La diversa retorica dei media occidentali, osserva Al-Binaa, testimonierebbe che USA e NATO cominciano ad ammettere il mutato equilibrio di forze nel mondo. Indicativi, sarebbero i colloqui dello scorso 21 agosto del presidente degli Stati maggiori riuniti USA, Mark Milley in Vaticano, ricevuto dal papa.
Il forse troppo ottimista (e certamente molto fantasioso) redattore del quotidiano di Beirut ipotizza che Milley avrebbe ammesso il fallimento della controffensiva ucraina e avrebbe addirittura chiesto consiglio a Bergoglio su una possibile “uscita dignitosa” americana dall’Ucraina.
I due avrebbero discusso, appunto, del modo «di disfarsi dell’attuale presidente ucraino» e nientepopodimeno che di un fantascientifico «accordo, secondo cui gli USA smantellerebbero i propri sistemi antimissilistici in Polonia, Romania e Turchia».
Come si dice dalle nostre parti, “tutto pol’esse”; anche se è quantomeno spassoso pensare a uno yankee in ginocchio a “chiedere consiglio” a chicchessia ed è difficilissimo non solo credere, ma anche solo immaginarsi gli USA intenti a ritirare proprie armi, almeno che non sia per riposizionarle in altre lochescion ritenute al momento più favorevoli.
In ogni caso, la scorsa settimana, anche la presidente ungherese Katalin Novak ha fatto visita al papa, dopo di che ha dichiarato che «presto arriverà il momento per la soluzione del conflitto in Ucraina».
Pronunciato dalla “beniamina” di Viktor Orban, il presagio dovrebbe mettere sul chi va là almeno Vladimir Zelenskij, tanto più che Novak, più o meno negli stessi giorni, nel corso della terza conferenza internazionale della cosiddetta “Piattaforma di Crimea”, ha detto chiaro e tondo al capo della junta nazigolpista che, a guerra finita, la Transcarpazia costituirà una preziosa risorsa per gli ungheresi e per Budapest.
Nel viaggio verso Kiev, Novak ha attraversato la Transcarpazia, dove il 20 agosto ha «avuto l’opportunità di celebrare la nostra giornata nazionale insieme alla comunità nazionale ungherese».
«Come ha detto Lei», ha dichiarato, rivolta direttamente a Zelenskij, la Transcarpazia «è una risorsa per il futuro, quando finalmente inizieremo a ricostruire l’Ucraina. Può servire come risorsa anche per noi, contiamo su di voi per avere un’amicizia molto forte tra gli ungheresi e gli altri rappresentanti delle comunità della Transcarpazia».
In questo modo, osserva PolitNavigator, parlando di “altre nazionalità”, Novak ha evitato di ricordare che, oltre agli ungheresi, nella regione vivono anche ucraini, classificati invece al pari di tutti gli “altri”, senza che ciò abbia sollevato obiezioni da parte di Zelenskij.
Ovviamente, da sempre, non è solo l’Ungheria ad avanzare pretese su territori ucraini. L’ex consigliere del Pentagono Douglas Macgregor, in un’intervista a Dialogue Works, torna a puntare il dito su Polonia e Lituania, che potrebbero azzardare un intervento in Ucraina occidentale “aggirando” la NATO.
Ma se ciò avverrà, pur se l’azione fosse “non coordinata” coi vertici atlantici, le truppe di Varsavia e Vilnius verrebbero viste come truppe NATO, con tutte le conseguenze del caso.
Su un’altra linea, l’ex Ministro dell’istruzione ucraino (2010-febbraio 2014) Dmitrij Tabačnik, suggerisce invece a Mosca di pensare a come restituire parte delle attuali regioni ucraine ai precedenti titolari: Polonia, Ungheria e Romania e, ovviamente, Russia. Lo ha detto ai microfoni di Krym 24.
Se non apprendiamo la «lezione e non cambiamo noi stessi, i nostri figli e nipoti dovranno affrontare lo stesso problema. Mio nonno ha combattuto da Kiev a Stalingrado e da Stalingrado a Vienna. Per fortuna, è morto a 90 anni, nel 1992. Non avrebbe potuto sopportare uno scontro tra russi e russi. Pertanto, penso che, prima di tutto, le terre russe dovrebbero tornare alla Russia; come storico, credo che la Galizia non sia terra ucraina e la popolazione tutt’altro che ucraina: sono galiziani, un gruppo etnico a sé».
Secondo Tabačnik, a tutt’oggi né Varsavia, né Budapest, né Bucarest riconoscono le acquisizioni ucraine; Kiev dovrebbe insomma rinunciare ai territori acquisiti alla fine della guerra, a est e a ovest; si dovrebbe fare dell’Ucraina centrale un’area cuscinetto in cui, trascorso un ventennio dopo la de-nazificazione, dovrebbe tenersi un referendum sulla autodeterminazione.
Le dichiarazioni dell’ex Ministro hanno sollevato le proteste del presidente del Congresso delle comunità russe di Crimea, Sergej Šuvajnikov, secondo il quale «non si deve conservare la minima isola di ucrainicità! Non si può parlare in quel modo: questo lo diamo a quelli, quest’altro a questi o a quegli altri. Si tratta di territori primordialmente russi, conquistati; come storico, Tabačnik dovrebbe sapere in quali aree fossero stanziate le tribù russe, slave. Dobbiamo perseguire questa ucrainicità anti-russa; essa deve essere eliminata. Se rimarrà anche solo un’isoletta di ucrainicità, quegli stessi stati la nutriranno e di nuovo inizierà a combattere contro la Russia».
E, a proposito di territori tornati alla Russia, Rostislav Iščenko scrive su Ukraina.ru che già oggi, dopo il ritorno di sei nuove regioni nell’orbita russa, si può dire che entreranno nella compagine russa non l’Ucraina, non il Donbass, non la Novorossija, bensì singole regioni. Ogni area si unirà per conto suo, così che un’unica politica di de-ucrainizzazione sarà soggetta alla politica di ogni singola regione.
Iščenko illustra poi il proprio personale metodo di intervento. È necessario, dice, «non vietare nulla oltre ciò che è proibito dalla legge russa, ma dare ciò che è garantito dalla Costituzione, in modo tale che essi stessi lo rifiutino. Tale metodo non funzionerebbe o incontrerebbe enormi difficoltà se avessimo a che fare con un’unica entità politica controllata da Kiev, Kharkov o Donetsk. Ma, con zone frammentate, mi sembra ineccepibile».
E porta a esempio la questione della lingua: la Costituzione non consente di proibire lo studio dell’ucraino nelle scuole ucraine. Se l’Ucraina si conservasse come una sorta di unità politica (anche autonoma nella compagine russa), elaborerebbe un’unica norma linguistica e, sul territorio di quell’autonomia, assicurerebbe una costante, se pur limitata, offerta per chi parla ucraino.
Ne approfitterebbero «scrittori, poeti e altri “artisti” “nazionali”, e su questa base si conserverebbe e riprenderebbe vita il banderismo, come era accaduto nella SSR ucraina». Ma nelle singole aree non sussisterebbe un apparato (tipo Accademia delle Scienze, o Istituto linguistico nazionale) in grado di elaborare una comune norma linguistica. L’unica norma sarebbe la «lingua russa, e diverrebbe anti-economico scarabocchiare poesie e romanzi in ucraino: non ci sarebbe sufficiente mercato».
In generale, continua Iščenko, non esiste «una norma unica per la lingua ucraina. Quella creata dai bolscevichi sulla base del dialetto di Poltava si è persa, cancellata dai nazionalisti ucraini come “troppo russificata”... Di fatto, l’ucraino parlato oggi è un suržk di centinaia, se non migliaia di villaggi locali: il suržk di Odessa differisce da quello di Vinnitsa e tutti e due da quello di Khar’kov, di Žitomir e più si va a ovest, più si moltiplicano i suržk e più differiscono da quelli dell’est, sud e centro d’Ucraina».
Dunque, per garantire il diritto costituzionale all’insegnamento nella lingua madre, «ogni regione o distretto dovrebbe farlo attingendo dal proprio bilancio locale... sarebbe un diritto, non un dovere: è una questione di principio»: ogni singolo villaggio dovrebbe scegliere se ripristinare una strada, oppure nominare insegnanti di matematica, fisica, ecc. di lingua ucraina.
Alla fine, dato che la lingua russa e gli insegnati di matematica, fisica, di lingua russa dipendono invece dal bilancio statale, si smetterebbe di optare per il “proprio” suržk banderista e il banderismo scomparirebbe.
Che il nazionalismo e il filo-nazismo banderista, nei decenni abbiano innalzato, tra le proprie “bandiere”, anche quella della lingua ucraina, è un fatto. È però da dubitare che il solo “mettere i bastoni tra le ruote” alla lingua ucraina serva a lottare contro il banderismo, sviluppatosi sul terreno del preesistente nazionalismo e rimasto, come quello, al servizio delle mire antisovietiche delle ex classi borghesi spodestate d’Ucraina, complice poi dei nazisti hitleriani.
La battaglia per liberare veramente il popolo ucraino dal banderismo e dal neonazismo è una battaglia di classe e non la sfida di un nazionalismo a un altro.
Proprio a proposito della questione della lingua, ma più in generale sulla questione dell’autodeterminazione, del diritto alla separazione, di lotta al nazionalismo borghese e di unità tra proletariato ucraino e grande-russo e, nello specifico, a proposito della “ucrainizzazione” degli organi di partito e di governo nella RSS d’Ucraina, riportiamo una nota del politologo russo Aleksandr Khaldej.
Nota preziosa, anche perché si muovono spesso accuse ai bolscevichi, di aver contribuito ad alimentare la russofobia ucraina, prima con la costituzione di una RSS ucraina distinta dalla Russia, poi col promuovere la politica di “ucrainizzazione”.
In una famosa lettera inviata nell’aprile 1926 «Al compagno Kaganovič e agli altri membri del Politbjuro del CC del KP(b)U», Stalin affronta la questione delle spinte nazionalistiche che si stavano sempre più manifestando tra le masse ucraine e anche all’interno del CC del KP(b)U, favorite da un intreccio di legami tra il PC dell’Ucraina occidentale (KPZU), nazionalisti borghesi della Unione nazional-democratica ucraina (UNDO) e il comunista ucraino Šumskij.
Scrive Stalin:
«Ho avuto una conversazione con Šumskij. (…) Ritiene che la crescita della cultura ucraina e dell’intellighenzia ucraina stia procedendo a ritmo rapido, che se non prendiamo in mano questo movimento, potrebbe sfuggirci. Ritiene che a capo del movimento dovrebbero esserci persone che credono nella causa della cultura ucraina, che conoscono e vogliono conoscere questa cultura, che supportano e possono sostenere il crescente movimento per la cultura ucraina.Dunque, Khaldej nota come sia oggi diffusa la tesi secondo cui se la politica di ucrainizzazione, negli anni ’30, non fosse stata condotta sotto costrizione, l’Ucraina sarebbe rimasta filo-russa e l’uso della lingua ucraina si sarebbe gradualmente ridotto a poche sperdute campagne. Si sarebbe così tolto il terreno sotto i piedi ai nazionalisti che oggi hanno separato l’Ucraina dalla Russia.
Egli è particolarmente scontento del comportamento dei vertici di partito e sindacali in Ucraina che, a suo avviso, ostacolano l’ucrainizzazione. Egli pensa che uno dei peccati principali dei vertici partitici e sindacali consista nel fatto che non attirano alla direzione del lavoro di partito e sindacale quei comunisti che sono direttamente legati alla cultura ucraina. Pensa che l’ucrainizzazione debba condursi principalmente nelle file del partito e tra il proletariato.
Secondo: egli pensa che per la correzione di queste carenze, sia necessario prima di tutto cambiare la composizione dei vertici di partito e sovietici dall’angolo visuale della ucrainizzazione (…)
Ecco la mia opinione a questo proposito. Ci sono alcune riflessioni corrette nelle affermazioni di Šumskij sul primo punto. È vero che un ampio movimento per una cultura e una partecipazione sociale ucraine è iniziato e sta crescendo in Ucraina. È vero che in nessun caso dobbiamo mettere questo movimento nelle mani di elementi a noi estranei.
È vero che un certo numero di comunisti in Ucraina non capiscono il significato e l’importanza di questo movimento e quindi non si adoperano per assumerne la direzione. (...)
Ma Šumskij commette almeno due gravi errori nel farlo. Primo. Mischia l’ucrainizzazione del nostro partito e di altri apparati con l’ucrainizzazione del proletariato. È possibile e necessario ucrainizzare, a un certo ritmo, il nostro partito, lo stato e gli altri apparati al servizio della popolazione. Ma il proletariato non può essere ucrainizzato dall’alto.
È impossibile “costringere” le masse operaie russe ad abbandonare la lingua e la cultura russa e a riconoscere l’ucraino come loro cultura e lingua...
Non c’è dubbio che la composizione del proletariato ucraino cambierà con il progredire dello sviluppo industriale dell’Ucraina, nella misura in cui gli operai ucraini affluiranno all’industria dalle campagne circostanti.
Non c’è dubbio che la composizione del proletariato ucraino si ucrainizzerà, così come la composizione del proletariato, diciamo, della Lettonia o dell’Ungheria, che un tempo aveva carattere tedesco e si è poi lettonizzato e magiarizzato.
Ma si tratta di un processo lungo, spontaneo, naturale. Cercare di sostituire questo processo naturale con una ucrainizzazione forzata dall’alto del proletariato, significa condurre una politica utopistica e nociva, foriera di evocare in Ucraina uno sciovinismo anti-ucraino negli strati non ucraini del proletariato (…)
Secondo. Sottolineando del tutto correttamente il carattere positivo del nuovo movimento in Ucraina per la cultura e la partecipazione sociale ucraine, Šumskij tuttavia non vede i lati oscuri di questo movimento. Šumskij non vede che, data la debolezza dei quadri comunisti indigeni in Ucraina, questo movimento, interamente guidato dall’intellighenzia non comunista, può in alcuni punti assumere il carattere di una lotta per l’estraneazione della cultura e della socialità ucraine dalla cultura e dalla socialità comuni sovietiche, può assumere il carattere di una lotta “contro Mosca” in generale, contro i russi in generale, contro la cultura russa e la sua più alta conquista: il leninismo».
In pratica, dice Khaldej, «si presentano i bolscevichi come degli idioti, dei russofobi e dei traditori nazionali. Questa stupidità è sfruttata dai nazionalisti borghesi russi, che odiano il periodo sovietico tanto quanto lo odiasse Stepan Bandera o lo odino i liberali».
E si dice che i bolscevichi avrebbero «allevato il Leviatano nazista ucraino, quando sarebbe stato possibile schiacciarlo sul nascere senza problemi, rimuovere il problema per secoli e chiudere la questione con l’ucronazionalismo, che è diventato un trampolino di lancio per l’Occidente nella sua conquista della Russia».
Dalla lettera di Stalin a Kaganovič, emerge invece che «i bolscevichi si scontrarono in Ucraina col crescente nazionalismo delle masse contadine della popolazione, che non erano in grado di frenare. Si posero dunque l’obiettivo di intercettarlo e cambiarne il vettore. In Ucraina, anche i comunisti erano nazionalisti; non c’erano altri comunisti e non c’era da dove prenderne altri».
I bolscevichi si erano resi conto di non poter venire a capo dei nazionalisti ucraini con la repressione e la russificazione forzata; ciò avrebbe condotto, afferma Khaldej, a un «consolidamento della popolazione attorno ai nazionalisti e all’isolamento dei bolscevichi. Così Stalin decise di mettersi alla testa di ciò che non si poteva bloccare. Dirigere, cioè, per modificare il contenuto nella forma desiderata: in pratica affinché un ucraino, visto che vuole parlare ucraino, leggesse Lenin in ucraino.
Stalin ha chiaro il quadro della struttura sociale ucraina; capisce che il proletariato è russo, mentre le campagne sono ucraine e, in vista dell’inevitabile accrescimento del proletariato con popolazione contadina, prevede l’immissione di idee contadine nell’ambiente proletario.
Egli non voleva che l’ambiente proletario russo respingesse i contadini ucraini che affluivano dalle campagne verso le fabbriche».
Dunque, l’ucrainizzazione doveva essere condotta dalla dirigenza del partito secondo i propri schemi e per i propri obiettivi. Dove sta qui la “russofobia”, chiede Khaldej? Tutt’altro, Stalin intendeva sostenere le «posizioni della cultura russa e impedire il suo conflitto con la cultura ucraina nel loro inevitabile scontro, nel processo di sviluppo industriale dell’Ucraina e del suo avvicinamento alla Russia».
Tra l’altro, lo stesso Khaldej, come altri storici e politologi, ribadisce che le favole antibolsceviche oggi in circolazione, nascondono «un altro mito, accolto tacitamente in Russia: che il nazionalismo abbia in Ucraina delle radici poco profonde e non storiche e vi sia stato introdotto, durante la Prima guerra mondiale, dai comandi austro-germanici, mentre, prima di allora, tutti i piccoli-russi si sarebbero considerati russi, addirittura anche quelli che parlavano in suržik, che era allora la lingua ucraina. Un simile approccio è assolutamente falso, perché antistorico. Il conflitto tra “moskaly” e piccoli-russi era già in essere all’epoca di Bogdan Khmel’nitskij, nel XVII secolo, ma è stato accuratamente taciuto dalla storiografia sovietica e da quella russa liberale», per motivi ovviamente diversi.
Oggi, la maggior parte dei critici del potere sovietico, cerca di «presentare i bolscevichi come russofobi deliranti e stupidi. Niente di più falso. La politica di Stalin aveva permesso di spingere i nazionalisti in posizioni marginali. (…) essi, pur trovandosi in posizione marginale, divennero però una potente base sociale per gli occupanti nazisti e altre forze anti-russe. Quella base sarebbe stata molto più forte, se alla lotta economica dei comunisti in Ucraina se ne fosse aggiunta una nazionale».
E comunque, conclude Khaldej, nemmeno quelle misure poterono sradicare il nazionalismo, che seppe conservarsi all’interno delle strutture sovietiche e prendersi poi la rivincita.
Non è abbastanza chiara la diversità di approccio tra chi parta da basi nazionalistiche e chi ponga a fondamento un’analisi di classe?
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