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10/11/2020

USA - Biden e l’illusione del cambiamento

Con la vittoria nelle presidenziali praticamente in tasca, Joe Biden e i leader del Partito Democratico stanno mandando i primi chiarissimi segnali circa gli orientamenti che la nuova amministrazione intenderà tenere una volta superata la resistenza e le cause legali minacciate da Donald Trump. Se il fatto di avere limitato la presenza di quest’ultimo alla Casa Bianca a un solo mandato è di per sé motivo di esultanza, l’avvicendamento con l’ex vice di Obama comporta una serie di altre problematiche, in alcuni casi non necessariamente meno inquietanti, visto anche che la nuova amministrazione democratica sarà in linea generale solo leggermente meno spostata a destra di quella repubblicana uscente.

Al termine del conteggio di tutti i voti espressi da un numero record di americani, è probabile che il vantaggio di Biden in termini di preferenze popolari supererà abbondantemente i cinque o forse anche i sei milioni. L’equilibrio e l’incertezza seguite alla chiusura delle urne sono dovuti perciò alla singolarità e alla natura anti-democratica del sistema elettorale americano. È difficile di conseguenza affermare che il mandato ottenuto dal candidato democratico non sia piuttosto netto. L’impennata dell’affluenza e le manifestazioni di gioia esplose in molte città USA, dopo che nel fine settimana quasi tutti i media principali hanno assegnato la vittoria a Biden, sono le testimonianze più evidenti del desiderio della maggioranza degli americani di liberarsi di Trump.

Nonostante ciò, le discussioni all’interno del Partito Democratico e sui giornali “liberal” sono invece incentrate sui limiti entro i quali la nuova amministrazione potrà muoversi, calcolando già le concessioni che dovranno essere fatte ai repubblicani. Il partito di Trump dovrebbe d’altra parte conservare la maggioranza al Senato, anche se a decidere saranno i ballottaggi di gennaio per i due seggi dello stato della Georgia, dove i candidati repubblicani restano nettamente favoriti. Il vero vincitore delle elezioni sembra essere stato così il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell. Non si contano infatti in questi giorni gli articoli che propongono congetture sulla qualità delle relazioni tra il senatore del Kentucky e il suo ex collega che si installerà alla Casa Bianca. Per il New York Times, addirittura, McConnell avrà a disposizione un vero e proprio “potere di veto” sulla legislazione proposta da Biden e sulle nomine del suo prossimo gabinetto.

Se in termini puramente numerici, la leadership repubblicana al Senato ha la possibilità di ostacolare qualsiasi provvedimento, è altrettanto vero che la maggioranza sarà estremamente risicata e, soprattutto, il peso di un’elezione vinta può dare un forte impulso all’imposizione dell’agenda politica di un presidente. Tanto più in presenza di svariati senatori repubblicani “moderati”, da tempo ostili a Trump e già dichiaratisi pronti a collaborare con Biden.

Il dibattito attorno ai vincoli della nuova amministrazione democratica serve in sostanza a marginalizzare le forze progressiste che hanno contribuito invece in modo decisivo al successo di Biden. A questo proposito, ampio spazio ha trovato sui media americani lo scontro interno all’assemblea dei deputati democratici andata in scena alla chiusura delle urne per fare il punto su un risultato che ha visto assottigliarsi la maggioranza alla Camera de Rappresentanti. La fazione “centrista” si è lamentata per quella che ha definito una campagna elettorale troppo spostata a sinistra e che ha attirato le critiche repubblicane, a dir poco assurde, di un partito in odore di “socialismo”.

In realtà, tutto indica che la prestazione poco esaltante del Partito Democratico sia dipesa dalla proposta politica decisamente troppo moderata e, come nel caso di Joe Biden, di candidati legati a doppio filo all’establishment di Washington. La mancata conquista dei seggi necessari a ribaltare gli equilibri al Senato è ad esempio da attribuire alla decisione di presentare candidati “moderati” in quegli stati dove i repubblicani in carica sembravano battibili. In quasi tutti i casi, i democratici sono stati sconfitti. Nessun candidato a un seggio al Senato è stato invece promosso o sostenuto dall’apparato del partito tra le fila della fazione “progressista” vicina a Bernie Sanders.

Questa realtà conduce a una considerazione inevitabile sulla natura della prossima amministrazione democratica. Al di là della retorica del cambiamento, dell’unità da ritrovare e della rigenerazione di un paese lacerato da quattro anni di odio alimentato da Trump, la logica che guiderà la Casa Bianca sarà quella di un futuro presidente che, in oltre quattro decenni di carriera politica, è sempre stato associato alla destra del Partito Democratico, sia in ambito domestico sia per quel che riguarda la politica estera. Il desiderio dell’ala sinistra del partito di vedere Sanders al dipartimento del Lavoro o Elizabeth Warren al Tesoro resterà quasi certamente tale, così come senza seguito le promesse sulla riforma del fisco, sulla sanità pubblica e sulla regolamentazione di Wall Street, peraltro già fortemente attenuate da Biden in campagna elettorale.

Il venir meno degli eccessi della condotta trumpiana, come l’ultra-nazionalismo, una certa tendenza all’isolazionismo e la battaglia anche contro gli alleati storici, lascerà posto a un sostanziale ritorno, almeno nei metodi, all’imposizione tradizionale degli interessi del capitalismo americano. Quello che viene venduto come un ritorno degli Stati Uniti al loro consueto ruolo stabilizzatore sullo scacchiere internazionale è in sostanza il riappropriasi del processo decisionale da parte di quell’apparato di potere e di “lobbying” fatto di diplomatici, accademici, think tanks, media ufficiali e funzionari governativi che avevano avuto un ruolo di spicco durante l’amministrazione Obama.

Il compromesso con i repubblicani e la riproposizione di una politica estera basata sulla finta retorica dei “diritti umani” e della promozione della democrazia si possono intravedere già dai primi nomi che stanno circolando dei candidati a occupare le posizioni più importanti del prossimo gabinetto Biden. Per il Pentagono, la superfavorita sembra essere Michele Flournoy, semi-sconosciuta fuori da Washington ma già sotto-segretaria alla Difesa con Obama e animatrice di centri di studio e di organi di consulenza che ruotano attorno agli ambienti di potere filo-democratici, nonché prima scelta di Hillary Clinton nel 2016 per guidare la macchina da guerra USA.

La Flournoy è tra i principali teorici odierni della supremazia degli interessi del complesso militare-industriale e dell’intelligence USA nel perseguire gli obiettivi di politica estera. Un punto di vista già fatto proprio da Obama, con Biden alla vice-presidenza, e concretizzatosi, tra l’altro, nelle guerre in Siria, in Libia e in Yemen, nel golpe di estrema destra in Ucraina, nell’escalation militare in Afghanistan, nell’abuso della guerra con i droni e nella “guerra ibrida” contro il Partito dei Lavoratori in Brasile culminata con la farsa dell’impeachment della presidente Dilma Rousseff.

Agli stessi ambienti vanno ricondotti anche il possibile futuro segretario di Stato, l’ex ambasciatrice all’ONU Susan Rice, e uno dei favoriti per la carica di consigliere per la Sicurezza Nazionale, l’ex vice-segretario di Stato Anthony Blinken. Identico discorso va fatto per le questioni interne, con la barra dell’amministrazione Biden che resterà al centro, per non dire a destra. Per il Tesoro sono ad esempio insistenti le voci che vorrebbero la governatrice della Federal Reserve Lael Brainard, mentre è probabile che otterranno incarichi anche membri del Partito Repubblicano, come l’ex governatore dell’Ohio, John Kasich.

È interessante anzi notare come a questo ritorno vada aggiunta anche l’influenza che potrebbero avere gli ambienti “neo-con” repubblicani, mai riconciliati con l’idea di Trump alla Casa Bianca e, almeno in parte, dichiaratisi apertamente a favore di Biden durante la campagna elettorale appena conclusa. Questo coagularsi di gruppi di interesse attorno alla nascente amministrazione lascia intravedere chiaramente un rilancio in pieno stile dell’offensiva anti-russa. Sul fronte cinese, è inoltre improbabile una de-escalation significativa rispetto agli ultimi quattro anni e, in generale, le basi gettate da Trump – dall’Iran a Israele, dalle politiche commerciali alla Turchia e al ruolo della NATO – non saranno facili da scardinare, sia per le mutate condizioni degli equilibri internazionali sia soprattutto perché rispondono a un imperativo condiviso anche da Biden, vale a dire la salvaguardia della declinante posizione internazionale degli Stati Uniti.

Un discorso a parte merita infine la possibile prospettiva di un avvicendamento alla presidenza prima ancora della fine del mandato appena conquistato da Joe Biden. L’età e le condizioni di salute probabilmente in rapido deterioramento del presidente-eletto non escludono uno scenario simile e hanno fatto puntare i riflettori sulla sua vice, la senatrice della California, Kamala Harris. Com’era prevedibile, l’attenzione riguardo a quest’ultima si è concentrata sulle sue origini afro-americane e Tamil, con la solita enfasi sulla conquista che per tutti gli americani rappresenterebbe il suo storico ingresso alla Casa Bianca.

La Harris è piuttosto un prodotto degli ambienti ultra-facoltosi della California e la sua ascesa politica, prima come procuratore e poi come senatrice, è stata attentamente coltivata proprio per le sue inclinazioni “law and order” e da autentico “falco” per quanto concerne la politica estera. Dopo l’approdo al Senato, la Harris venne premiata ad esempio con un posto nella commissione Intelligence, da dove ha giocato un ruolo di primo piano nella caccia alle streghe anti-russa e nel fallito impeachment contro il presidente Trump, fondato interamente su premesse reazionarie.

Kamala Harris è anche una creatura del clan Clinton, per lo meno negli ultimi anni, come testimonia tra l’altro un suo ben documentato incontro risalente all’estate del 2017 negli “Hamptons”, la località ultra-esclusiva sull’Atlantico non lontana da New York, con alcuni dei più generosi finanziatori della carriera politica di Hillary. In quell’occasione fu con ogni probabilità definito il piano di promozione della ex procuratrice della California, tutto basato sul colore della sua pelle per avanzare politiche sostanzialmente reazionarie.

I legittimi festeggiamenti per l’ormai quasi certa uscita di scena di Donald Trump potrebbero essere quindi di breve durata, non solo per le difficoltà oggettive che attendono il nuovo presidente in un paese devastato dall’epidemia di Coronavirus e per una situazione internazionale esplosiva. Quanti sperano, come nel 2008 ai tempi dell’elezione di Obama, in una trasformazione degli Stati Uniti in senso anche solo vagamente progressista dopo la notte della presidenza Trump rischiano nei prossimi mesi di andare incontro ancora una volta a un risveglio particolarmente brusco.

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