Tutta la classetta politica italiana ha definitivamente sdoganato gli eredi del Movimento Sociale e del fascismo italiano. Il “successo” di Giorgia Meloni è tutto qui: nel reciproco riconoscimento di internità allo stesso recinto del potere, con sfumature inessenziali che corrono però lungo la faglia di differenti settori sociali, rappresentati in modo sempre più chiaro da due “campi politici”: i “nazionalisti moderati” e gli “europeisti tutti d’un pezzo”.
La centralità dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica è motivata da uno scontro non strategico ma di una certa rilevanza, e misura la scomparsa del quadro costituzionale che era nato dalla Resistenza.
È un fatto, insomma, che la Costituzione materiale non corrisponda più, in assoluto, a quella formale scritta sulla Carta, a sua volta ampiamente emendata fino allo stravolgimento.
Non solo il “pareggio di bilancio” sancito nel “nuovo” articolo 81, ma anche la “riforma del Titolo V” che ha dato il via alla balcanizzazione regionalista del Paese e che l’”autonomia differenziata” vuole ora portare a termine, ripristinando la polverizzazione pre-unità d’Italia. Non più con il rischio di conflitti armati, ma sulla base di disuguaglianze abissali in materia di sanità, istruzione, welfare, trasporti, salari, diritti esigibili, livelli di benessere, ecc.
I settori di classe di cui Giorgia Meloni si fa interprete, contendendo l’egemonia a Matteo Salvini e la Lega, è come sempre la piccola e media borghesia. Quella “nazionalista” e sedicente “sovranista” perché di dimensioni patrimoniali tali da non poter ambire al livello superiore, quello della finanza e dell’impresa multinazionale.
Che al contrario è “europeista” perché il suo ambito di business si giova della struttura dei Trattati che costituiscono la base legale – la Costituzione reale – dell’Unione Europea.
Su questo punto, anche “a sinistra”, e persino in diversi ambiti di quella “radicale”, regna sovrana l’ideologia al posto della conoscenza, la discussione sull’interpretazione delle parole anziché l’analisi della realtà. Si parla di “borghesie nazionali” guardando al passaporto dei titolari di un’azienda, come se fossimo ancora ai tempi del “capitalismo familiare”, del “sciur padrun dali beli braghi bianchi”.
E non si sa come classificare la borghesia attuale, fatta – per esempio – da un titolare italiano che registra la sua impresa a Berlino, paga le tasse in Olanda, gestisce un paio di stabilimenti in Italia, dove si lavorano materie prime provenienti da Bulgaria o Romania, sfruttando le regole dei Trattati e le diverse legislazioni nazionali inventate – tutte – per “attirare capitali”.
La dimensione della piccola-media borghesia è insomma ancora esistente, non c’è dubbio, ma per l’appunto confinata all’ambito locale, con attività e prospettive che raramente vanno oltre l’ambito regionale. E questo, a suo tempo, sotto la pressione della Lega di Umberto Bossi, motivò il “federalismo” fatto poi proprio dal Pd o come si chiamava allora.
È questa la base sociale vera del “neofascismo ripulito” gestito ora furbescamente dalla Meloni e sempre meno rappresentato da Salvini (il tema dei migranti è meno centrale, adesso, viste le esigenze “imprenditoriali” di questo livello).
Ma non è questa la classe che può confrontarsi e contrastare davvero l’avanzare delle panzerdivisonen del capitalismo multinazionale (quello che arriva per “investire” se ci sono incentivi e defiscalizzazioni e “delocalizza” quando si esaurisce quel bonus).
Al massimo può contrattare spazi per sopravvivere, facendo leva sulla retorica della “patria” per cercare consensi anche in altri settori sociali, sicuramente più devastati dall’assalto del grande capitale (salari da fame, nessun diritto sul lavoro, ricatti, precarietà, ecc.).
Dato il nuovo quadro istituzionale europeo, veicolato dalla gestione continentale del Recovery Fund (tradotto localmente nel PNRR), e data per assodata l’irrilevanza futura del Parlamento (dunque anche di una classe politica old style), ecco che l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica diventa un momento costituente.
Questa funzione – solo “notarile” nello schema della repubblica parlamentare – è progressivamente diventata centrale. E nei prossimi anni dovrà garantire la “transizione” verso un presidenzialismo da “costituzionalizzare” anche sul piano formale. Tenendo in precarissimo equilibrio la centralità del grande capitale multinazionale (la “borghesia europea” propriamente detta) e gli interessi della piccola e media borghesia “nazionalista” per debolezza.
Se il primo ha la potenza del denaro (con portafogli gonfissimi, dopo 10 anni di quantitative easing), la seconda ha quella dei numeri e il ruolo di opinion maker di massa. Il negoziante o il professionista che spargono “senso comune”, traducendo i propri interessi in slogan, battute, modi di stare al mondo (non “pensiero”, ma un suo surrogato).
Quando Giorgia Meloni urla di voler “uscire dal pantano della Repubblica parlamentare ed entrare nella Repubblica presidenziale” mette in chiaro quel che l’establishment ha deciso da tempo: una drastica riduzione della dialettica politica, ossia una violenta eliminazione degli interessi sociali non rappresentati e che non dovranno più essere rappresentati. Quelli di lavoratori, studenti, pensionati, donne, precari, poveri in genere, ecc.
E quando rivendica che “il centrodestra ha i numeri per essere determinante per l’elezione del Capo dello Stato. Vogliamo un patriota e non accetteremo compromessi” sta dicendo che la piccola e media borghesia stracciona pretendono una “garanzia di equilibrio” tra i propri interessi e i grandi piani di ristrutturazione del Paese imposti a livello continentale.
Sa di non potersi opporre in alcun modo a questo “ridisegno reazionario”. Non ha dietro né idee, né interessi sociali, né progetti alternativi. Il suo ruolo – quello delle figure sociali che in lei si specchiano – è come sempre subordinato ma pretenzioso: “non potete farci fuori, vi serviamo; ma dovete garantirci uno spazio e un ruolo, senza di noi non potete governare”.
Nessuna opposizione, solo una contrattazione.
Lo si capisce quando deve pronunciarsi sui nomi. “Berlusconi è stato mandato a casa dalle consorterie europee perché non firmava trattati poi firmati da Mario Monti, quindi ha difeso l’interesse nazionale assolutamente“. Non che sia un candidato vero (la sua credibilità internazionale è sotto zero, dunque non può garantire nulla), ma basta per far capire di che si sta parlando.
E poi: “Non ho gli elementi per dire se Draghi è un patriota“. Affermazione quanto meno reticente, in senso processuale, perché l’”uomo del Britannia”, l’ex vicepresidente di Goldman Sachs, poi governatore della Banca d’Italia, quindi della Banca centrale europea, è certamente una figura di punta di quella Troika che ha sgovernato l’Europa negli ultimi venti anni (e distrutto la Grecia nello scorso decennio).
Meloni si tiene insomma una porta aperta per accettare anche questo, in cambio di adeguate “garanzie” per una classe miserabile come quella che rappresenta.
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