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03/01/2020

La Turchia nella guerra in Libia

di Murat Cinar

Un paese in guerra

In Libia non c’è un momento di tregua dal 2011, ossia dopo l’uccisione dello storico dittatore Muammar Gheddafi. Le elezioni del 2014, realizzate dopo quarantadue anni di regime, hanno letteralmente spaccato il Paese in due parti.

Oggi, nella capitale esiste, in teoria, un governo legittimo, guidato da Fayez al-Sarraj, nominato Presidente grazie all’accordo con le Nazioni Unite. Nel resto del territorio esiste un’altra forza attiva; una formazione militare guidata dal generale Khalifa Belqasim Haftar. Si tratta di uno degli ex comandanti dell’esercito di Gheddafi rientrato nel Paese nel 2014 dopo più di venti anni di permanenza negli Stati Uniti d’America. Le elezioni del 2014 sono state, per Haftar, un momento di svolta con l’obiettivo di prendere il controllo della Libia. Tuttora ci troviamo di fronte a una vera guerra tra queste due fazioni.

Chi sostiene chi?

Quello che succede in Libia è ormai una guerra per procura. Diversi paesi sostengono o uno o l’altro dei due attori sul campo. C’è chi fa una scelta per motivi economici, il Paese è ricco di fonti energetiche non rinnovabili, ha una lunga costa sul Mediterraneo e il principale punto di partenza per i flussi migratori verso l’Europa. C’è chi si muove per motivi puramente ideologici, uno degli attori più fluidi e radicali del territorio sono i famosi “Fratelli Musulmani” che per una parte del mondo “islamico” (e non solo) rappresentano una “soluzione” oppure sono “l’unico motore di cambiamento” nel Nord dell’Africa, da parecchi anni. Invece c’è chi sostiene di fare una scelta in nome della “lotta contro il terrorismo” anche perché è sempre più palese la presenza delle bande di jihadisti legate all’ISIS e/o Al Qaida.

Tornando agli attori presenti sul territorio vediamo che il governo di Sarraj, riconosciuto dall’Onu e dall’UE riceve anche l’appoggio esterno della Turchia e del Qatar. Dunque Sarraj è accusato di essere l’espressione dei “Fratelli Musulmani” finanziati e sostenuti da questi due Paesi.

Il movimento del generale Haftar, invece, riceve l’appoggio ufficiale di Russia, Egitto, Arabia Saudita, Francia ed Emirati Arabi. L’ex generale di Gheddafi viene sostenuto per “impedire l’entrata e l’avanzamento dei fondamentalisti in Libia” ed è anche definito come un “collaboratore della Cia” e accusato di “tentato golpe”.

L’accordo del 27 novembre

In quest’ottica, l’avvicinamento ufficiale tra il governo di Tripoli e quello di Ankara ovviamente tende a cambiare le carte sul tavolo. L’accordo firmato prevede una forte collaborazione tra questi due esecutivi sopratutto nel campo militare; formazione, donazione delle armi, costruzione delle basi e presenza dei soldati. Inoltre ci sono alcuni punti che aprono la strada per le future eventuali collaborazioni nel campo energetico e commerciale. Infine grazie a questo accordo i confini marittimi sono stati ridisegnati e i due paesi sono diventati fortemente “vicini”.

Secondo il Presidente della Repubblica di Turchia, principale promotore dell’accordo, questo avvicinamento era inevitabile. Durante un intervento pubblico, nella città d’Istanbul, il 7 dicembre difese così la sua posizione: “Si giocavano diverse partite su questo Paese e noi le abbiamo scombussolate. Questo dà fastidio a qualcuno. Continueremo con la nostra posizione in Libia. Abbiamo una relazione storica con il popolo libico vorremmo difendere i loro diritti fino alla fine. Inoltre porteremo avanti la nostra ricerca di fonti energetiche e sorvegliare i confini con le navi di sondaggio e quelle militari già presenti nelle acque libiche. Tutto questo è il nostro diritto grazie alla giurisdizione internazionale. Ormai abbiamo una notevole credibilità e validità a livello internazionale e dobbiamo preservare questo”.

Le reazioni locali

Le posizioni del Presidente della Repubblica ovviamente sono state sposate dalla maggior parte della coalizione di governo e da una fetta del suo elettorato. Invece le opposizioni sono contrarie o scettiche.

In merito alla posizione dei cittadini sulla questione, i canali televisivi non danno molto spazio. Ci sono soltanto alcuni canali attivi esclusivamente su YouTube che raccolgono il parere dei cittadini che sembra per la maggior parte contraria, tranne quella conservatrice e nazionalista che costituisce la base dell’elettorato del governo.

Invece, i media main stream che sostengono sistematicamente le politiche di Ankara stanno portando avanti una campagna a favore dell’invio delle truppe in Libia dando spazio esclusivamente alla posizione del governo centrale.

La principale forza dell’opposizione, il Partito Popolare della Repubblica, CHP, ha espresso la sua contrarietà a questo accordo e all’idea d’inviare truppe in Libia. La stessa linea è stata condivisa anche dalla seconda formazione dell’opposizione, Partito Democratico dei Popoli, HDP. Invece il terzo partito dell’opposizione, Partito Buono, Iyi Parti, non si è ancora pronunciato ufficialmente, mentre alcuni parlamentari di questa formazione si sono espressi contrari la segretaria generale, Meral Aksener ha detto che il suo gruppo parlamentare avrebbe bisogno del tempo per valutare l’invio delle truppe a Tripoli.

Cosa vuole veramente Ankara?

Esattamente come ci ricorda Dogan Ozguden, del portale di notizie Arti Gercek, dopo 69 anni la Turchia si trova con la possibilità d’inviare truppe in una guerra civile con cui non confina. Nel 1950 il governo dell’epoca decise di partecipare nella guerra delle Coree e poco dopo il Paese diventò membro della Nato. Secondo Ozguden, anche stavolta si tratta di una guerra di deleghe e si chiede al governo della Repubblica di Turchia, di nuovo, di sacrificare i suoi figli per qualcun altro.

Secondo il giornalista Fehmi Tastekin, del portale di notizie Gazete Duvar, è già in atto lo spiegamento dei militanti jihadisti dalla Siria alla Libia che lavorerebbero per difendere il governo di Tripoli. Tastekin fa basare questa sua tesi sulle dichiarazioni rilasciate da diversi gruppi armati presenti sul territorio siriano, alcuni giornali locali e la crescita sproporzionata dei voli da Istanbul verso Tripoli e Misurata. Tastekin continua così: “Credo che l’intento sia quello di fare in modo che il governo libico non cada e regga fino alla conferenza internazionale che si svolgerà a Berlino nel mese di gennaio. Facendo così prima di tutto si tiene in piedi l’unico governo nord africano vicino all’ideologia dei Fratelli Musulmani e si risolve anche il problema dei jihadisti presenti nel nord della Siria”. Secondo Tastekin questa manovra scombussolerebbe le acque in Libia e potrebbe essere utile, nel breve periodo, per la Russia.

Quest’informazione è stata confermata anche dall’emittente televisiva Euro News che pochi giorni fa ha realizzato un servizio basandosi sulle dichiarazioni dell’Osservatorio siriano per i diritti umani. Secondo Euro News, si tratterebbe di un lavoro già in atto che prevede l’addestramento di circa 1600 militanti nei campi di Afrin in Siria, pronti per andare verso la Libia.

Senz’altro le motivazioni economiche legate al commercio delle armi, fonti energetiche ed edilizia sono state rese evidenti e pubbliche grazie alle dichiarazioni rilasciate dal Presidente della Repubblica in questi giorni. Particolarmente per l’aspetto economico che riguarda l’industria della guerra può essere presa in considerazione la dichiarazione di Adnan Tanriverdi, capo consulente del Presidente della Repubblica e fondatore dell’azienda di consulenza e formazione militare Sadat: “Sarebbe ideale formare una sorta di esercito privato in Turchia con l’obiettivo d’intervenire in altri Paesi senza impiegare le forze armate di quello ufficiale. In Libia può essere valutata quest’opzione”.

Un altro motivo per far parte della guerra civile in Libia è ovviamente distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica.

La Turchia sta vivendo le conseguenze di una forte crisi economica che coinvolge sempre di più le diverse parti della società. Le tasse aumentano, la disoccupazione cresce, diversi prodotti di largo consumo hanno subito numerosi aumenti e l’inflazione corre in modo sfrenata. Mentre il numero delle aziende che falliscono sale, la fiducia nei confronti del governo è sempre più debole. Dopo la sconfitta alle elezioni amministrative della scorsa estate, per il governo di Ankara la partita è sempre più difficile. In Turchia ormai la possibilità di anticipare le elezioni politiche che erano previste per il 2023 è l’ordine del giorno. Questo discorso è diventato ancora più caldo sopratutto da quando due attori importanti del partito al governo hanno deciso di fondare due nuovi partiti creando così la scissione più forte nella storia dell'AKP; l’ex primo ministro Ahmet Davutoglu e l’ex Ministro dell’economia Ali Babacan.

Il paragone con la Siria

L’eventuale coinvolgimento della Turchia nella guerra civile libica ci ricorda fortemente quella siriana. Le dinamiche economiche, politiche e ideologiche sono molto simili. Ma ci sono due altri aspetti altrettanto interessanti.

Il primo è il ruolo fondamentale della Libia nella “gestione” dei flussi migratori. Da questo punto di vista vediamo somiglianze tra questi due casi se teniamo in considerazione che in Turchia ci siano circa 4 milioni di siriani e per questo fatto sia stato firmato il famoso e molto discusso accordo tra il governo di Ankara e l’Unione Europea. Un accordo che ha arricchito le mani del Presidente della Repubblica che in ogni occasione buona cerca di lanciare dei messaggi di minacce e ricatta l’Europa. Dunque anche la Libia potrebbe essere “un’occasione” per attivare nuove politiche analoghe, pericolose e dannose.

Il secondo punto che accomuna questi due casi è il fatto che si tratti di guerre per procura in cui sono coinvolti numerosi paesi che sostengono diversi attori presenti sul territorio. Oltre questo, esattamente come succede in Siria, gli attori locali costruiscono e fanno fallire alleanze con diversi paesi stranieri in varie zone della Libia. Quindi questa forte confusione causata da una cultura politica ed economica ipocrita e opportunista, ovviamente permette al governo di Ankara di agire di testa propria in modo altrettanto opportunista.

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