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03/04/2020

Petrolio - L’oro nero è diventato un “cigno nero”

La guerra mondiale del petrolio è uno dei primi effetti delle conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria determinate dalla contrazione dei consumi cinesi. La Repubblica Popolare negli ultimi dieci anni circa ha visto aumentare la quota di greggio consumata dalla propria economia dal 9% del 2008 al 13,7% del 2019 (rispetto al consumo mondiale).

È saltata la forma di governance allargata delle relazioni tra i maggiori produttori petroliferi che si era configurata con l’accordo tra Arabia Saudita e Russia di circa tre anni fa con l’avvio dell’OPEC PLUS e l’allargamento di fatto dello storico cartello petrolifero.

L’abbassamento drastico del prezzo del greggio sta avendo pesanti ricadute sugli attori “più deboli” dipendenti prevalentemente dalle fortune del mercato petrolifero, messi a dura prova anche dallo stress test pandemico: Algeria e Nigeria per l’Africa, Messico e Venezuela per l’America Latina, Iran ed Iraq per il Medio-Oriente e svariati stati del Golfo.

La dinamica ribassista sul prezzo del petrolio ha innescato il crollo delle maggiori piazze borsistiche e rischia di trascinare con il suo effetto domino tutta la finanza statunitense, essendo una quota consistente di azioni collegate allo scisto americano ormai considerate “titoli spazzatura” dalle maggiori agenzie di rating.

Questa dinamica rischia di invertire il trend affermatosi nel 2018 che aveva fatto divenire, da quell’anno, gli Stati Uniti il maggiore produttore di oro nero al mondo, fino a raggiungere recentemente una produzione di circa 13 milioni di barili al giorno.

Viene quindi minata l’indipendenza energetica e il profilo di “esportatore netto” confermato nella prima tranche di accordi con la Cina, dopo una lunga e logorante guerra dei dazi che ha preceduto di poco l’epidemia.

Conscia del pericolo, la lobby petrolifera degli Stati Uniti ha fatto pressione sull’attuale amministrazione, che non ha ancora predisposto nessuna misura particolare per il settore nel suo pacchetto da 2mila miliardi di dollari di “salvataggio” dell’economia.

Mike Pence, a latere del G20 tenutosi la scorsa settimana ha fatto pressioni sul principe saudita “MBS” – di fatto a capo del Regno – affinché colga l’attimo (“rise the occasion”) e stabilizzi i prezzi dell’oro nero.

Il falco dell’amministrazione Trump gli ha di fatto chiesto di fare marcia indietro rispetto alla sfida lanciata alla Russia, con il drastico abbassamento del prezzo e il contemporaneo aumento esponenziale della produzione per inondare i mercati già in contrazione con il greggio saudita.

All’oggi non è chiaro se tale opera di convincimento sortirà effetti positivi, e gli esperti sono profondamente divisi rispetto alla politica che attueranno i sauditi.

È comunque chiaro che rapporti tra i due storici alleati si complicano.

Il perseguire di questa politica da parte dell’Arabia Saudita potrebbe ulteriormente far precipitare la situazione, o come ha dichiarato il direttore dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Faith Birol al settimanale francese “les Echos”: «i cittadini del mondo si ricorderanno che le grandi potenze che avevano il potere di stabilizzare l’economia di numerosi paesi in un periodo di pandemia senza precedenti hanno deciso di non esercitarlo. La storia li giudicherà».

Il conflitto tra USA e Russia sul fronte degli idrocarburi in questi anni si era articolato con lo scontro su Nord-Stream 2 e i rapporti con il Venezuela. La posizione di relativa forza della Russia ora è data dal fatto che il Paese si era avvantaggiato dell’accordo pregresso con l’Arabia Saudita – che aveva portato ad un innalzamento del prezzo del greggio contestuale al taglio concordato delle quote di produzione – per alimentare il proprio fondo che ammonta a 150 miliardi di dollari, di cui 137 giunti in questi anni di prezzi relativamente stabili.

Un tesoretto in riserve valutarie estere che potrebbe permettergli di reggere a “dieci anni” del prezzo attuale dilapidando le proprie risorse, svalutando il rublo e forse costringendo ad una ridimensionamento i “progetti nazionali” di Putin. Gli idrocarburi infatti costituiscono ancora circa il 40% del budget russo.

Anche recentemente la Russia ha ribadito, nel picco dello scontro USA-Venezuela, il proprio appoggio a Maduro.

Rosneft ha terminato le proprie operazioni e ha venduto i suoi asset delle compartecipate venezuelane in joint venture con la PDVSA (Petromagas, Petromiranda, Petroperija, Boqueron, Petrovictoria) direttamente al Cremlino per “sterilizzare” le possibili sanzioni statunitensi e rassicurare i propri maggiori azionisti di minoranza come la BP ed il Fondo Sovrano del Qatar.

Con questa mossa ha ribadito supporto al governo venezuelano e tutelato anche i propri asset considerando le grandi potenzialità di queste aziende in Venezuela.

La Russia ha di fatto complicato la guerra sporca che Washington sta facendo alla rivoluzione bolivariana.

Dal canto suo l’Arabia Saudita gode di una notevole quantità di riserve monetarie (Riad dispone di un fondo di più di 500 miliardi di dollari) ed ha varato un pacchetto di misure per fronteggiare le conseguenze del Covid-19 che ha raddoppiato il suo debito a circa il 50% del PIL, senza liquidare però alcun asset e senza attingere alle proprie riserve monetarie.

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Venerdì 27 marzo il prezzo del petrolio era 22,8 dollari al barile (20,8 euro), contro i 68 di inizio gennaio.

Se si vuole avere una idea del gap tra il prezzo attuale e il picco degli ultimi anni bisogna ricordare che il 24 luglio del 2014 era di 113,2 dollari al barile.

La guerra dei prezzi scatenata dall’Arabia Saudita dopo il fallimento del vertice OPEC PLUS a marzo con il rifiuto dei tagli alla produzione che il regno saudita voleva imporre alla Russia, è stata una delle ragioni del precipitare dei mercati finanziari.

In una situazione di drastico abbassamento dei valori dei titoli borsistici le azioni delle aziende del settore energetico negli Stati Uniti si sono abbassati del 20% rispetto allo S&P500 che aveva conosciuto una non proprio brillante prestazione.

Se si tiene conto dell’alto valore di indebitamento delle compagnie energetiche legate al petrolio e al gas di scisto, e alle pesanti conseguenze per la sua filiera in alcuni degli Stati dell'Unione, Texas, Nord Dakota e Pennsylvania, la situazione appare in tutta la sua criticità.

Titoli legati allo shale e i veicoli finanziari collegati ai mutui ipotecari – gli MBS – sono infatti il tallone d’Achille della finanza USA.

Diamo un quadro organico di ciò che comporta l’attuale situazione per gli Stati Uniti, il più debole dei tre competitor.

Lo shale gas and oil ha il suo “centro” d’estrazione in Texas, uno Stato la cui economia è pari a 1,8 miliardi di dollari.

Qui la produzione di scisto è quadruplicata negli ultimi dieci anni, ed è il 42% della produzione totale di greggio degli Stati Uniti.

Il Permian Basin è stato il centro di questa nuova corsa all’“oro nero”.

La produzione di scisto si è “impennata” a partire dal 2011 ed è diventata il vettore dell’incremento della produzione statunitense, alimentando i sogni di Trump di una America di Nuovo Grande, come recitava il suo slogan per le precedenti presidenziali.

Sebben il Texas sia uno Stato dall’economia diversificata: dall’industria della salute, ai trasporti, all’industria tecnologica, è il petrolio che contribuisce per più della metà al suo budget. Le tasse legate all’industria petrolifera alimentano il suo “rainy-day fund” che ne costituisce le riserve strategiche. Ogni variazione del prezzo incide sul suo budget, le cui spese erano state calcolate nei suoi piani ad ottobre su un valore ipotetico del greggio pari a 58 dollari al barile, circa il doppio dell’attuale prezzo di listino.

La pandemia sta minando la filiera produttiva degli idro-carburi ed i settori ad esso legati con una impennata nelle richieste dei benefits per la disoccupazione da parte dei texani pari ora a 155 mila dollari, aumentati di 9 volte rispetto alle settimane precedenti, un “mai visto” negli ultimi 30 anni.

La soglia di profittabilità minima per l’estrazione per il petrolio da scisto secondo la FRB di Dallas si assesterebbe attorno ai 49 dollari al barile.

La stessa banca ha calcolato che con un prezzo attorno ai 40 dollari, 2/5 degli operatori risulterebbero insolventi.

Tutte le maggiori compagnie hanno tagliato drasticamente i propri piani di spesa, compreso il colosso Chevron, con 2 miliardi di spese in meno.

Quella che David Sheppard del “Financial Times” ha definito la più grande crisi da 100 anni dell’industria petrolifera globale, ha dirette conseguenze nella finanza USA, oltre che su tutti gli attori globali con la BT che ha perso il 50% del suo valore quest’anno, ritornando ai livelli del 1995 o la ExxonMobil che ha perso negli ultimi 6 anni il 70% del suo valore di mercato.

Per dare una idea dell’entità della crisi bisogna ricordare che dei 936 miliardi di dollari di titoli energetici della borsa statunitense, le agenzie di valutazione finanziaria hanno attributo una tripla B – cioè l’equivalente di “titoli spazzatura” – a 175 miliardi di essi, rivedendo il proprio giudizio dopo il primo crollo borsistico.

Dopo la crisi del 2008 un costo del denaro relativamente basso, l’alto prezzo del greggio e la mancanza di una legislazione che regolasse il fracking, hanno reso profittevole l’estrazione dello scisto, permettendo alle compagnie di indebitarsi e procedere a sempre maggiori volumi di estrazione, diventando uno dei settori che catalizzavano gli investimenti finanziari.

Trump ci ha messo “l’asso” vedendone uno dei suoi strumenti di affermazione geo-politica, cercando di tagliare le gambe soprattutto a Venezuela ed Iran al centro di un combinato disposto di sanzioni economiche e di tentativi di “regime change” ed “infastidendo” la Russia.

Ma la doccia fredda della guerra dei prezzi, insieme alla tendenza a “liberarsi” degli asset di azioni di aziende da parte degli investitori a livello complessivo, sta trascinando con sé l’intero settore, ed i sogni di grandezza dell’amministrazione USA.

Come ha detto un esperto del settore: «la crescita dello shale ha aiutato a portare gli USA fuori dalla grande recessione, ma può farla diventare la vittima della crack scatenato dal Covid-19».

È la fine di un mondo in cui l’oro nero per gli Stati Uniti si trasforma nel suo contrario e contribuisce a seppellire la sua egemonia.

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