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31/08/2023

[Contributo al dibattito] - Modelli di organizzazione economica e conflitti militari. Note in margine a "La guerra capitalista"

di Salvatore D'Acunto

Nel volume La guerra capitalista, gli autori Brancaccio, Giammetti e Lucarelli (2022) sostengono che alle radici delle recenti tensioni internazionali vi siano gli imponenti processi di centralizzazione dei capitali che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio, e la sempre più marcata tendenza del fenomeno a travalicare i confini degli schieramenti geo-politici. I paesi usciti vincitori dalla competizione sui mercati globali (in particolare Cina, paesi arabi e Russia) starebbero usando i saldi attivi in dollari accumulati negli anni scorsi per ‘scalare’ la proprietà dei capitali americani, e il governo degli Stati Uniti starebbe reagendo a questa minaccia con variegate restrizioni all’ingresso dei capitali stranieri nella proprietà dell’industria nazionale e con misure protezionistiche di politica commerciale. Secondo il punto di vista degli autori, questo conflitto economico starebbe generando una spirale di ritorsioni a catena, moltiplicando in tal modo il rischio di veri e propri conflitti militari. Questo modello interpretativo viene messo a confronto con le principali interpretazioni concorrenti circa il ruolo degli interessi materiali nella genesi dei conflitti militari, e si discutono alcune interessanti implicazioni dell’analisi rispetto al problema del design delle istituzioni di regolazione delle relazioni economiche internazionali.

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Un elemento comune a molte delle narrazioni dell’impetuoso ritorno dei venti di guerra in Europa è l’adesione dei commentatori ai canoni della drammatizzazione romanzesca o cinematografica, con il focus interamente centrato sul conflitto tra personalità connotate in senso moralistico: paladini della libertà versus autocrati fanatici, oppure ‘denazificatori’ versus persecutori di minoranze etniche.

Trame costruite cioè – indipendentemente dalle simpatie personali del commentatore di turno – attorno alla dialettica tra un eroe con cui identificarsi e un antieroe disegnato con l’obiettivo di fare da bersaglio dell’esecrazione collettiva (un “capro espiatorio”, per dirla con Girard). La conseguenza più grave di questo approccio è stato il sostanziale occultamento dei conflitti di natura economica e la scomparsa delle questioni di carattere ‘strutturale’ dal quadro interpretativo proposto all’opinione pubblica.

A questo cliché si sottrae decisamente La guerra capitalista di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli (d’ora in avanti BGL). Sin dalle prime pagine, gli autori esplicitano una scelta di campo metodologica di segno opposto, dichiarando di voler “sgombrare il campo dalle consuete, opposte mistificazioni idealistiche” e “riportare alla luce una complessa catena di fatti materiali” (Brancaccio et al., 2022, p. 12) che spingerebbe verso un inasprimento delle relazioni internazionali, indipendentemente dalle intenzioni dei singoli attori individuali e collettivi in campo. Il filo rosso attorno a cui è costruito il volume è infatti l’idea che le regole determinate dall’assetto di organizzazione della produzione vigente forniscano agli attori individuali e collettivi potenti incentivi all’adozione di politiche commerciali e finanziarie ‘aggressive’, generando una spirale di ritorsioni a catena e moltiplicando il rischio di veri e propri conflitti militari.

Non si tratta di un approccio inedito. Sebbene la storia del pensiero economico sia stata lungamente egemonizzata da apparati concettuali che negano la rilevanza degli interessi materiali ai fini dell’esplosione dei conflitti bellici,[1] esiste invece una prestigiosa tradizione di studi che hanno attribuito un ruolo esplicativo chiave alle modalità di funzionamento dell’organizzazione produttiva o a specifici assetti della regolazione delle relazioni commerciali e finanziarie internazionali. In un noto pamphlet scritto durante il primo conflitto mondiale, Lenin aveva sottolineato come la peculiare configurazione assunta dall’organizzazione produttiva nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, in particolare il consolidarsi di grandi monopoli nei settori trainanti dell’economia e l’intreccio sempre più inestricabile tra banca e industria, spingesse le potenze imperiali dell’epoca a competere con tutti i mezzi, comprese le armi, per la conquista di fonti di materie prime e di mercati in cui investire i capitali che non trovavano sbocchi sufficientemente redditizi nella madrepatria. E qualche anno più tardi, nell’analizzare le tensioni internazionali che avrebbero fatto da brodo di coltura del secondo conflitto mondiale, Keynes e Polanyi avevano attribuito un ruolo esplicativo cruciale alle regole della competizione economica internazionale, in particolare alla miscela – a loro dire esplosiva – di laissez-faire e regime monetario a base aurea.

La guerra capitalista si muove nel solco di questa nobile tradizione. Più in particolare, BGL scelgono di leggere i conflitti del presente alla luce di una categoria analitica tratta dall’apparato concettuale marxiano: la centralizzazione dei capitali. Come si vedrà, si tratta di una categoria lungamente trascurata nel dibattito, ma che gli autori considerano una lente di straordinaria efficacia per mettere a fuoco alcune tendenze dinamiche caratteristiche del capitalismo contemporaneo.

In questo saggio, proveremo innanzitutto a ricostruire lo schema interpretativo proposto da BGL nel contributo in oggetto (§ 1); in secondo luogo, metteremo tale schema a confronto con le principali interpretazioni concorrenti circa il ruolo degli interessi materiali nella genesi dei conflitti militari, provando quindi a valutarne comparativamente la capacità esplicativa (§ 2); infine, proveremo a sollevare alcuni interrogativi che, a nostro modo di vedere, il volume implicitamente pone agli studiosi, in particolare a quelli impegnati nel dibattito sulle grandi questioni di teoria e storia delle istituzioni monetarie (§ 3).

1. Centralizzazione capitalistica e fratture geopolitiche

Nella ricostruzione dei tratti caratteristici della dinamica del capitalismo contemporaneo, BGL attribuiscono una valenza euristica centrale ad una categoria tratta dallo strumentario analitico marxiano: la centralizzazione dei capitali. Molto semplicemente, Marx riteneva che la mano invisibile del mercato plasmasse la struttura del sistema economico non nel senso del livellamento delle forze, ma piuttosto nel senso dell’approfondimento delle asimmetrie. I capitali che per qualche motivo (dimensione, egemonia tecnologica, basso costo delle risorse produttive o altro) riescono ad assicurarsi dei vantaggi nella competizione diventano progressivamente più forti, mentre quelli più deboli fanno fatica a mantenere i conti in equilibrio e sono costretti a ricorrere all’indebitamento per sopravvivere. La costellazione di posizioni di credito e debito prodotta da questa lotta interna alla classe proprietaria determina, a lungo andare, una spontanea tendenza verso la centralizzazione del controllo dell’attività produttiva: i capitali forti spazzano via dal campo i capitali più deboli, o li assorbono a colpi di fusioni e acquisizioni. “Il controllo dei capitali tende a concentrarsi sempre di più nelle mani dei pochi vincitori della guerra di mercato” (Brancaccio et al., 2022, p. 20).

L’esistenza di una propensione tendenziale del capitalismo verso la centralizzazione è stata sistematicamente negata, con argomenti variegati, dalla teoria economica mainstream. In questo filone di pensiero è sempre prevalsa l’idea che, accanto ai fallimenti, alle bancarotte e alle acquisizioni dei piccoli ad opera dei grossi, esista anche un contro-movimento spontaneo del sistema che continuamente crea nuovo capitale, nuova imprenditoria, nuova concorrenza, bilanciando quasi magicamente le tendenze centralizzatrici (Brancaccio et al., 2022, p. 24). Questa certezza granitica è stata tuttavia significativamente incrinata dall’osservazione delle linee di tendenza relative all’ultimo trentennio. Gli autori citano ad esempio un saggio pubblicato nel 2018 su The Economist, dove la legge marxiana della centralizzazione viene giudicata “[…] una descrizione ragionevole del mondo degli affari plasmato dalla globalizzazione e da internet. Le più grandi aziende del mondo non solo stanno diventando più grandi in termini assoluti, ma stanno anche trasformando un numero enorme di aziende più piccole in mere appendici” (Brancaccio et al., 2022, p. 27).

Gli autori rilevano tuttavia che, a fronte di un’abbondante aneddotica, esistono in letteratura pochi tentativi di “mettere la centralizzazione alla prova dei dati”, e trovano inoltre che quei pochi siano viziati da serie fallacie di carattere metodologico. BGL citano al riguardo uno studio di De Grauwe e Camerman (2002), che misurano la centralizzazione con il peso economico delle multinazionali in rapporto al Pil dei paesi che le ospitano e ne interpretano la tendenza declinante come una prova della fallacia della legge di tendenza evocata da Marx. BGL considerano però la misura usata da De Grauwe e Camerman inadeguata a misurare il fenomeno della centralizzazione, se propriamente intesa nel senso indicato da Marx. Per Marx, infatti, la centralizzazione può avvenire non solo tramite l’uscita dal mercato dei capitali deboli e/o tramite l’acquisizione da parte dei capitali forti, ma anche “mediante concentrazione del controllo del capitale al di là dei mutamenti del rapporto proprietario” (Brancaccio et al., 2022, p. 100). Inoltre, la rete di controllo può estendersi non solo sul territorio nazionale, ma anche all’estero. Insomma, poiché la centralizzazione travalica i confini delle singole compagini societarie e delle singole giurisdizioni territoriali, gli indicatori costruiti in base a delimitazioni fondate sui rapporti proprietari e sulla appartenenza a una giurisdizione politica possono dirci poco al riguardo.

BGL provano a superare questi problemi metodologici mutuando strumenti tratti dalla letteratura sulle reti complesse, un filone della teoria della complessità esploso negli ultimi anni e già applicato con successo ad altri ambiti dell’analisi economica (rapporti import-export tra paesi, reti produttive, reti interbancarie). Questa metodologia permette di ricostruire la reale distribuzione del potere di controllo delle aziende, nonché di misurarne la concentrazione attraverso un indicatore definito network control (Brancaccio et al., 2022, pp. 103-107). I risultati ottenuti da BGL ricostruendo la dinamica di tale indicatore nell’arco di tempo che va dal 2001 al 2016 sono di straordinario interesse: nell’intervallo oggetto dell’analisi, l’80% del capitale azionario globale è stato sotto il controllo di una percentuale variabile tra l’1 e il 2% degli azionisti, e soprattutto tale percentuale ha fatto registrare un trend di progressiva riduzione, trend intensificatosi significativamente a partire dalla recessione globale del 2007 (Brancaccio et al., 2022, pp. 115-116).

Il passo successivo del volume consiste nel passare al setaccio dell’analisi alcuni filoni di letteratura che attribuiscono alla centralizzazione dei capitali un ruolo di un certo rilievo nel determinare alcune linee di tendenza caratteristiche del capitalismo contemporaneo: la crescente vulnerabilità delle economie alle crisi, una certa propensione all’involuzione delle istituzioni politiche in senso antidemocratico, l’acuirsi delle tensioni nelle relazioni internazionali. In questo saggio non discuteremo dell’impatto della centralizzazione sull’instabilità macroeconomica, questione di cui gli autori ammettono la natura assai controversa,[2] e trascureremo anche l’analisi della ricaduta della centralizzazione sulla stabilità delle istituzioni liberal-democratiche, che nel volume occupa un ruolo marginale.[3] Concentreremo invece l’attenzione sull’impatto che, a giudizio degli autori, la centralizzazione eserciterebbe sulle relazioni internazionali, questione che costituisce il cuore tematico del volume.

L’idea di BGL è che la centralizzazione innesca dinamiche molto diverse a seconda che operi all’interno di circoscrizioni territoriali caratterizzate da forme più o meno profonde di integrazione istituzionale oppure tenda a travalicare “i consueti perimetri geopolitici”. Nel primo caso, il conflitto tra i capitali ‘forti’ e i capitali ‘deboli’ viene canalizzato verso i tradizionali dispositivi di mediazione tra gli interessi dei diversi attori in gioco previsti dai relativi assetti istituzionali (parlamenti nazionali, parlamenti federali, banche centrali, autorità antitrust, ecc.). Quindi il processo di centralizzazione “può anche subire interruzioni e contraccolpi”, ma in generale si svolge senza significative ‘rotture’ (Brancaccio et al., 2022, p. 10). Nel secondo caso, invece, niente può escludere che – in assenza di consessi dove far valere i propri interessi – i capitali deboli cerchino di difendersi dall’assorbimento altrui mediante strategie implicitamente o esplicitamente ‘aggressive’: guerre valutarie, guerre commerciali, fino ad arrivare alle guerre propriamente dette.

Questo modello interpretativo induce gli autori a leggere il conflitto russo-ucraino in una luce assai diversa rispetto alla narrazione mainstream: non come episodio a sé stante, frutto avvelenato della peculiarità delle storie svoltesi a cavallo del Dnepr e dell’incompatibilità reciproca dei ‘caratteri nazionali’ che quelle storie hanno gradualmente forgiato; ma piuttosto una tessera di un mosaico più complesso, che può essere afferrato solo sollevando l’occhio dal microscopio puntato sull’Ucraina e orientando lo sguardo sullo scenario globale, cioè provando a fare il punto sull’esito della competizione economica che ha caratterizzato l’ultimo trentennio e a valutare lo stato delle cose che ci ha lasciato in eredità.

Secondo BGL, per comprendere questa fase storica bisogna partire da un fatto che l’opinione pubblica occidentale fa fatica a riconoscere e a razionalizzare: gli Stati Uniti, dopo aver propugnato la grande stagione della globalizzazione dei mercati, ne sono usciti inopinatamente sconfitti. Il capitale americano sta infatti subendo gli effetti di uno storico declino di competitività internazionale, plasticamente documentato dalla sequela ininterrotta di disavanzi della bilancia commerciale degli Stati Uniti dal 1977 ad oggi. Questo declino si traduce in una posizione di pesante debito verso l’estero: gli Stati Uniti hanno ormai accumulato una posizione passiva netta verso l’estero di un ammontare pari a circa il 60% del PIL (Brancaccio et al., 2022, pp. 153 e 164). A questi debiti corrispondono specularmente i crediti dei vincitori della stagione della globalizzazione. “Sono i capitalisti cinesi, in primo luogo, ma anche del Sud-Est asiatico, del Medio Oriente, e in misura minore pure russi” (Brancaccio et al., 2022, p. 165).

Questa strutturale asimmetria tra creditori e debitori mette fatalmente in gioco il controllo del capitale da parte dei debitori. Infatti,
Negli anni, i grandi creditori [...] hanno accumulato denaro, e adesso hanno sempre più voglia di usarlo: non solo per erogare prestiti all’occidente indebitato, ma anche e soprattutto per acquisire capitale occidentale. I capitalisti cinesi, asiatici, arabi e anche russi coltivano cioè da tempo il desiderio di usare la moneta accumulata per comprare azioni di aziende americane, britanniche, francesi, e così via. Magari anche i pacchetti di controllo di quelle aziende, per assorbirle e dominarle (Brancaccio et al., 2022, p. 165).
Si tratta di uno snodo delicatissimo ai fini dell’armonia delle relazioni internazionali. Per scongiurare il pericolo di essere ‘scalati’ dal capitale asiatico, arabo e russo, gli Stati Uniti (e alcuni suoi storici alleati che versano in situazioni analoghe, come Regno Unito e Francia) devono infatti rovesciare il segno del proprio saldo commerciale, e non dispongono di molte alternative per realizzare tale obiettivo: comprimere i costi di produzione (e quindi il tenore di vita dei lavoratori occidentali) o aprirsi sbocchi commerciali con mezzi variamente ‘aggressivi’ (protezionismo valutario e commerciale, espansione militare). In sostanza, la scelta è tra acuire i conflitti interni o quelli internazionali.

Nell’ultimo quindicennio gli Stati Uniti si sarebbero decisamente orientati verso il protezionismo, prima con una politica monetaria estremamente espansiva (il cosiddetto Quantitative Easing) e poi con un ritorno in grande stile di dazi commerciali e restrizioni all’ingresso dei capitali esteri nelle imprese che operano nella fascia ‘alta’ delle catene globali del valore (in particolare nel comparto ICT). Al riguardo, gli autori tengono a sottolineare come la narrazione mainstream, che associa la deriva protezionistica americana alla ‘parentesi’ della presidenza Trump,[4] sia fallace: i dati indicherebbero infatti che questo trend sia stato inaugurato immediatamente dopo la crisi del 2008, in corrispondenza con la presidenza Obama,[5] e che si sia ulteriormente rafforzato durante la presidenza Biden (Brancaccio et al., 2022, pp. 206-207). Il cosiddetto friend-shoring delle catene di approvvigionamento, recentemente invocato dalla segretaria del Tesoro in carica Janet Yellen come misura per recuperare autonomia geopolitica nei confronti di regimi illiberali o guerrafondai (Yellen, 2022), sarebbe in realtà una prassi già consolidata da tempo, legittimata da un sostanziale consenso bipartisan, e il suo reale obiettivo sarebbe la difesa del capitale americano dal processo di centralizzazione che minaccia di fagocitarlo.

Il problema è però che il ‘blocco dei creditori’ può a sua volta reagire al protezionismo dei debitori riarmandosi e spostando la competizione sulla dimensione ‘militare’ (Brancaccio et al., 2022, p. 213). Gli autori suggeriscono che nell’ultimo quindicennio lo scenario delle relazioni internazionali si sia andato muovendo decisamente in questa direzione. Gli eccezionali tassi di crescita della spesa militare fatti registrare dai paesi creditori nell’ultimo ventennio appaiono un significativo indizio in tal senso: sembra cioè che i paesi usciti vincitori dalla competizione globale si stiano consapevolmente preparando ad una nuova fase delle relazioni economiche internazionali, in cui la possibilità di usare i dollari accumulati per acquisire i capitali occidentali sarà sempre più legata alla capacità di ‘minaccia’ nei confronti dei paesi debitori.

Una volta collocato in questo quadro analitico, il conflitto russo-ucraino andrebbe quindi letto in una luce piuttosto diversa rispetto alle narrazioni egemoni nel dibattito. Si tratterebbe cioè solo di un episodio di una contesa di carattere più generale, il cui vero oggetto sono le regole della competizione economica internazionale. Il ‘blocco dei creditori’ starebbe in sostanza mettendo in discussione il diritto degli Stati Uniti e dei loro alleati di saltare disinvoltamente dal libero-scambismo al protezionismo in base alle proprie convenienze del momento, e quindi di ‘congelare’ i dollari usati fino ad oggi dagli USA per accedere a materie prime e manufatti industriali e ora nelle mani dei suoi fornitori (Brancaccio et al., 2022, p. 12). Non è un caso che Wang Yi, ministro degli esteri della Repubblica Popolare Cinese ponga esplicitamente, come condizione per il rilancio della diplomazia nei teatri di guerra, che gli Stati Uniti smettano “di frenare lo sviluppo della Cina bloccando esportazioni e investimenti” (Brancaccio et al., 2022, p. 213).

Si tratta ovviamente di un gioco che va facendosi di giorno in giorno più pericoloso. A dispetto del fatto che i singoli capitalisti vedano ovviamente la pace come una condizione più favorevole alla realizzazione dei propri obiettivi, la complessa catena di azioni e reazioni innescata dalla tendenza alla centralizzazione sospinge l’intero sistema verso una drammatica eterogenesi dei fini (Brancaccio et al., 2022, pp. 152-53, 164), verso una guerra in senso proprio, “fatta non più solo di dazi, sanzioni e mancate acquisizioni, ma anche di bombe e movimenti di truppe” (Brancaccio et al., 2022, p. 213).

L’idea che la frattura geopolitica in essere sia situata in corrispondenza della linea che separa creditori e debitori, seppur intrigante, è probabilmente il punto più debole della ricostruzione di BGL. Alcuni tra i paesi caratterizzati da una posizione finanziaria netta sull’estero attiva particolarmente ‘robusta’ (Giappone, Taiwan, Germania, Corea del Sud, Olanda, Norvegia, Singapore) hanno infatti aderito alla linea delle sanzioni economiche contro la Russia dettata dagli Usa, e nel conflitto risultano quindi inequivocabilmente posizionati sul lato ‘occidentale’ dello schieramento. È dunque evidente che il puzzle delle ‘affiliazioni’ non può essere spiegato esclusivamente sulla base della posizione finanziaria netta sull’estero. La storia e la geopolitica pesano probabilmente in questa vicenda molto più di quanto BGL siano disposti ad ammettere. Ad esempio, difficile pensare che lo status di ‘potenze sconfitte’ di Germania e Giappone (e le significative limitazioni di sovranità che ne sono conseguite) non implichi ipoteche pesanti sulla relativa autonomia strategica,[6] così come appare irrealistico che la contiguità spaziale (con il suo inevitabile portato di conflitti legati a rivendicazioni territoriali) non condizioni il posizionamento strategico di Taiwan, Giappone e Corea del Sud.[7]

Tuttavia, se è vero che un modello eccessivamente parsimonioso come quello proposto nel volume in oggetto non riesce a spiegare in maniera soddisfacente la ‘geografia delle affiliazioni’, va anche detto che BGL portano alla luce un aspetto indiscutibilmente rilevante: difficile infatti negare che la questione del ‘potere di comando’ dei saldi attivi in dollari accumulati dalla Cina abbia un ruolo chiave nella tettonica che muove le strategie dei principali attori geopolitici.

Del resto, studiosi attenti alle interazioni tra dimensione economica e geopolitica avevano segnalato in tempi non sospetti i rischi legati al dilatarsi dell’esposizione debitoria degli Usa nei confronti della Cina. Già nel 2005, commentando la vicenda Unocal, Krugman (2005, mia traduzione) avvertiva che fosse nella natura delle cose che, prima o poi, “I cinesi non si sarebbero più accontentati del ruolo di finanziatori passivi, e avrebbero reclamato quel potere che solo la proprietà può dare”, intravedeva lucidamente in quell’episodio l’avvisaglia di una imminente competizione strategica per le risorse scarse del pianeta e qualificava come ineluttabile una svolta protezionistica nella politica degli Usa nei confronti della Cina.[8] E di lì a poco Arrighi, nel fortunato Adam Smith a Pechino, dopo aver sottolineato l’incongruenza tra comprare merci dalla Cina e contestarne il diritto di spendere i dollari incassati nell’acquisto di una multinazionale americana, avrebbe rilevato la veemente retorica anticinese suscitata dalla vicenda e manifestato le sue preoccupazioni circa l’influenza che quell’atmosfera politico-culturale rischiava di esercitare sulle scelte geopolitiche degli Usa (cfr. Arrighi, [2007] 2008, pp. 309-344).

2. Asimmetrie economiche, ‘regole del gioco’, e guerra nelle tradizioni di pensiero eterodosse

La ‘catena logica’ su cui BGL fondano la propria analisi dell’imperialismo contemporaneo è costruita su nessi teorici tratti dalla tradizione marxista. Il pensiero corre spontaneamente al noto saggio di Lenin sull’imperialismo, cui non a caso è dedicato un momento importante del volume. È quindi di un certo interesse mettere a confronto le due visioni, in modo da valutarne punti di contatto e differenze.

La catena logica di Lenin parte dall’idea marxiana della dinamica fondamentalmente asimmetrica prodotta dallo sviluppo capitalistico. “Nel capitalismo sono inevitabili la diseguaglianza e la discontinuità nello sviluppo di singole imprese, di singoli rami industriali, di singoli paesi” (Lenin, [1916] 1980, p. 76). Man mano che le asimmetrie si approfondiscono, i grandi divorano i piccoli e la centralizzazione dei capitali procede. Ad un certo punto, in alcuni paesi il capitalismo diventa “più che maturo”, al capitale “non rimane più campo per un investimento redditizio” (Lenin, [1916] 1980, p. 78) e il conflitto deve necessariamente travalicare le frontiere degli stati nazionali. I capitali ‘in esubero’ entrano quindi in competizione per l’accesso ai paesi in cui la profittabilità è più elevata e dove sono disponibili le fonti di materie prime strategiche; parallelamente, le “leghe politiche” (gli stati nazionali) entrano in competizione “sul terreno della spartizione territoriale del mondo, della lotta per le colonie, della lotta per il territorio economico” (Lenin, [1916] 1980, p. 91).

Ne risulta una divisione del mondo in sfere d’influenza tra le principali potenze. Tuttavia, si tratta di una divisione fatalmente instabile, in quanto condizionata in maniera decisiva da rapporti di forza continuamente mutevoli. Infatti, “[…] i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc.”. Di conseguenza, “[…] le alleanze inter-imperialistiche non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra […]. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste” (Lenin, [1916] 1980, pp. 138-139, corsivo aggiunto).

Gli autori ammettono l’interesse della ricostruzione di Lenin, da cui mutuano l’idea che siano le asimmetrie caratteristiche dello sviluppo capitalistico ad alterare sistematicamente i rapporti di forza tra le potenze e a rendere la guerra un evento costantemente incombente (Brancaccio et al., 2022, p. 189). Tuttavia, essi sottolineano la natura “vaga e indeterminata” della catena di cause e conseguenze su cui tale ricostruzione si fonda (Brancaccio et al., 2022, p.190) e si dolgono del fatto che “questo limite si sia protratto anche nella produzione più propriamente accademica delle epoche successive” ispirata all’opera di Lenin (Brancaccio et al., 2022, p. 196). Un nodo particolarmente critico sarebbe il nesso postulato tra ‘maturità’ del capitalismo e caduta della profittabilità, che nella visione di Lenin risulta cruciale ai fini della spiegazione della tendenza all’esportazione di capitale, ma i cui fondamenti teorici vengono lasciati inesplicati (Brancaccio et al., 2002, p. 190).

Questa vaghezza rappresenta, agli occhi degli autori, un elemento di debolezza dell’analisi, soprattutto alla luce dell’ovvio ‘sospetto’ che il fondamento in questione sia la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, notoriamente una delle proposizioni più controverse dell’impianto analitico marxiano. La scelta degli autori è, programmaticamente, di confrontarsi con il lascito di Lenin provando a ‘depurarne’ la sequenza logica dalle proposizioni meno affidabili sul piano concettuale ed empirico. Il ruolo cruciale attribuito alla categoria della centralizzazione nella spiegazione dell’imperialismo appare quindi giustificata fondamentalmente dal fatto di potersi ‘reggere in piedi’ senza la necessità di postulare correlazioni di natura controversa tra accumulazione di capitale e saggio di profitto.[9]

È altrettanto interessante mettere a confronto la ricostruzione dei ‘nuovi imperialismi’ di BGL con le interpretazioni di Keynes e Polanyi, due studiosi invece completamente estranei all’alveo epistemologico marxista, ma che tuttavia attribuirono agli incentivi materiali degli attori pubblici e privati un ruolo chiave nella spiegazione delle tensioni internazionali che sfociarono nel secondo conflitto mondiale.[10]

Keynes e Polanyi condividevano il giudizio di Marx e Lenin circa l’intrinseca incapacità delle economie capitalistiche di muoversi lungo un sentiero di equilibrio. Tuttavia, sebbene entrambi dimostrassero nei loro scritti profonda consapevolezza di una tendenza spontanea alla concentrazione della produzione,[11] nessuno dei due attribuisce (almeno non esplicitamente) un ruolo cruciale alla “centralizzazione” nella spiegazione della vocazione imperialistica delle grandi potenze dell’epoca. Piuttosto che concentrare l’attenzione sull’analisi ‘micro’ degli effetti dell’evoluzione della struttura proprietaria dell’industria e dell’attività bancaria, entrambi mettevano invece il focus sulle perturbazioni ‘macro’ indotte dalle asimmetrie caratteristicamente attinenti alla dimensione ‘spaziale’.

Diversamente dalla teoria liberale del commercio internazionale, secondo cui “la Gran Bretagna era semplicemente un altro atomo dell’universo del commercio e si collocava esattamente sullo stesso piano della Danimarca o del Guatemala” (Polanyi, [1944] 1974, p. 263), Keynes e Polanyi avevano ben chiaro come i fattori di successo nella competizione sui mercati internazionali fossero legati a variabili dalla distribuzione inevitabilmente sperequata tra le diverse circoscrizioni geo-politiche. Si pensi alle differenze tra stati-continente come gli Stati Uniti e la Cina e stati-nazione come la Gran Bretagna o la Francia con riferimento alla disponibilità di risorse materiali e umane; oppure si pensi alle differenze tra paesi ad industrializzazione avanzata e paesi in via di sviluppo per quanto concerne la posizione nell’assetto di divisione internazionale del lavoro. A giudizio di entrambi, calata dentro questo contesto di sostanziali asimmetrie, la libera competizione su mercati globali avrebbe prodotto una tendenza spontanea allo squilibrio dei saldi commerciali (e quindi alla segmentazione del mondo tra creditori e debitori strutturali). Inoltre, trattandosi caratteristicamente di variabili ad elevato grado di ‘persistenza’ nel tempo, non c’era da aspettarsi che i segnali di mercato fossero in grado di produrre mutamenti strutturali tali da rovesciare rapidamente la distribuzione dei fattori di successo e innescare spontanee dinamiche di aggiustamento.[12]

Le regole del Gold Standard, che impedivano la manipolazione ‘politica’ del valore delle monete nazionali, gettavano ulteriore benzina sul fuoco. Infatti, l’unico modo in cui i paesi in disavanzo potevano far fronte ai pagamenti correnti in valuta era restringere la quantità di moneta, in modo da mantenere i tassi d’interesse a livelli elevati abbastanza da attrarre i capitali esteri necessari alla bisogna (Keynes, [1925] 1968, pp. 189-193; Polanyi, [1944] 1974, p. 262). Tuttavia, le restrizioni monetarie avrebbero aggravato la deflazione e la disoccupazione, indebolendo il consenso delle istituzioni di governo e lasciandole di fronte alla drammatica alternativa tra inasprire il conflitto sociale interno (Keynes, [1925] 1968, p. 188) o scaricarlo all’esterno mediante l’innalzamento di barriere commerciali, l’intensificazione della lotta per il predominio sui mercati internazionali (Keynes, [1936] 2019, pp. 399-400 e 436-37) e forme arbitrarie di interferenza politica nelle proprietà degli investitori esteri (Polanyi, [1944] 1974, p. 264).

Keynes e Polanyi erano entrambi convinti che, alla lunga, le grandi potenze avrebbero finito per abbracciare politiche nazionaliste. E una volta che il protezionismo fosse diventato la cifra distintiva delle politiche nazionali, il rischio di non trovare più sbocchi per le merci nazionali, di non potersi più rifornire di materie prime essenziali per la propria industria e di vedersi espropriare gli asset patrimoniali all’estero, avrebbe fornito evidentemente ai governi robusti incentivi al riarmo (Polanyi, [1944] 1974, p. 276). In tale contesto, la potenza della flotta navale diventava infatti l’argomento più convincente per mantenere aperte le vie commerciali, per riscuotere i crediti dei propri cittadini o per resistere alla pretesa di rimborso dei propri debiti (Polanyi, [1944] 1974, pp. 264-265).

Per entrambi gli studiosi, la deriva imperialista delle relazioni internazionali nel periodo a cavallo delle due guerre mondiali era quindi il risultato di un difetto ‘genetico’ del modello di capitalismo dell’epoca: l’intrinseca difficoltà di coesistenza della moneta-merce, vitale per l’esistenza del commercio internazionale, con la moneta-segno, necessaria per le esigenze del commercio interno (Polanyi, [1944] 1974, p. 247). Gli squilibri del commercio internazionale tendevano infatti ad indebolire la relazione tra i valori di moneta-merce e moneta-segno, costringendo le autorità monetarie nazionali a riallinearli attraverso repentine rimodulazioni delle politiche creditizie, con effetti destabilizzanti sui livelli di attività e occupazione (Keynes, [1925] 1968, p. 191).

Keynes e Polanyi pervengono quindi a valutazioni molto pessimistiche circa le prospettive della pace in un mondo regolato dal principio della libera competizione sui mercati internazionali e dal sistema aureo. Keynes arriva a sostenere che il protezionismo, la penetrazione dei capitali stranieri nella struttura economica di un paese, l’imperialismo economico “sono una parte difficilmente evitabile di un sistema che punta al massimo di specializzazione internazionale e di diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla residenza del suo proprietario” (Keynes, [1933] 1991, pp. 89-90) e addirittura che “[…] non era mai stato escogitato nella storia un metodo altrettanto efficace quanto il regime aureo internazionale per mettere l’interesse di ciascun paese in contrasto con quello dei suoi vicini” (Keynes, [1936] 2019, p. 399).

Negli anni successivi, l’impegno di entrambi si concentrò sulla progettazione di un modello di regolazione delle relazioni economiche internazionali che congiurasse a tenere il mondo al riparo dalla guerra, e più precisamente sul design di una moneta ‘internazionale’ che non entrasse in conflitto con il governo della moneta ‘interna’ in funzione degli obiettivi macroeconomici nazionali. Polanyi chiuderà la sua opera più importante con un vigoroso appello ad abbandonare l’utopia di un mercato autoregolato, a liberare le economie nazionali dalla ‘camicia di forza’ rappresentata dal sistema della base aurea e a restituire ai governi la sovranità economica, condizione a suo avviso necessaria per convincere gli attori in campo ad abbandonare le tentazioni nazionaliste (Polanyi, [1944] 1974, p. 316). Contestualmente, Keynes concepirà l’ambizioso progetto di un sistema monetario internazionale adeguato a incentivare la cooperazione tra i capitalismi nazionali e proverà a difenderlo con tutte le sue energie, con esiti purtroppo sfavorevoli, nei negoziati di Bretton Woods.[13]

A dispetto dell’adozione di una chiave di lettura dell’imperialismo contemporaneo parzialmente differente da quella di Keynes e Polanyi, anche BGL (2022, p. 143) sembrano ritenere che il mondo – dopo aver provato ad aggirare il nodo in vari modi – si trovi oggi di nuovo davanti a quel decisivo crocevia. Vale quindi la pena di dedicare alcune riflessioni conclusive alle questioni attinenti al design delle istituzioni monetarie più o meno esplicitamente sollevati dal volume in oggetto.

3. Istituzioni monetarie e governo politico della centralizzazione capitalistica

Nella bella postfazione al volume di BGL, Scazzieri suggerisce di leggerne la trama in una prospettiva di storia del pensiero economico, sottolineando come le narrazioni mainstream ed eterodossa condividano sostanzialmente una interpretazione della storia economica come una tensione “[…] alla progressiva inclusione di un numero crescente di attori individuali e collettivi nella sfera delle relazioni di mercato a livello globale” (Scazzieri, 2022, p. 227). Le due narrazioni tenderebbero però ad un certo punto a divaricarsi: secondo la prima, gli incentivi allo sfruttamento dei vantaggi comparati condurrebbero alla costituzione di un armonico sistema di interdipendenze tra attori individuali e collettivi, ad una sorta di ‘fine della storia’ in cui la cooperazione internazionale soppianta i nazionalismi; in base alla seconda, invece, il sistema di interdipendenze risultante dal processo di integrazione finirebbe per strutturare relazioni di natura asimmetrica tra gli attori partecipanti, e dentro questo contesto l’operare delle dinamiche concorrenziali genererebbe flussi di liquidità tali da modificare le posizioni relative degli attori attraverso la centralizzazione della proprietà (ibidem). Di qui le reazioni volte a bloccare i processi di centralizzazione in corso e i correlati rischi di deflagrazioni suscettibili di distruggere quegli stessi sistemi di interdipendenze all’origine delle asimmetrie (ivi, p. 229).

Una delle questioni più interessanti sollevate nel volume, soprattutto per le sue implicazioni a fini di policy, ha a che fare con i fattori di innesco del conflitto ‘militare’. Perché in alcuni casi gli attori che escono sconfitti dalla competizione e vengono ‘scalati’ da altri capitali accettano più o meno di buon grado la perdita della sovranità economica e in alcuni casi no? Perché in alcuni paesi (l’Italia è un caso paradigmatico) si afferma una cultura politica secondo cui la nazionalità dei proprietari del capitale produttivo localizzato sul proprio territorio è del tutto irrilevante? E perché invece altrove anche semplici ‘minacce’ di rovesciamento degli assetti proprietari in settori del capitale nazionale considerati strategici suscitano immediate ritorsioni? Per innescare un conflitto, la centralizzazione deve raggiungere certe particolari ‘soglie’? Oppure la centralizzazione è un mero catalizzatore di energia, incapace di combustione in assenza di una ‘miccia’? E, nel caso, quali sono le condizioni scatenanti? È possibile andare un po’ più a fondo nello studio della ‘chimica’ dei conflitti?

Al riguardo, BGL propongono una intrigante chiave di lettura: la variabile decisiva sarebbe la capacità degli attori del sistema di interdipendenze venutosi a creare di istituire centri di regolazione dotati del potere di modulare la velocità del processo di centralizzazione. In particolare, un ruolo centrale in tal senso svolgerebbe l’autorità monetaria. Manovrando il tasso d’interesse, il banchiere centrale può infatti decidere della solvibilità dei capitali ‘deboli’, e quindi decretare se essi debbano essere assorbiti dai capitali ‘forti’ o conservare la propria autonomia. Sul punto, gli autori si distaccano decisamente dalle interpretazioni mainstream della politica monetaria, che descrivono il banchiere centrale come un agente ‘neutrale’, che orienta la propria azione alla minimizzazione degli scostamenti delle principali variabili macroeconomiche dai relativi valori-obiettivo. Al contrario, nella visione di BGL, il ruolo del banchiere centrale sarebbe di natura eminentemente ‘politica’: la fissazione del tasso d’interesse sarebbe cioè finalizzata all’obiettivo di favorire la massima centralizzazione capitalistica sotto il vincolo della sua sostenibilità sociale e politica (Brancaccio et al., 2022, pp. 86-87). Un ruolo chiave in tal senso avrebbe la ‘gradualità’ del processo: diluendo nel tempo il numero delle ‘vittime’ della centralizzazione, il banchiere centrale ostacolerebbe il formarsi di ‘coaguli’ di malcontento di dimensioni tali da mettere a rischio l’integrità dell’assetto istituzionale.[14]

Ovviamente, il focus posto dagli autori sulla banca centrale non esclude che nella regolazione del processo di centralizzazione capitalistica possano avere un ruolo rilevante altre istituzioni di governo delle transazioni economiche, come parlamenti nazionali e federali, o autorità di regolazione della concorrenza. In questa direzione sembra muoversi, del resto, il già citato contributo di Scazzieri quando, traducendo la questione in termini di “compatibilità tra aspetti materiali e aspetti istituzionali di interdipendenza” generate dalla divisione internazionale del lavoro (Scazzieri, 2022, p. 229, corsivo aggiunto), suggerisce implicitamente che il modello interpretativo di BGL possa essere portato ad un livello di astrazione ancora più elevato. Alla luce di tale proposta analitica, la diluizione dell’intensità dei conflitti legati alla centralizzazione capitalistica richiederebbe istituzioni in grado di rappresentare gli interessi in campo e di favorire soluzioni di compromesso. Dove invece istituzioni di governo ‘politico’ della centralizzazione non esistono o hanno capacità di mediazione insufficiente, i conflitti intercapitalistici non possono che esprimersi sui piani della ‘minaccia’, della ‘ritorsione’ o addirittura della guerra propriamente detta. In questa ottica, il governo della moneta sarebbe solo una tra le potenziali modalità di controllo della velocità della centralizzazione.

La peculiare caratteristica della moneta di intersecare trasversalmente tutte le altre dimensioni della governance economica ha tuttavia contribuito a darle una rilevanza centrale nella riflessione teorica sui temi di economia monetaria internazionale. In particolare, nella tradizione eterodossa sembra ormai acquisito che la dialettica tra allargamento delle interdipendenze economiche ed evoluzione delle istituzioni monetarie internazionali non sia per niente ‘lineare’, ma sia invece caratterizzata da una problematica ‘ricorsività’. Da un lato, la tendenza all’inclusione di un numero crescente di agenti individuali e collettivi nella sfera delle relazioni di mercato trova un limite significativo nella instabilità dei rapporti tra le valute, e spinge quindi gli attori in campo a progettare assetti istituzionali in grado di azzerarne o quantomeno contenerne le oscillazioni. Dall’altro, come sostenuto da Keynes e Polanyi, la stabilità dei rapporti tra le valute in un mondo di asimmetrie tra gli attori delle relazioni di mercato sottrae flessibilità al sistema, e crea i presupposti di squilibri tendenti a riflettersi in posizioni strutturali di credito e debito, e quindi alla lunga in processi di centralizzazione che attraversano i confini nazionali e finiscono per minacciare la stessa struttura di interdipendenze così faticosamente costruita.

Il modello interpretativo proposto nel volume aiuta quindi a spiegare il motivo per cui il dilemma del design della moneta internazionale si riproponga con tanta regolarità nella storia dell’ultimo secolo, nonché il motivo della sua stretta interconnessione con le tensioni internazionali. Il faticoso processo di ricucitura del Gold Standard dopo il primo conflitto mondiale, il controverso approdo di Bretton Woods, gli esperimenti che seguirono il Nixon Shock, il percorso dell’Europa verso la moneta unica potrebbero essere letti, alla luce del lavoro di BGL, come momenti del progressivo adattamento dell’assetto delle istituzioni monetarie internazionali al grado di centralizzazione di volta in volta raggiunto dal sistema, nella prospettiva di impedire al conflitto tra i capitali di degenerare in forme potenzialmente letali.

Ci sembra quindi che il volume ponga apertamente la questione della compatibilità tra la profondità della divisione internazionale del lavoro raggiunta in questo scorcio della storia con il regime monetario attualmente in vigore. Più precisamente, BGL sollevano implicitamente l’interrogativo se la globalizzazione possa continuare a reggersi su una moneta fiduciaria prodotta dal principale debitore del sistema. Sottolineando, quanto mai opportunamente, il rischio che per scoprirlo sia necessaria una guerra (Brancaccio et al., 2022, p. 12).

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Note

1) Una tradizione di pensiero lunga e prestigiosa – che annovera tra i suoi esponenti Quesnay, Say, Mill e Schumpeter– interpreta gli interessi materiali come un potente fattore di promozione di relazioni pacifiche tra le nazioni. Secondo costoro, imbracciare le armi significherebbe sganciarsi dalla rete del commercio internazionale, e rinunciare quindi ai benefici associati alla divisione internazionale del lavoro. Le guerre sarebbero invece l’esito caratteristico di politiche statali (protezionismo, colonialismo) orientate a procurare privilegi esclusivi a piccoli gruppi di cittadini a discapito dell’interesse generale della popolazione. Pertanto i conflitti militari tenderebbero a rarefarsi man mano che le nazioni si allontanano da forme di governo autocratico e si avvicinano al modello della democrazia: in tale assetto istituzionale, infatti, l’interesse delle maggioranze per la pace verrebbe ad assumere un peso decisivo nelle decisioni politiche. Il fattore chiave ai fini dell’armonia delle relazioni internazionali non sarebbe quindi l’organizzazione economica, bensì il modello di organizzazione politica delle comunità. Per una rassegna su questo filone di pensiero, cfr. Allio (2014, capp. 1 e 2). Per una rassegna degli sviluppi più recenti della letteratura sul rapporto tra commercio internazionale e conflitti militari, cfr. Caruso (2017, cap. 4).

2) Dalla rassegna della letteratura proposta nel cap. 4 della prima parte del volume, emerge una estrema varietà di posizioni sul punto. Anche volendo limitarci al solo dibattito di area marxista, il paesaggio è tutt’altro che omogeneo. Marx (1894) sostiene molto chiaramente che la centralizzazione dei capitali, sganciando sempre più nettamente il controllo dalla proprietà, favorirebbe negli attori imprenditoriali (e nelle istituzioni finanziarie che ne controllano l’approvvigionamento di risorse) comportamenti caratterizzati da un’eccessiva propensione al rischio, accentuando in tal modo l’instabilità e la sovrapproduzione nel sistema. Seguendo linee argomentative diverse, Hilferding ([1910] 2011) e Baran e Sweezy ([1966] 1968) giungono invece entrambi a posizioni in sostanziale conflitto con le affermazioni di Marx sul punto.

3) Questa questione è invece al centro di un altro volume di uno degli autori (Brancaccio, 2022), cui rinviamo il lettore più specificamente interessato al tema.

4) Per una interpretazione in tal senso del neo-mercantilismo statunitense, cfr. Guerrieri (2021, pp. 81-94).

5) In realtà, già durante la presidenza di Bush jr., gli Stati Uniti avevano assunto atteggiamenti in esplicito contrasto con la retorica liberista ogni volta che erano venuti in gioco interessi ‘strategici’. Si pensi ad esempio alla risoluzione con cui nel 2005 il congresso mise il veto sull’offerta di acquisto della compagnia petrolifera americana Unocal da parte della China National Offshore Oil Company (cfr. Arrighi, [2007] 2008, pp. 310-312; Roubini, [2022] 2023, p. 152). La strategia di contrasto alla penetrazione cinese si è poi fatta più capillare durante la presidenza Obama, con le inchieste avviate nel 2012 su Huawei e ZTE e la conseguente esclusione di entrambe dagli appalti pubblici negli Stati Uniti (cfr. Tooze, 2021, pp. 224-226).

6) Il conflitto tra obiettivi economici e posizionamento geopolitico è particolarmente evidente nel caso della Germania. Sul punto, cfr. Halevi (2022).

7) Le ragioni geopolitiche che spingono i vicini della Cina a coalizzarsi contro di essa, a dispetto dei comuni interessi economici, sono ben illustrate in Mearsheimer ([2001] 2019, pp. 376-427).

8) “La Unocal […] sembra esattamente il tipo di azienda che il governo cinese vorrebbe controllare se avesse in mente una specie di ‘grande gioco’ in cui le maggiori potenze economiche sgomitano per l’accesso a vaste riserve di petrolio e gas naturale […]. Fosse per me, bloccherei l’offerta cinese per Unocal” (Krugman, 2005, mia traduzione).

9) Per un altro recente tentativo di razionalizzazione teorica dell’imperialismo che prova a prescindere dalla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, cfr. Hauner et al. (2017).

10) I momenti della produzione scientifica dei due studiosi in cui più compiutamente viene affrontato il tema sono Keynes ([1936] 2019, cap. 23) e Polanyi ([1944] 1974, cap. 16, 17 e 18). Per un confronto tra le rispettive posizioni, si consenta il rinvio a D’Acunto (2005).

11) Cfr. ad esempio Keynes ([1926] 1991) e Polany ([1928] 1993).

12) In particolare, entrambi ritenevano poco realistico un processo di aggiustamento dei salari e dei prezzi interni in grado di livellare la competitività internazionale. Sul punto, cfr. Keynes ([1925] 1968, p. 185) e Polanyi ([1944] 1974, pp. 245-246).

13) Per una ricostruzione dell’impegno di Keynes in questo ambito, cfr. Fantacci (2016).

14) Gli autori interpretano in questa ottica, ad esempio, la parabola della politica monetaria dell’Eurozona. La Banca centrale europea (BCE), disegnata con l’obiettivo esplicito di elevare le soglie minime di solvibilità, in modo da favorire la scomparsa dei capitali più deboli o la loro acquisizione da parte dei più forti (sul punto, cfr. anche Brancaccio e Cavallaro, 2011, p. XXXV), sarebbe stata poi costretta dall’ondata di insolvenze seguita alla crisi del 2008 a “tarare diversamente la regolazione del conflitto” tra creditori e debitori (Brancaccio et al., 2022, p. 90). I cosiddetti programmi di ‘alleggerimento quantitativo’ praticati a partire dal 2012 andrebbero cioè interpretati come il necessario baluardo alzato dalla BCE contro il rischio del coagulo degli interessi dei capitali a rischio di insolvenza sotto le bandiere del nazionalismo economico.

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