Domenica 14 maggio la Turchia va al voto per elezioni presidenziali e per quelle legislative.
Sono diventate tre le candidature alle presidenziali, mentre tre sono i principali schieramenti ma più di una ventina i partiti che si contendono i 600 seggi del parlamento turco.
64 milioni di elettori su una popolazione di 85 potranno recarsi alle urne, con circa 5 milioni di nuovi votanti; 3,4 milioni che hanno già potuto votare all’estero, fino al 9 maggio.
La Turchia è divenuta un sistema presidenziale nel 2018, dopo poco più di un mese dall’ennesima conferma di Erdogan alla guida del Paese, in cui è stata abolita la figura del Primo Ministro le cui prerogative sono state assorbite dal Presidente a capo dell’Esecutivo.
Il Presidente viene eletto al primo turno se supera il 50% dei voti, o al secondo in caso contrario. L'eventuale ballottaggio è previsto per il 28 maggio.
La soglia di sbarramento per entrare in Parlamento è pari al 7% (in precedenza era al 10%), tranne nel caso ci si presenti in coalizione e si superi una “soglia di sbarramento provinciale”. Il sistema è proporzionale con 87 distretti disegnati in proporzione alla popolazione.
Nel Parlamento uscente la coalizione di Erdogan, l’Alleanza del Popolo – composta da AKP, MHP e BBP – poteva contare su 334 seggi, l’Alleanza Nazionale (con il CHP come forza maggiore) su 174, e l’Alleanza per il Lavoro e la Libertà (con il progressista filo-curdo HDP ed il Partito dei Lavoratori della Turchia) su 60.
La stampa occidentale – dall’Economist, allo Spiegel a Le Monde – ipotizzano apertamente, in caso di vittoria di Recep Tayyip Erdogan, l’ennesima svolta autoritaria che ne completerebbe la verticale del potere.
Dalla sua elezione a sindaco di Istanbul, nel 1994, l’ascesa politica del leader dell’AKP non si è mai fermata ed è passata sempre attraverso le urne, nonostante la mano pesantissima usata anche di recente contro le formazioni progressiste curde – come l’HDP – ed i “gülenisti”, in specie dopo il tentato colpo di Stato del giugno del 2016.
Il 25 aprile, cioè in piena campagna elettorale, una “operazione antiterrorismo” compiuta in 20 province turche ha portato all’arresto di numerosi giornalisti, avvocati, attori, ed altre figure accusate di sovvenzionare il PKK – il Partito dei Lavoratori Curdi – attraverso i comuni amministrati dall’HDP e di reclutare militanti per l’organizzazione.
L’Alleanza di cui fa parte l’HDP vuole una “soluzione pacifica” della questione curda attraverso il Parlamento, e vorrebbe porre fine alla rimozione dei sindaci eletti del HDP, sempre sostituiti da fiduciari governativi.
L’HDP, in queste elezioni, a causa di una sentenza pendente della Corte Costituzionale in cui potrebbe essere resa illegale, viene “ospitata” dalla sinistra ecologista turca, Green Left Party in inglese. Il suo co-presidente, Selahttin Demirtas, è in carcere dal 2016.
La giovane formazione che nelle elezioni del 2018 prese l’8,4% è la terza organizzazione politica in Turchia, ed il secondo partito d’opposizione.
L’HDP, così come tutto lo schieramento progressista, sostiene Kemal Kiliçdarohlu, leader del partito kemalista CHP che guida il “Tavolo dei Sei”, la composita coalizione d’opposizione.
L’indicazione del voto dell’HDP e dell’Alleanza di cui fa parte potrebbe rilevarsi decisiva per la sconfitta di Erdogan e potrebbe portare ad una amnistia per i militanti curdi, aprendo in parte un nuovo ciclo politico.
Il TKP (il Partito Comunista della Turchia), che non partecipa all’Alleanza del Lavoro e della Libertà, presenterà i propri candidati insieme alla Coalizione delle Forze Socialiste (Collaboration of Socialist Forces, in inglese) ed invita a votare per Kiliçdarohlu come Presidente, pur senza lesinare critiche alla sua coalizione.
Lo sfidante di Erdogan è dato favorito, e l’abbandono della competizione elettorale da parte di Muharrem Ince, che era dato nei sondaggi tra il 2 ed il 4%, sembrerebbe favorirlo ulteriormente; si tratta comunque di un “testa a testa” il cui esito con ogni probabilità verrà deciso dal ballottaggio del 28 maggio.
Per la cronaca, il terzo competitor è Sinan Ogan.
Erdogan, che si appoggia a due formazioni minori oltre agli ultra-nazionalisti del MHP, ha ancora una notevole base d’appoggio – tra il 30-40% degli elettori – ma ha visto diminuire il suo consenso a causa dell’instabilità economica, con la Lira turca che ha ridotto notevolmente il suo valore rispetto al Dollaro, un’inflazione “ufficiale” galoppante – +44% rispetto all’anno precedente, ad aprile – e la catastrofica gestione del sisma del febbraio di quest’anno costato la vita a circa 50 mila persone, che ha causato 3 milioni di sfollati.
La campagna elettorale si è svolta in un clima di forte “polarizzazione”; l’asso nella manica del Sultano ed i suoi alleati è stato senz’altro il profilo conquistato dalla Turchia a livello internazionale ed in particolare nel mondo mussulmano.
Erdogan non ha più il monopolio dell’elettorato conservatore proveniente dall’islam politico, e non è un caso che sia stato proprio Temel Karamollaoglu, del Saadet Partisi, proveniente dalle file dell’islam politico ad annunciare il candidato presidenziale del “Tavolo dei Sei”.
In questa coalizione abbastanza eterogenea sono presenti anche due ex uomini chiave dell’AKP, insieme al partito della destra nazionalista Lyi Partisi di Meral Aksener.
Erdogan ha realizzato quell’autonomia strategica che rende la Turchia, allo stesso tempo, un membro indispensabile dell’Alleanza Atlantica ed un partner di rilevo della Russia (da cui ha acquistato il sistema di difesa missilistico S-400) e della Cina; vanta alcuni notevoli primati nell’industria della difesa, come la produzione dei droni utilizzati nel conflitto ucraino da Kiev (così come in precedenza dall’Azerbaijan contro gli armeni), è un importante hub energetico ed ha recentemente inaugurato la sua prima centrale nucleare costruita dalla russa Rosatom.
La sua sfera d’influenza si è notevolmente allargata nel corso degli anni – Balcani, Caucaso, Africa e Medio Oriente – ed è intervenuta direttamente più volte in funzione “anti-curda” in Siria ed in Iraq, ma anche in difesa del Governo di Accordo Nazionale sostenuto dall’ONU in Libia.
La politica del suo sfidante sembra più improntata a stabilire un rapporto più virtuoso con l’Occidente (USA ed UE) ed una minore ingerenza diretta negli Stati, con un più basso profilo rispetto all’intervento in Africa, dove il soft-power turco ha dato prova di una grande capacità di penetrazione.
Ma la questione cipriota e le dispute marittimo/territoriali con la Grecia resteranno comunque cronici motivi di attrito anche in caso di cambio della presidenza e di parziale cessazione dell’attuale politica “neo-ottomana”. Così come rimarranno pressoché inalterate le relazioni con Russia e Cina.
È da segnalare comunque il fatto che lo stesso candidato presidenziale dell’opposizione ha accusato la Russia di ipotetiche ingerenze, prontamente smentite da Mosca.
Una delle questioni centrali, chiunque sarà il Presidente, è quella dei circa 5 milioni di profughi siriani nel Paese, che implica anche la normalizzazione dei rapporti con Damasco, considerando che proprio Erdogan era stato un attore di primo piano nel tentativo di destabilizzare il regime di Assad.
Gli ultimi giorni della campagna elettorale si sono svolti in un clima di forte delegittimazione reciproca e scambi di accuse, nonché di violenze. Non è detto, tra l’altro, che il Rais, accetti di uscire di scena in maniera indolore, dopo avere perso il governo delle due principali città del Paese.
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