Dopo l’ennesima riconferma elettorale di Aleksandr Lukašenko, in Bielorussia
sono emerse vivaci proteste contro un presidente al potere dall’ormai
lontano 1994. I risultati ufficiali del voto hanno visto Lukašenko
imporsi con circa l’80% dei voti: a distanza di 70 punti percentuali ‒
10% ‒ si sono attestate le preferenze per Svetlana Tikhanovskaja, la
trentottenne che viene considerata la principale oppositrice di
Lukašenko. Anche ammettendo i brogli denunciati dall’opposizione e dalle
maggiori cancellerie occidentali, il consenso di cui gode Lukašenko
resta ancora rilevante e superiore a quello di ogni altra forza
d’opposizione, seppur rumorosa e organizzata.
La
Bielorussia è stata pressoché l’unico Paese dell’ex URSS che non ha
conosciuto privatizzazioni selvagge e deindustrializzazione su larga
scala (come avvenuto sia nei Paesi baltici, sia in Ucraina sia nella
stessa Federazione Russa) rimanendo fino ad oggi uno dei Paesi ex
sovietici con il livello di corruzione più basso ‒ risultato tangibile
della politica della tolleranza zero promossa da Lukašenko ‒ e con il maggior grado di stabilità e sicurezza sociale.
Sulla
scorta della lezione ucraina e della storia post-sovietica degli anni
Novanta non è banale interrogarsi su quali obiettivi persegua il
movimento d’opposizione a Lukašenko e quali alternative questo
rappresenti. Gli argomenti dell’opposizione, vertendo intorno al
desiderio di maggiori libertà sul piano dei diritti civili e della
democrazia formale, si incentrano sul radicale rifiuto della figura di
Lukašenko, accostata al retaggio sovietico e al legame simbiotico –
seppur talvolta litigioso ‒ con Mosca: un rifiuto che sotto le bandiere
biancorosse ‒ largamente riconducibile al retaggio polacco-lituano e
all’orientamento filotedesco ‒ tiene nelle stesse piazze liberali,
libertari, nazionalisti e neofascisti (arrivati anche dalla vicina
Ucraina).
A partire dal corso apertosi con il collasso
dell’Unione Sovietica, gli attriti tra Minsk e Mosca sono emersi
ciclicamente, di fatto in modo costante: alla base di questi attriti ci
sono sempre state le divergenze sui prezzi delle materie prime fornite
dal Cremlino alla Bielorussia. Anche durante i tempi torbidi degli
anni Novanta la sicurezza di queste forniture ha garantito il
funzionamento dell’industria e il mantenimento dello stato sociale più
consistente di tutta l’area ex URSS, nonché quello di uno dei livelli di
disoccupazione tra i più bassi d’Europa.
Se da una
parte Mosca non può permettere che la Bielorussia si trasformi in una
nuova Ucraina, dall’altra ricomporre la turbolenta amicizia con la
Federazione Russa appare per Lukašenko una scelta obbligata. Malgrado
gli sforzi compiuti per ritagliarsi un profilo da mediatore nei
contrasti tra Mosca e i vicini baltici, polacchi e ucraini, Lukašenko si
trova ad essere incalzato dai medesimi interessi che avrebbe voluto
conciliare. Oltre a mettere da parte i recenti dissidi con Mosca ‒
culminati nella decisione bielorussa di acquistare idrocarburi dagli
Stati Uniti ‒ l’attuale crisi potrebbe accelerare il processo di
integrazione tra Federazione Russa e Bielorussia, già sottoscritto dalle
parti tra il 1999 e il 2000.
Quel che traspare è il tentativo ‒ confermato dalle parole di Angela Merkel e dalla posizione ufficiale dell’Unione Europea
‒ di delegittimare ad ogni costo un presidente molto risoluto e
senz’altro poco ligio ai canoni della democrazia liberale, ma comunque
legittimo. Un tentativo che potrebbe addirittura trascinare il Paese
verso scenari di tipo militare nel caso si forzasse la destituzione di
Lukašenko. Negli scorsi giorni hanno infatti avuto luogo diversi
movimenti di truppe e di mezzi da entrambi i lati delle frontiere tra la
Bielorussia e le confinanti Polonia e Lituania: il livello di allerta
delle forze armate bielorusse è massimo.
L’approvazione di nuove
misure sanzionatorie da parte dell’Unione Europea appare questione di
giorni: le misure saranno dirette sia contro Minsk che ‒ verosimilmente ‒
contro Mosca, sanzioni che nel caso di quest’ultima si sommerebbero a
quelle già in essere dall’ormai lontano 2014 (annessione della Crimea).
Gli
eventi bielorussi allontanano l’Europa occidentale da Mosca,
compattando almeno per il momento la posizione delle principali
cancellerie europee a quella degli Stati Uniti. Nel caso di questi
ultimi ‒ per i quali molto sembra dipendere dall’incognita elettorale
del prossimo autunno ‒ la recente visita del segretario di Stato Mike
Pompeo in Polonia ha confermato l’intesa strategica tra Washington e
Varsavia. Lo stesso Pompeo – primo segretario di Stato a recarsi in
visita nella Bielorussia post-sovietica ‒ lo scorso febbraio aveva
suggerito a Lukašenko di diversificare il proprio approvvigionamento
energetico acquistando petrolio e derivati dagli Stati Uniti.
Tra
chi vuole scongiurare la possibilità di una Bielorussia instabile c’è,
al pari di Mosca, Pechino. Oltre ad essere il terzo partner commerciale
della Bielorussia ‒ il primo dopo Federazione Russa e Ucraina ‒ la Cina è
il Paese che recentemente ha più investito nell’economia di Minsk. In
Bielorussia si trova infatti il più grande parco industriale ‒ 6000
lavoratori ‒ costruito in Europa con investimenti cinesi. Ma prima di
questo, la Bielorussia è importante per la sua posizione privilegiata
nei corridoi di trasporto terrestre dal Pacifico all’Atlantico, così
come dal Baltico al Mar Nero: sulla direttrice est-ovest la rotta
bielorussa permette infatti di aggirare l’Ucraina, Paese dove tutt’oggi
si continua a combattere una guerra civile a bassa intensità.
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