La recente tappa del vice-presidente di Taiwan William Lai, ufficialmente in visita in Paraguay – uno dei pochi Stati a riconoscerla – negli Stati Uniti, ha surriscaldato nuovamente il clima diplomatico ed ha portato ad una serie di manovre cinesi attorno a Formosa.
La tensione sembra destinata a non calare in vista delle elezioni presidenziali taiwanesi del 2024.
Come riporta Le Monde: «William Lai, favorito alle elezioni presidenziali taiwanesi del 2024, che si è auto-definito “indipendentista pragmatico”, è la bestia nera di Pechino».
La strategia degli accordi bilaterali sta mutando, portando ad ambiti più allargati, nella direzione della creazione di una non formale – ma sostanziale – sorta di ‘NATO asiatica’ a guida statunitense.
E Washington si sta attrezzando per scenari inediti di escalation bellica.
In questo senso è estremamente interessante uno studio dell’Atlantic Council – pubblicato il 16 agosto – sul possibile impegno militare contemporaneo “su due fronti” per gli Stati Uniti, sia contro la Cina che contro la Corea del Nord, al di là di un qualche accordo diplomatico-militare tra i due Stati Asiatici.
L’Atlantic Council è un think-tank formato nel 1961 che aveva come mission il consolidamento della politica “atlantista” tra le due sponde dell’Oceano.
Lo studio di Markus Garlauskas, dal titolo significativo “Gli Stati Uniti e i loro alleati devono essere pronti a scoraggiare una guerra su due fronti e attacchi nucleari nell’Asia orientale”, parte proprio dal fatto che anche una delle due principali linee di faglia potrebbe scaturire una lunga guerra guerreggiata dai possibili risvolti nucleari.
In sintesi, Washington deve attrezzarsi quanto prima ad una tale eventualità, anche alla luce degli avanzamenti degli arsenali militari di Pechino e Pyongyang (citati analiticamente nel dossier), pena una inadeguatezza di fondo nell’affrontare la situazione.
Per lo studioso «le sfide alla deterrenza nell’Asia orientale hanno iniziato a cambiare radicalmente negli ultimi anni, mettendoli sulla buona strada per presentare gravi rischi per gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti nel prossimo decennio».
L’arco di tempo considerato, in cui i rischi potrebbero concretizzarsi, va dal 2027 al 2032.
L’analisi dettagliata, che pone con chiarezza quello che l’establishment statunitense vede come uno spauracchio, allerta i decision maker di Washington secondo cui: “gli Stati Uniti e i loro alleati non possono più pensare ai conflitti con la Repubblica Popolare Cinese e la Corea del Nord isolatamente gli uni dagli altri, e devono intraprendere azioni urgenti per presentarsi alla possibilità che un’azione nucleare limitata scateni uno scenario di conflitto nell’Asia Orientale“.
Lo studio quindi propende per un cambio di paradigma che implica mutamenti sostanziali di fronte a questa minaccia che va concretizzandosi.
A Washington, quindi, ragionano in termini concreti sull’ipotesi di un conflitto di non breve durata e simultaneo contro due potenze nucleari e senza prendere in considerazione la possibilità di avviare un reale processo di distensione e di accordo sulla limitazione reciproca dello strumento nucleare (come avvenne, con mille difficoltà, nella Guerra Fredda tra USA e URSS).
Al contrario, disponendo della necessaria deterrenza – cioè una indiscutibile superiorità strategica, potremmo dire – affinché tale scenario non possa verificarsi, rilancia. In gergo si tratta dell’approccio escalate to de-escalate.
Un opzione piuttosto arrischiata almeno per due ordini di motivi.
Il primo è l’idea che un guerra nucleare possa essere confinata in ambito tattico, e non trascendere in ambito strategico, è assolutamente non scontata.
Il secondo è che non vi sono cornici condivise a livello internazionale in grado di evitare che un conflitto “locale” tra due dei principali competitor su scala mondiale tracimi.
Si passerebbe dalla “terza guerra mondiale a pezzi”, su cui da tempo ha allertato persino il Pontefice, alla “terza guerra mondiale” tout court.
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