Venerdì 18 agosto a Camp David, residenza presidenziale nel Maryland, un incontro “inedito” ha riunito, oltre al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il primo ministro giapponese Fumio Kishida ed il presidente sud-coreano Suk Yeol.
Questo vertice è stato un passo importante nella strategia statunitense di rafforzare la propria posizione nell’Indo-Pacifico, contrastare la sempre maggiore assertività cinese su ciò che Pechino ritiene propri obiettivi strategici – Taiwan – e la potenza nucleare nord-coreana.
Dall’incontro è scaturita una partnership trilaterale che implica una ‘cooperazione rafforzata’ per ciò che concerne la sicurezza e impegna la leadership dei tre Paesi a consultazioni in caso di minaccia comune; il tutto sarà completato da manovre militari congiunte e da una condivisione più intensa dell’intelligence.
Si tratta di un indiscutibile successo diplomatico della Casa Bianca nel far sedere allo stesso tavolo Giappone e Corea del Sud nonostante i burrascosi pregressi, cogliendo l’orientamento dei due leader.
È un’intesa che potrebbe però avere vita breve, tenendo conto dei vari appuntamenti elettorali da qui al 2025, tra cui le elezioni presidenziali statunitensi che si svolgeranno il novembre del prossimo anno, dagli esiti più che mai incerti.
Questa partnership trilaterale è il terzo tassello fondamentale che Washington riesce ad aggiungere dopo la costituzione del Quod (USA, India, Giappone ed Australia) e l’accordo di difesa americano-britannico-australiano (Aukus).
Completano il quadro la partecipazione del Giappone al vertice NATO di Madrid della scorsa estate – cui è seguito l’accordo per aprire il primo ufficio di collegamento dell’Alleanza Atlantica sul territorio del Sol Levante – ed il maggior coinvolgimento militare statunitense in Corea del Sud, dopo la Washington Declaration dell’aprile scorso che prevede, tra l’altro, il dispiegamento di sommergibili statunitensi dotati di armi nucleari in Corea del Sud.
Per dovere di chiarezza è evidente che l’India di Modi – anch’essa alla vigilia delle elezioni presidenziali – gioca la sua partita in politica internazionale “a tutto campo”, senza subordinarsi ai desiderata di Washington e aspirando al ruolo di global player.
Dal Giappone alle Filippine gli alleati statunitensi sembrano da tempo spinti a serrare i ranghi.
Nel dicembre scorso il Giappone, nel quadro della «strategia di sicurezza», ha raddoppiato il suo budget militare e ora acquista missili statunitensi utilizzabili in maniera “preventiva”.
La sua Costituzione pacifista, di fatto, è stata “stravolta dall’interno” e non è detto che non venga formalmente cambiata.
Sul piano geostrategico Tokio partecipa attivamente al ridispiegamento delle forze statunitensi e dei loro alleati lungo la “ghirlanda” di arcipelaghi che va dalla Cina e da Hokkaido fino alle Filippine, passando per Taiwan.
Per dare un’idea di come le tensioni legate a Formosa interessino “da vicino” anche il Giappone e le Filippine, basta ricordare che l’isola giapponese di Yonaguni è a un centinaio di chilometri da Taiwan, mentre quella filippina di Itbayat è a 93 chilometri a sud.
Bisogna ricordare inoltre che il più importante contingente di soldati statunitensi al mondo è stanziato proprio in Giappone, e comprende 47mila soldati.
La Corea del Sud, in cui la presenza militare statunitense è ritornata all’attenzione dei media per le vicende legate al “disertore” Travis King, è al terzo posto.
Per ciò che concerne le Filippine, le due basi che erano state chiuse nel 1992 sotto la pressione popolare – Clark e Subic Bay – sono tornate ad essere nuovamente dei perni della strategia nord-americana nella regione.
Dopo avere concesso l’accesso alle forze statunitensi a quattro nuove basi militari sul proprio territorio – oltre alle cinque di cui già disponevano – il presidente Ferdinand Marcos jr, nel corso della sua visita a Tokyo nel febbraio scorso, ha lanciato l’idea di un accordo tripartito tra il proprio paese, gli Stati Uniti ed il Giappone, che sarebbe di fatto speculare a quello siglato a Camp David ad agosto.
Il rafforzamento del dispositivo militare degli Stati Uniti e dei loro alleati di fronte alla Cina si inscrive in una strategia di lungo corso riadattata, per così dire, al contesto di “Nuova Guerra Fredda” contro la Cina e al revanscismo nei confronti della Corea del Nord.
È una strategia elaborata dopo la sconfitta militare statunitense in Vietnam nel 1975, e rafforzata dopo la fuga dall’Afghanistan dell’agosto 2021.
Dal 1975, dopo avere perso il proprio “ancoraggio” in Asia, gli Stati Uniti hanno ripiegato sui grandi arcipelaghi che costituiscono ora la propria linea di difesa nell'area. A questo fine, Corea del Sud, Giappone e Filippine sono storicamente servite da retroterra.
Bisogna ricordare che la Guerra Fredda in Asia non è stata caratterizzata da un sostanziale «equilibrio del terrore», grazie alla deterrenza atomica reciproca tra USA e URSS, come in Europa.
Ma la regione ha visto guerre guerreggiate – Corea (1950-1953) e Vietnam (1965-1975) – importanti azioni di destabilizzazione come il colpo di Stato in Indonesia a metà degli Anni Sessanta e la proxy war in Afghanistan per tutti gli Anni Ottanta.
Il “Metodo Giacarta”, nato con il genocidio dei comunisti in Indonesia, venne poi applicato in altri contesti – per esempio in America Latina – mentre il sostegno alla contro-rivoluzione jihadista impegnò le amministrazioni statunitensi, al pari dei tentativi di sovvertire la rivoluzione sandinista in Nicaragua per tutti gli Anni Ottanta.
Ora la penisola coreana e Taiwan sembrano essere tra le principali, ma non uniche, linee di faglia nel Pacifico.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento