Ragionare in termini ideologici (non “teorici”, che è all’opposto attività molto seria) porta sempre in un buco nero del pensiero da cui non si sa più come uscire.
È quel che avviene quasi sempre quando si prova a dare un giudizio sulle società “di transizione” dal capitalismo come lo conosciamo qui in Occidente (il neoliberismo praticamente senza freni) ad altre forme più o meno “progettate”.
In genere ci si ferma quasi subito di fronte alla domanda “è socialismo oppure no?”. Siccome la domanda è posta quasi sempre in termini, appunto “ideologici” – come se una società reale potesse corrispondere a criteri astratti, per altro molto variabili da “pensatore” a “pensatore” – la risposta non può che essere sempre negativa. Sia che si parli dei Soviet negli anni Venti o successivi; sia che di parli di Cina (nei vari periodi post-rivoluzione); sia che si discuta di paesi latino-americani (da Cuba “in giù”).
In effetti si deve dire che nessuna di queste società è “perfettamente socialista”. E neanche i gruppi dirigenti di quei paesi sono così ingenui da sostenerlo.
Stanno guidando società complesse – certo molto di più dei ristretti circoli di “pensatori” che le giudicano – con risultati assai diversi tra loro. Del resto sono ognuna il risultato di evoluzioni, tradizioni, culture, risorse differenti. E nessuno mai, salvo che nei sogni solitari notturni, può pensare che basti uno schiocco di “decreti rivoluzionari” per avere il mondo perfetto.
La premessa serve ad introdurre un piano di riflessione molto più concreto e “laico”, non ideologico, appunto.
E l’occasioni giusta ci sembra questo articolo – come sempre acuto – di Guido Salerno Aletta apparso su MilanoFinanza, che certo è non il tempio del comunismo...
Al contrario delle narrazioni catastrofiste che appaiono sul Corriere o su Repubblica, secondo cui difficoltà e fallimenti nel settore immobiliare, oppure il sostanziale controllo pubblico imposto su Alibaba, “proverebbero” – a giorni alterni – che “il modello cinese sta crollando” oppure che “la dittatura reprime le ‘isole di libertà’ imprenditoriale”, Salerno Aletta apre in modo lapidario: “La politica cinese sta virando decisamente a sinistra”.
Per dirlo usa i criteri normali nel ‘libero mercato’. Ossia: come viene redistribuita la ricchezza prodotta? Aumentando a dismisura i profitti aziendali oppure aumentando salari, consumi, servizi per l’insieme della popolazione?
Qui da noi, in particolare in Italia, sappiamo come va. I salari continuano a calare da trenta anni, e l’inflazione degli ultimi due anni sta dando loro la mazzata finale. Un quarto dei lavoratori guadagna meno di 9 euro l’ora (1.100 nette al mese, grosso modo), e molti di loro meno di quanto costa un affitto in città.
Tutti i guadagni di produzione o di Pil finiscono alle imprese, agli evasori fiscali, alle migliaia di “intermediatori” posizionati tra lavoro e salario, tra bisogni e loro soddisfazione. Per esempio, la sanità privata...
Al contrario, spiega Salerno Aletta con categorie e dati che sarebbero riconosciuti anche alla Bocconi, a Pechino il “processo di crescita […] viene sempre più ricondotto verso obiettivi di sviluppo in cui il benessere economico deve essere sostenibile dal punto di vista ambientale, demografico e finanziario”. Non fatelo sapere a Rampini, potrebbe venirgli un infarto...
Segue una lunga lista di politiche messe in atto in questi ultimi anni, sotto la direzione di Xi Jinping, che vanno razionalmente in questa direzione. Comprese le “politiche a favore della natalità” – su cui sparano castronerie inascoltabili quasi tutti i parlamentari nostrani – che, guarda un po’ vertono su salari crescenti, servizi sociali, diritto alla casa, tendenziale eliminazione della scuola privata (ridotta a “funzione no profit”!), ecc.
Ci vuole proprio tanto a capire che – qualsiasi scelta di vita individualmente si faccia – si faranno più figli se si ha un reddito sufficiente a mantenerli, curarli, istruirli, farli socializzare in modo razionale e senza abbandonarli per strada?
Le politiche italiane, tutte coerenti con il dogma neoliberista, hanno prodotto il risultato che conosciamo: dall’oltre un milione di nuovi nati l’anno (anni ‘60) a meno di 400.000. Politiche, insomma, non solo “depressive” sul piano economico, ma decisamente mortifere su quello sociale.
Viene da pensare alla definizione marxiana di proletariato: “coloro che possiedono come ricchezza unicamente i loro figli”. Ora più neanche quelli...
Il punto vero è dunque concettualmente semplice: se in una formazione sociale sono gli interessi privati a determinare le scelte della politica (collettive, forzatamente), abbiamo un sistema fondamentalmente neoliberista.
Se invece abbiamo una formazione sociale in cui sono gli obiettivi politici ad orientare, secondo un piano sempre aggiornabile nel tempo, le forze economiche ed anche gli interessi privati, allora abbiamo un sistema di economia mista (pubblico e privato).
Poi, naturalmente, non tutte le politiche sono uguali. Alcune possono andare nel senso della costruzione del socialismo, altre certamente no. Ma che si discuta concretamente, nel merito, non per schemi idealistici.
Da notare, infine, come la Storia si ancora una volta molto ironica. Mettendo al centro l’aumento dei consumi popolari Pechino sta (paradossalmente?) scalzando gli Stati Uniti dal ruolo di “compratore globale di ultima istanza“. Ergo, di potenza tendenzialmente egemone...
Non vi tedieremo oltre e vi lasciamo alla lettura dell’articolo di MilanoFinanza.
È quel che avviene quasi sempre quando si prova a dare un giudizio sulle società “di transizione” dal capitalismo come lo conosciamo qui in Occidente (il neoliberismo praticamente senza freni) ad altre forme più o meno “progettate”.
In genere ci si ferma quasi subito di fronte alla domanda “è socialismo oppure no?”. Siccome la domanda è posta quasi sempre in termini, appunto “ideologici” – come se una società reale potesse corrispondere a criteri astratti, per altro molto variabili da “pensatore” a “pensatore” – la risposta non può che essere sempre negativa. Sia che si parli dei Soviet negli anni Venti o successivi; sia che di parli di Cina (nei vari periodi post-rivoluzione); sia che si discuta di paesi latino-americani (da Cuba “in giù”).
In effetti si deve dire che nessuna di queste società è “perfettamente socialista”. E neanche i gruppi dirigenti di quei paesi sono così ingenui da sostenerlo.
Stanno guidando società complesse – certo molto di più dei ristretti circoli di “pensatori” che le giudicano – con risultati assai diversi tra loro. Del resto sono ognuna il risultato di evoluzioni, tradizioni, culture, risorse differenti. E nessuno mai, salvo che nei sogni solitari notturni, può pensare che basti uno schiocco di “decreti rivoluzionari” per avere il mondo perfetto.
La premessa serve ad introdurre un piano di riflessione molto più concreto e “laico”, non ideologico, appunto.
E l’occasioni giusta ci sembra questo articolo – come sempre acuto – di Guido Salerno Aletta apparso su MilanoFinanza, che certo è non il tempio del comunismo...
Al contrario delle narrazioni catastrofiste che appaiono sul Corriere o su Repubblica, secondo cui difficoltà e fallimenti nel settore immobiliare, oppure il sostanziale controllo pubblico imposto su Alibaba, “proverebbero” – a giorni alterni – che “il modello cinese sta crollando” oppure che “la dittatura reprime le ‘isole di libertà’ imprenditoriale”, Salerno Aletta apre in modo lapidario: “La politica cinese sta virando decisamente a sinistra”.
Per dirlo usa i criteri normali nel ‘libero mercato’. Ossia: come viene redistribuita la ricchezza prodotta? Aumentando a dismisura i profitti aziendali oppure aumentando salari, consumi, servizi per l’insieme della popolazione?
Qui da noi, in particolare in Italia, sappiamo come va. I salari continuano a calare da trenta anni, e l’inflazione degli ultimi due anni sta dando loro la mazzata finale. Un quarto dei lavoratori guadagna meno di 9 euro l’ora (1.100 nette al mese, grosso modo), e molti di loro meno di quanto costa un affitto in città.
Tutti i guadagni di produzione o di Pil finiscono alle imprese, agli evasori fiscali, alle migliaia di “intermediatori” posizionati tra lavoro e salario, tra bisogni e loro soddisfazione. Per esempio, la sanità privata...
Al contrario, spiega Salerno Aletta con categorie e dati che sarebbero riconosciuti anche alla Bocconi, a Pechino il “processo di crescita […] viene sempre più ricondotto verso obiettivi di sviluppo in cui il benessere economico deve essere sostenibile dal punto di vista ambientale, demografico e finanziario”. Non fatelo sapere a Rampini, potrebbe venirgli un infarto...
Segue una lunga lista di politiche messe in atto in questi ultimi anni, sotto la direzione di Xi Jinping, che vanno razionalmente in questa direzione. Comprese le “politiche a favore della natalità” – su cui sparano castronerie inascoltabili quasi tutti i parlamentari nostrani – che, guarda un po’ vertono su salari crescenti, servizi sociali, diritto alla casa, tendenziale eliminazione della scuola privata (ridotta a “funzione no profit”!), ecc.
Ci vuole proprio tanto a capire che – qualsiasi scelta di vita individualmente si faccia – si faranno più figli se si ha un reddito sufficiente a mantenerli, curarli, istruirli, farli socializzare in modo razionale e senza abbandonarli per strada?
Le politiche italiane, tutte coerenti con il dogma neoliberista, hanno prodotto il risultato che conosciamo: dall’oltre un milione di nuovi nati l’anno (anni ‘60) a meno di 400.000. Politiche, insomma, non solo “depressive” sul piano economico, ma decisamente mortifere su quello sociale.
Viene da pensare alla definizione marxiana di proletariato: “coloro che possiedono come ricchezza unicamente i loro figli”. Ora più neanche quelli...
Il punto vero è dunque concettualmente semplice: se in una formazione sociale sono gli interessi privati a determinare le scelte della politica (collettive, forzatamente), abbiamo un sistema fondamentalmente neoliberista.
Se invece abbiamo una formazione sociale in cui sono gli obiettivi politici ad orientare, secondo un piano sempre aggiornabile nel tempo, le forze economiche ed anche gli interessi privati, allora abbiamo un sistema di economia mista (pubblico e privato).
Poi, naturalmente, non tutte le politiche sono uguali. Alcune possono andare nel senso della costruzione del socialismo, altre certamente no. Ma che si discuta concretamente, nel merito, non per schemi idealistici.
Da notare, infine, come la Storia si ancora una volta molto ironica. Mettendo al centro l’aumento dei consumi popolari Pechino sta (paradossalmente?) scalzando gli Stati Uniti dal ruolo di “compratore globale di ultima istanza“. Ergo, di potenza tendenzialmente egemone...
Non vi tedieremo oltre e vi lasciamo alla lettura dell’articolo di MilanoFinanza.
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La Cina è il nuovo compratore globale di ultima istanza
La Cina è il nuovo compratore globale di ultima istanza
Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza
La politica cinese sta virando decisamente a sinistra. Il liberismo guidato politicamente, il ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ che l’ha caratterizzata per oltre un trentennio, da quando Deng Xiaoping aveva accettato un processo di crescita in cui qualcuno potesse arricchirsi prima degli altri, viene sempre più ricondotto verso obiettivi di sviluppo in cui il benessere economico deve essere sostenibile dal punto di vista ambientale, demografico e finanziario.
La crisi americana del 2008, con il crollo del commercio internazionale che aveva prodotto, aveva già indotto la prima grande mutazione, spostando il vettore della crescita cinese dalle esportazioni al mercato interno e individuando una serie di obiettivi strategici a lungo termine, di indipendenza tecnologica, che spostavano verso l’alto la posizione della Cina nella divisione internazionale del lavoro.
Il duplice mutamento di allora, verso l’interno e verso l’alto, non aveva intaccato ma anzi enfatizzato la dinamica in termini quantitativi, con la crescita del ceto di persone molto ricche da una parte e di una fascia di milioni di famiglie benestanti, tutte assai attente dal punto di vista dei valori e dei consumi a ripetere i paradigmi occidentali.
Parallelamente si erano andati sviluppando modelli di investimento di tipo speculativo, sia nel settore immobiliare che in quello degli asset di borsa, mentre l’economia reale continuava ad ampliare le dimensioni dell’industria di base e pesante, con un aumento del fabbisogno energetico, senza ridurne l’intensità rispetto al pil e quindi con consumi crescenti di carbone e delle emissioni di CO2.
Ancora oggi, nonostante ne sia stato traguardato al 2060 l’obiettivo della parità, la Cina non ha ancora raggiunto il picco di crescita delle emissioni.
Sempre in termini prospettici, per quanto riguarda il fattore demografico, sono state assunte decisioni importanti a favore della natalità per evitare che si concretizzasse la triste profezia secondo cui la Cina sarebbe diventata un Paese vecchio prima di essere riuscito a diventare ricco.
Gli interventi politici di questi ultimi mesi, addirittura eclatanti nel caso del blocco dell’ipo della Ant di Jack Ma, indicano la volontà di evitare che le istituzioni finanziarie tradizionali debbano subire l’ingresso di nuovi concorrenti spregiudicati, in aggiunta al già radicato fenomeno dello shadow banking.
Il settore finanziario è stato messo sotto attenta osservazione, non solo per evitare il ripetersi delle speculazioni di borsa già determinate dal delisting di imprese cinesi quotate negli Usa per beneficiare di un mercato interno assai liquido, ma anche per cercare di anticipare quello sgonfiamento della bolla dei valori azionari con cui prima o poi dovrà confrontarsi anche la Federal Reserve.
Ancora, il lancio ufficiale dello yuan digitale è stato un altro segnale preciso, che ha avuto il duplice scopo di avviare la sperimentazione di una valuta capace di aggiungersi in prospettiva alle transazioni commerciali internazionali ora monopolizzate dal dollaro e di tagliare l’erba alla crescita incontrollata delle criptovalute.
In questi ultimi mesi si è visto un rallentamento anche del credito e delle aste di terreni edificabili, che ha avuto come conseguenza un andamento riflessivo della dinamica del settore delle costruzioni e delle attività produttive connesse, in particolare del ferro, e dei valori immobiliari: «Le case si costruiscono solo per abitarle», è lo slogan del momento, che indica la volontà di stroncare sul nascere ogni fenomeno speculativo. Il colpo di freno va dato assai prima che il settore inizi a sbandare.
La «prosperità condivisa» è divenuto il nuovo obiettivo unificante delle misure di indirizzo e controllo dell’economia cinese per evitare che i modelli di mercato e di competizione economica che ne derivano siano confliggenti con gli obiettivi di coesione sociale.
C’è stato ad esempio un intervento deciso per ridimensionare il settore dell’istruzione privata, che si è sviluppato per la preparazione dei giovani che si accingono a sostenere l’esame di Stato per accedere alle università e, in relazione al punteggio acquisito, ai migliori atenei.
Mentre questo settore dovrà trasformarsi in organizzazioni no-profit, il settore pubblico ha deciso di finanziare in modo assai ampio il sostegno scolare: si cerca di ridurre così l’elevato e crescente costo di mantenimento dei figli cui vanno incontro le famiglie, che disincentiva la politica a favore della natalità che pure è stata intrapresa.
Il sostegno pubblico a favore delle famiglie con prole rischiava infatti di essere più che compensato dall’aumento dei costi per l’istruzione privata.
La stretta sulla privacy, che parimenti viene condotta, ha l’obiettivo di contrastare l’acquisizione e l’uso incontrollato della straordinaria mole di dati acquisibili attraverso le piattaforme digitali e che l’intelligenza artificiale consente di elaborare: la limitazione che viene imposta, subordinando l’acquisizione dei dati biometrici, finanziari e di localizzazione all’espresso consenso dell’utente, e il divieto di vendita nell’ambito di sessioni in streaming di una serie di prodotti, quali medicine, dispositivi-spia o congegni che consentono di barare ai test, serve a evitare le distorsioni sociali e politiche che derivano dallo straordinario successo di cui è protagonista l’industria cinese operante in questi settori.
Infine, c’è una particolare attenzione al tema della concentrazione della ricchezza e delle disuguaglianze: «chi ha di più» è stato esortato a «dare di più a chi ha di meno». Non sono state necessarie altre parole per assistere anche in Europa a una brusca caduta del valore dei titoli legati all’industria del lusso.
Se fino al 2008 era la Cina che guardava con apprensione all’andamento dei mercati esteri, sbocco principale delle sue produzioni, ormai è il mercato interno cinese a fare da driver alle esportazioni mondiali, dai prodotti agricoli alle materie prime ai prodotti di alta gamma. Si accinge a diventare il vero compratore globale di ultima istanza, surclassando definitivamente gli Usa.
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