È difficile prevedere quali saranno gli sviluppi della situazione in Sahel.
Si affaccia lo scenario di un intervento militare della Cédéao, cioè la Comunità Economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest, contro le autorità scaturite dal colpo di Stato in Niger del 26 luglio – l’autoproclamato Consiglio Nazionale della Salvaguardia della Patria (CNSP) – alla guida del quale vi è il generale Abdourahmane Tieni, che ha poi nominato un governo.
Una delegazione della Cédéao si è recata lo scorso sabato a Niamey, ed ha incontrato sia l’attuale primo ministro, che l’ha ricevuta in aeroporto, sia lo stesso Tiani con cui ha avuto una sessione di lavoro. La precedente delegazione della Cédéao, non era uscita dall’aeroporto e non aveva incontrato Tiani.
Prima di questa delegazione si era recata a Niamey la nuova ambasciatrice statunitense Kathleen FitzGibbon – che ha già avuto incarichi diplomatici in Sierra Leone, Gabon, Uganda e Nigeria – ed una delegazione dell’ONU con a capo Leonardo Santos Simao, rappresentante speciale per l’Africa Occidentale ed il Sahel.
La delegazione ha potuto incontrare il deposto presidente Bazoum, verificandone di persone le condizioni.
Se questa disponibilità lasciava intravedere una certa propensione al dialogo, è stato lo stesso generale Tiani, in un discorso televisivo il 19 sera, a chiarire su quali binari si dovrà discutere del futuro assetto politico del Paese.
Tiani ha detto che la transizione (di fatto dalla VII all’VIII Repubblica) non supererà i tre anni e che verrà convocato entro 30 giorni un «dialogue national», che andrà a definire le condizioni di condivisione del potere durante la transizione.
Tiani ha detto che «la nostra ambizione non è confiscare il potere. Riaffermo la nostra disponibilità nell’impegnarci in qualsiasi confronto, nella misura in cui vengano presi in considerazione gli orientamenti affermati dall’orgoglioso e resiliente popolo del Niger»
Questo di fatto vuol dire nessun ritorno allo status quo ante, cioè alla presidenza del leader del PNDS dopo una rapida uscita di scena dei generali, ma una prospettiva simile a quella conosciuta dopo i putsch in Mali, Guinea e Burkina Faso degli ultimi anni.
In una intervista rilasciata ad Al-Jazeera, riporta Le Monde, il commissario agli affari politici della Cédéao, Abdel-Fatu Musah, avrebbe affermato che un periodo di transizione di tre anni «è inaccettabile», ribadendo di volere che «l’ordine costituzionale sia ristabilito il più presto possibile».
Nella stessa intervista televisiva il capo della CNSP ha ribadito che l’intervento militare ipotizzato dalla Cédéao non sarà una «passeggiata di salute», checché ne pensino i suoi ideatori.
Non proprio una boutade, tenendo conto sia della risposta militare che potrebbe arrivare anche dal Mali e dal Burkina Faso e del possibile appoggio della Guinea – cioè quella sorta di “fronte del rifiuto” all’imperialismo occidentale in Sahel – oltre che dal livello di mobilitazione popolare in Niger.
Domenica si sono svolte due manifestazioni, una nella capitale nigerina l’altra ad Agadez, dove sono stati scanditi slogan contro la presenza militare delle potenze occidentali – Francia ed USA in particolare – e contro l’intervento militare.
Un dato da non sottovalutare è la netta posizione contraria all’intervento dell’Algeria e del Ciad, come della maggioranza dell’Unione Africana.
L’Algeria, che ha offerto la sua mediazione diplomatica per la risoluzione della crisi – riporta il sito di informazione TSA – «ripudia profondamente» che «il ricorso alla violenza abbia preso il sopravvento rispetto alla direzione di una soluzione politica negoziata», ha affermato il Ministro degli Esteri in un comunicato pubblicato lo scorso sabato.
Ed ha di nuovo messo in evidenza come, in passato, la via della forza militare ha generato più problemi di quanti ne avrebbe voluto risolvere.
Il Ciad, che ha ricevuto a N’Djamena il neo Primo Ministro Ali Mahamame Lamine Zeine, nella sua prima visita ufficiale fuori dal Niger, martedì 15 agosto, ha ribadito la sua contrarietà all’intervento militare e sta giocando un ruolo diplomatico di primo piano.
Come ha detto lo stesso Lamine durante la visita, «Noi abbiamo notato un forte impegno nel sostenere il Niger in questa fase particolare».
Dato non secondario è la debolezza del consenso di cui godono in patria i principali fautori dell’intervento, con opinioni pubbliche contrarie all’avventurismo bellico delle proprie leadership politiche, e legittimamente più inclini alle preoccupazioni per la grave crisi economica e l’insicurezza interna, come in Nigeria, o all’involuzione sempre più autoritaria del proprio regime politico, come in Senegal.
Ma il calcolo costi/benefici e il rifuggire uno scenario da “seconda guerra mondiale africana”, di cui sarebbe probabilmente beneficiaria soprattutto la multiforme insorgenza jihadista, non sembrano essere i principi fondamentali dei decision makers della Cédéao.
Dieci paesi della Comunità, di fatto, farebbero la guerra ad altri 5 che – anche se temporaneamente sospesi – ne fanno parte, in una sorta di “guerra civile del Sahel“, specie se si tiene conto del livello di stretto scambio e gli intrecci tra le popolazioni, con una storia comune all’interno di frontiere disegnate arbitrariamente dall’imperialismo.
Come afferma Siedi Abba, giornalista ed esperto del Sahel intervistato da Rfi.Afrique: «contrariamente a ciò che si può pensare, credo che la Cédéao può arrivare fino all’intervento, al netto del carattere aleatorio sul piano dell’efficacia e delle gravi implicazioni che questo potrebbe avere.
La Cédéao, non dimentichiamolo, non è riuscita ad imporre un rapporto di forza ai militari al potere in Burkina Faso, in Mali, e in Guinea e considera il Niger il ‘colpo di Stato di troppo’. Se non fa nulla in Niger, significa che non farà più nulla da nessuna parte.
Per l’organizzazione regionale, è in questi termini che si gioca la partita. Malgrado le reticenze che si sono espresse qui e là, e malgrado la posizione un po’ ambigua degli Stati Uniti, la Cédéao è determinata a intervenire».
L’atto di forza – per quanto appaia suicida – sarebbe perciò una sorta di reazione “necessaria” di un organismo in crisi, ma non per questo meno pericoloso.
Ricco di materie prime (principalmente uranio, oro e petrolio), perno della strategia dell’Unione Europa di “contenimento” dell’immigrazione verso l’Europa, sede di basi militari rilevanti sia europee che statunitensi, il Niger sembra aver intrapreso con decisione la via della messa in discussione della subalternità al neo-colonialismo occidentale, indirizzandosi verso l’“azzeramento” di parte dell’élite che godeva di una rendita politica costante ed ostentava i suoi privilegi, in un sistema che solo molto superficialmente si poteva definire “democratico”.
Piuttosto che farlo proseguire su questa strada, l’imperialismo euro-atlantico ed i suoi ascari sembrano disposti a provocare l’ennesima catastrofe nella regione, senza aver compreso che i rapporti di forza sono già irreversibilmente cambiati a loro sfavore.
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