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06/09/2021

L’Unione Europea cerca un ruolo nella crisi di egemonia Usa

In crisi economica sistemica conclamata da quasi un quindicennio (come tutto l’Occidente neoliberista), in crisi pandemica irrisolta da venti mesi, l’Unione Europea si è trovata spiazzata strategicamente dalla fine dell’avventura in Afghanistan.

Quest’ultimo è stata forse l’evento chiarificatore che ha squadernato davanti a tutti – resistono ancora alcuni “opinion maker” di bassa lega che affollano i talk show e ripetono stancamente sempre gli stessi editoriali – la fine di un’epoca e di una “relazione speciale” con gli Stati Uniti.

Nel breve volgere di pochi giorni sentiamo montare discorsi e proposte operative che normalmente richiedono anni di riflessioni, contatti informali, lavoro di sherpa ed “esperti”.

Sul piano economico, riferiscono per esempio gli insider di Repubblica, “Draghi vuole cambiare il Patto di Stabilità, ma aspetta le elezioni tedesche”. Depurata dall’insopportabile “culto della personalità” tipico dei media mainstream, la notizia è che l’attuale patto di stabilità non regge più. La crisi economica prima e l’impatto della pandemia poi, l’hanno reso una gabbia arrugginita che non serve più. Nemmeno per chi ne aveva tratto i principali benefici (la Germania, appunto).

In altri tempi questa “rivelazione” avrebbe occupato per giorni le prime pagine. Si sta infatti dicendo che il meccanismo descritto per oltre vent’anni come il non plus ultra della “scienza economica”, tanto da essere usato come un “manuale di corretta amministrazione finanziaria degli Stati”, e che come tale era da considerarsi immodificabile (a parte dettagli insignificanti), deve essere profondamente “riformato”.

In che direzione non viene detto, come sempre. Ma di certo non verso un modello meno neoliberista o “socialmente responsabile”. Basta vedere quel che lo stesso Draghi sta combinando mentre tutti stanno a discutere del green pass. In pratica, la privatizzazione di tutti i servizi pubblici per legge. Il modello che si ha in testa, insomma, non è diverso da quello fin qui imposto. Semmai è peggio.

Ma è sul piano militare-geostrategico che l’Unione ha scoperto di essere “nuda”. La sudditanza ultrasettantennale nei confronti degli Usa aveva permesso di “risparmiare” investimenti militari e “sentirsi comunque” padroni di una grande parte del mondo. Ora gli Usa – da almeno tre presidenze in qua (Obama, Trump, Biden) – hanno spiegato chiaramente che loro intendono muoversi da qui in avanti soltanto sulla base dei propri interessi esclusivi.

Il “poliziotto del mondo” non è un compito che possono più assumere. Per problemi di costi, di repulsione suscitata in ogni continente, per incapacità conclamata di risolvere uno qualsiasi dei problemi che – tramite l’intervento militare e la creazione di governi-fantoccio – si pensava di mettere sotto controllo.

Persino quell’impiegato elevato a ministro degli esteri europeo, Robert Borrel, è stato costretto a pronunciare il de profundis per quel tipo di relazione. D’ora in poi, l’Unione Europea dovrà esser capace di far da sola.

Riuscirci, com’è noto, è tutt’altra cosa. Servirebbe non solo un esercito operativamente rodato (esistono solo gruppi speciali nazionali, impiegati nei diversi teatri di guerra imposti dagli Usa, ma funzionanti solo grazie a tecnologie e catene di comando statunitensi), ma soprattutto una unità di intenti che al momento è poco più di una “esigenza oggettiva”.

Serve insomma una visione del mondo e dei “propri interessi strategici” che al momento non esiste. La prima era stata, come detto, presa in prestito dagli Usa, l’identificazione dei secondi dipende dai singoli interessi nazionali dei paesi membri (“aspettiamo le elezioni tedesche”, premette non a caso Draghi). Con una chiara distinzione/contrapposizione tra quelli più forti e quelli più deboli.

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha sintetizzato i due problemi in modo elementare, ma proprio per questo più brutale: “Siamo andati in Afghanistan con i nostri alleati americani. Ne usciamo con loro. Ma le implicazioni di questa nuova situazione non sono identiche per gli Stati Uniti e per l’Europa, motivo per cui quest’ultima dovrà presto fare scelte in linea con i propri interessi strategici”. Che non sono più gli stessi di quelli Usa, o almeno adesso si può dirlo.

Non sarà un processo veloce, sia per problemi militari (nessuno, in Europa, ha più una storia recente e un know how da “imperialista indipendente” ed esperienza relativa), sia per problemi politici.

Le istituzioni europee funzionano infatti sulla base del principio dell’unanimità. Ogni decisione rilevante richiede l’accordo di tutti e 27 i membri.

Un principio opposto a quel che serve sul piano militare, dove ogni decisione deve avvenire in tempo reale ed essere applicata senza esitazioni o contrattazioni ad ogni livello della catena di comando, dal comandante in capo all’ultimo dei soldati semplici.

Quindi deve essere definitivamente abbandonato quel principio di “condivisione unanime” che era stato dipinto come il lievito della “democrazia europea”.

La ministra della Difesa tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer, ha proposto il ricorso all’articolo 44 del Trattato dell’Unione, che permetterebbe la partecipazione alle operazioni in base alla “volontà” degli Stati. Non tutti i Ventisette, in sostanza, sarebbero costretti a prendere parte a una missione Ue.

“Finora non è mai stato utilizzato l’articolo 44 e io sono pienamente d’accordo sul ricorso a questa possibilità“, ha spiegato Borrell. Ma il diavolo delle regole è già in agguato: per decidere di superare il principio dell’unanimità serve... l’unanimità.

Infatti, “l’articolo 44 richiede comunque una decisione unanime dal Consiglio e, poi, potranno partecipare alla missione solo coloro che lo vorranno. Non tutti devono partecipare ma tutti devono essere d’accordo“.

Le “velocità” della prossima Unione Europea saranno insomma più d’una ed anche più di “due”. A seconda dei problemi (economici, politici, militari) si andranno a costituire delle maggioranze a geometria variabile intorno ai paesi forti (Francia e Germania), con i “dissidenti” che inizialmente potranno pure “astenersi dalla lotta comune” (come già avviene per la ripartizione dei flussi di migranti), ma che inevitabilmente si troveranno ben presto stretti tra la pressione oggettiva dei problemi e quella soggettiva dei “fratelli maggiori” che pretenderanno quanto dovuto.

La favola della UE che ha garantito “70 anni di pace” volge insomma alla fine ingloriosa. E non basterà che, inizialmente, la guerra venga portata fuori dai suoi confini (anche se c’è già il precedente della guerra all’ex Jugoslavia), perché proprio l’involuzione degli Stati Uniti dimostra che efficacia dell’aggressività esterna e tenuta del fronte interno (Capitol Hill è stato un po’ più di un avviso...) marciano sullo stesso binario.

Prevedibili scontri accesi sul piano diplomatico, sgambetti incrociati, blocco strumentale dei fondi e/o dei prestiti, ritorsioni sui dossier più vari, “ingerenze elettorali” più o meno esplicite a seconda dell’importanza di un paese.

È una delle conseguenze della “fine del sogno americano”, che Guido Salerno Aletta data ormai al lontano 2001; ma per certificarne la morte sono occorsi altri venti anni e la guerra più lunga, persa senza alcun dubbio.

Chiamatelo come volete, ma è evidente che quella fine segna una crisi egemonica di dimensioni planetarie, assolutamente simile – per dimensioni e conseguenze – della Caduta del Muro di Berlino, nel 1989.

Non sappiamo se sarà di segno opposto, come potrebbe essere, vista la posizione centrale che va assumendo la Cina di Xi Jinping (alle prese, tra l’altro, con un veloce cambiamento di priorità nel suo modello sociale).

Ma di certo si è aperto un vuoto clamoroso, e in natura i vuoti richiamano potentemente un “riempimento”.

L’Unione Europea non ha speranza di sostituire gli Usa. Sia per autonomia economica, sia – e soprattutto – per debolezza militare immediata (lo si vede già nel Sahel, dove arranca più di quanto non appaia). Non può del resto neanche contrapporsi agli Stati Uniti, senza rivolgimenti sociali che ne stravolgano l’assetto sociale interno.

Dunque non può porsi altro obbiettivo che una “trattare tra pari” con l’ex protettore solitario, e cercare di concedersi qualche “giro di valzer” nei rapporti economici con Russia e Cina (vedi la soluzione per il gasdotto North Stream, che non piaceva a yankee e baltici).

Se si potesse ragionare di qualcosa di più serio che del green pass, forse si riuscirebbe persino a intravedere qualche varco in cui infilare il bisturi della soggettività comunista.

*****

2001, la fine del sogno americano

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Vent’anni fa, l’11 settembre del 2001, l’attentato alle Torri Gemelle di New York mise fine alla storica invulnerabilità territoriale degli Usa da attacchi esterni, isolati come sono da due immensi Oceani e confinando a nord come a sud con Stati affatto ostili.

Questo attacco, volutamente portato ad uno dei simboli della potenza americana, ospitando il World Trade Center, non poteva rimanere senza risposta: fu considerato un atto di guerra, reclamando agli Alleati della Nato la attivazione dell’articolo 5 del Trattato che prevede la solidarietà nella risposta militare.

Non solo fino ad allora si era mai fatto ricorso a tale clausola, e neppure è accaduto da allora fino ad oggi, ma quella richiesta ribaltò il portato storico dell’Alleanza, in quanto ad avere necessità di sostegno era la Nazione più potente, quella che per ben due volte era intervenuta in Europa, nell’avanzato corso delle due Guerre mondiali, a sostenere le ragioni delle Nazioni che in Europa combattevano per la libertà e la democrazia.

Questa solidarietà, politica ancor prima che militare, era stata ritenuta indispensabile per evitare lo sbriciolamento del campo occidentale che già aveva caratterizzato la Seconda guerra del Golfo, portata all’Iraq per abbattere il regime di Saddam Hussein, ritenuto colpevole di detenere armi di distruzione di massa in grado di minacciare l'esistenza di Israele.

Quale che fosse la reale responsabilità dell’Afghanistan, retto dai Talebani, accusato di offrire rifugio ai terroristi di Al-Qaeda che avevano organizzato l’attentato alle Torri Gemelle, di fatto le conseguenze geopolitiche dell'invasione dell’Afghanistan furono sostanzialmente due: per un verso stringere in una morsa l’Iran, che si trovava le truppe di occupazione Usa ed Occidentali già presenti in Iraq; per l’altro, quello di compattare il fronte Occidentale, con il citato ricorso alla clausola di solidarietà difensiva della Nato, perdendo invece qualsiasi raccordo con il mondo arabo.

È stato questo isolamento che alla lunga ha reso inevitabile il ritiro americano e del suo seguito europeo dall’Afghanistan. Questa solitudine geopolitica nell’area, accompagnata dalla malcelata ostilità di Russia e Cina, è stata sottovalutata di recente anche da due tra i maggiori protagonisti della politica mondiale: da Henry Kissinger che ha sostenuto la incompatibilità dei tempi del consenso democratico negli Usa con un impegno a lunghissimo termine che era necessario per costituire un sistema statuale stabile in Afghanistan superando l’assetto tribale; e da Tony Blair che ha definito il ritiro come un atto tragico, pericoloso e non necessario, sottolineando che i vent’anni che sono seguiti all’11 settembre 2011 ci insegnano che l’Occidente rappresenta valori e interessi di cui dobbiamo andare fieri e che meritano di essere difesi.

Implicitamente, entrambi confermano la solitudine della presenza dell’Occidente in quell’area del mondo.

La nutritissima compagine politica e militare dei Paesi arabi che avevano condiviso nel 1990 la decisione americana di liberare il Kuwait dalla occupazione irachena, dando corso alla Prima guerra del Golfo cui parteciparono Arabia Saudita, Egitto, Siria, Marocco, Pakistan, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti, si era già astenuta nel 2003 dalla Seconda Guerra del Golfo, per liberare l’Iraq dalla dittatura di Saddam Hussein.

L’intervento in Iraq, e successivamente quello in Afghanistan, sono stati dunque vissuti dall’intero mondo arabo, e soprattutto dagli ambienti fondamentalisti storicamente antioccidentali, come inaccettabili inframmettenze.

Non per un caso, Al-Qaeda si sviluppa in Arabia Saudita a valle della invasione americana del Kuwait, come sintomo di tale invasione. La recente riscossa dei Talebani è figlia del medesimo sentimento.

A nulla è valsa la strategia del “nuovo inizio”, adottata dalla Presidenza di Barack Obama sin dal suo esordio: togliere l’appoggio alle democrature arabe sostenute dall’Occidente e colpevoli di stroncare brutalmente le opposizioni togliendo così ogni spazio alla libertà politica, risultando doppiamente invise alle opposizioni interne, ha creato nuova instabilità: dalla Tunisia all’Egitto, e dalla Libia alla Siria, si è consumata una stagione non ancora conclusa di guerre civili e di reazioni violente.

Svellere i governi autoritari sull’onda di proteste popolari assai ben orchestrate, per lasciar fare alle forze politiche e religiose di ciascun Paese in modo che ciascuno trovasse autonomamente il giusto equilibrio, ha invece dato la parola alle armi, riaprendo le porte del Medio Oriente alla Russia, creando un terreno di conflitto fertile alla propagazione di sempre nuove formazione estremiste come l’Isis. L’alternanza politica, supportata dal voto democratico, è rimasta un miraggio.

La Presidenza di Donald Trump ha seguito una logica completamente diversa, rendendo direttamente protagonisti i Paesi dell’area. Innanzitutto, promuovendo e sottoscrivendo gli Accordi di Abramo, da lui definiti “l’alba di un nuovo Medio Oriente”, che hanno segnato la pace tra Israele ed EAU, come già con il Bahrein.

Pur rafforzando i legami storici con l’Arabia Saudita, con cui la special relationship statunitense rimonta ai tempi di Roosevelt e della Conferenza di Yalta, ha avallato anche le ambizioni del Qatar, suo avversario, mirando ad eliminare le ragioni di conflitto che si erano create con i Paesi dell’area confinanti e con l’Egitto per via del sostegno dato ai Fratelli Musulmani ed alla formazioni che ad essi si ispirano, per sganciarlo strategicamente dall’Iran con cui condivide bacini energetici e per ridurre la pressione che ha esercitato in questi anni, insieme alla Turchia, nell’area mediterranea.

Qatar e Turchia sposterebbero così la propria attenzione all’Asia centrale, riempiendo il vuoto lasciato dal ritiro statunitense dall’Afghanistan, che è stato “restituito” ai Talebani. Unico Paese a maggioranza musulmana della Nato, la Turchia amplierebbe finalmente ad Est ed a Nord Est la profondità strategica, secondo la dottrina relativa alla sua posizione internazionale che è stata elaborata da Ahmet Davutoğlu, e che è stata fatta propria dal Premier Tayyip Erdoğan dopo l’opposizione insuperabile espressa dalla Francia all’ingresso di Ankara nella Ue.

Per gli Usa, il 2001 non è stato solo un Annus Horribilis: in quel medesimo anno, l’ingresso della Cina nel Wto, lo scoppio della bolla del Nasdaq e l’attentato dell’11 settembre determinarono un triplice shock, da cui non si sono più riavuti.

È un unico spartiacque, che riguarda il versante del commercio internazionale e la supremazia economica globale; l'insostenibilità del business model di Internet che vampirizza il resto dell’economia, la ambizione di essere il Superpoliziotto globale.

Il 2001 ha segnato la fine, se non del Secolo, sicuramente del Sogno Americano.

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