile, addirittura scontato.
Per tutte queste ragioni, quindi, pare fondato credere che, più che
contro l’Iran, questo attacco sia portato contro Cina e Russia. Che
abbia finalità più profonde e obiettivi più vasti. Uno su tutti:
garantire agli Stati Uniti d’America di conservare il più a lungo
possibile il rango di unica superpotenza mondiale e di frenare o
bloccare quello che molti, pensando soprattutto alla Cina, vedono come
un progressivo trasferimento di peso e di poteri verso altri Paesi.
Fonte
Uno Scaglione come sempre lucidissimo.
A fornire respiro alla sua analisi anche un altro dettaglio: da quando negli USA si è affermata l'estrazione petrolifera tramite fracking, l'imperialismo nordamericano è divenuto quasi del tutto immune agli incrementi, anche repentini, del prezzo del greggio potendosi dunque permettere di agire in funzione destabilizzante pagando pochissimi scotti interni.
Anzi, nello specifico caso del petrolio guadagnandoci pure dal momento che l'estrazione entro i confini nazinali tramite fratturazione idraulica è profittevole con un prezzo del barile di 70 dollari circa.
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