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29/08/2023

[Contributo al dibattito] - La Guerra dei Trent’anni del XXI Secolo

di Fulvio Bellini

Le similitudini tra la Guerra del Trent’anni e l’attuale scontro dal carattere strategico tra fronte imperialista in crisi e fronte antimperialista in ascesa

Premessa: sono le guerre (purtroppo) che mutano i paradigmi

In questi giorni si sta concretizzando un fatto evidente fin dall’inizio: il velleitarismo della tanto proclamata controffensiva ucraina di primavera. Alcuni osservatori stanno supponendo che si vada incontro ad una fase di negoziazione tra le parti, che sono Stati Uniti e Russia, non certamente l’Ucraina che è uno stato fantoccio, e tanto meno la NATO che è un’organizzazione che coordina le attività dell’esercito imperiale, attualmente quello americano, con le forze armate ausiliarie dei vassalli, come è sempre stato fin dai tempi antichi.

Ovviamente vi è la speranza che questi negoziati inizino presto, ma non è detto che ciò accada e non è detto neppure che il ritorno alla diplomazia chiuda lo stato di ostilità globale, anzi vi sono elementi che giocano in senso contrario come cercherò di spiegare nel presente articolo.

I conflitti militari sono importanti nella storia dell’Uomo perché, fino alla determinazione di nuovi modi di composizione dei conflitti tra le potenze, che indubbiamente l’introduzione dell’arma atomica sollecita, sono le guerre che stabiliscono chi siano i vincitori, i vinti e le regole del gioco a beneficio dei primi.

Quando la premier italiana Giorgia Meloni dichiara pomposamente davanti al Congresso americano il 27 luglio scorso che: “L’Occidente è unito e difende le regole”, intende quelle scaturite dalla Seconda Guerra mondiale, le ultime stabilite e vigenti. Ma di quali regole si parla? Nel 1945 i benefici dei vincitori si tradussero in norme ascrivibili al cosiddetto diritto internazionale il quale, non bisogna mai scordarlo, non ha nulla a che fare con il cosiddetto diritto delle genti (Ius gentium), e tantomeno con criteri di giustizia, che al contrario sono spesso contraddetti: il rapporto tra Stato d’Israele e palestinesi è più che sufficiente per dimostrare questo assunto.

Dagli accordi e dal diritto internazionale discendono poi le istituzioni che hanno il compito di applicare tali regole, sempre nell’esclusivo vantaggio dei vincitori: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, NATO eccetera. Queste regole, però, hanno sempre una durata temporale definita, una sorta di “data di scadenza”, in quanto necessitano di essere riallineate con la realtà dei rapporti di forza tra le potenze, che sono invece mutevoli, in quanto risentono di fattori economici e finanziari.

Scrivere nuove regole perché aderenti alla realtà non è affatto un meccanismo automatico, può avvenire solo attraverso un nuovo conflitto armato per le due seguenti ragioni:
1) l’ultimo vincitore della guerra non ha nessuna intenzione di lasciare la sua posizione dominante in modo pacifico, perché è tale status che gli impedisce di sprofondare nella crisi da lui stesso creata;
2) le potenze che sono destinate a sostituire il dominus imperiale non possono esimersi dal farlo, anche se non lo desiderano ed anche se cercano di convincere la comunità internazionale della loro buona fede.
Nel XXI secolo chi non vuole e, sotto un certo punto di vista, non può lasciare il suo ruolo di potenza imperiale senza reagire sono gli Stati Uniti; chi è costretto suo malgrado ad emergere come nuova potenza mondiale è la Cina: tutti gli altri attori girano intorno a questo meccanismo centrale.

Vi sono poi dei conflitti armati che hanno segnato passaggi epocali perché portatori di cambiamenti irreversibili dei paradigmi religiosi, culturali, economici e sociali. Le invasioni barbariche del V e del VI secolo non hanno solo chiuso la vicenda dell’Impero romano d’occidente, hanno pure sancito la fine dell’evo antico a causa del tramonto del paganesimo a favore del cristianesimo, del sistema schiavistico a favore di quello servile eccetera. Le numerose guerre dell’alto e basso medioevo sono state importanti ma non hanno mutato alcun paradigma, e neppure quelle rinascimentali. Bisogna aspettare l’epoca barocca, e precisamente il 1618, per assistere ad un conflitto che ha profondamente mutato i paradigmi avendo liberato le forze del capitalismo moderno che conosciamo oggi: la Guerra dei Trent’anni. Dopo questo terribile conflitto europeo vi sono stati altri momenti dove i paradigmi sono mutati: sostanzialmente le guerre napoleoniche che hanno sancito l’inizio della scalata della borghesia alla guida dello Stato e la Prima guerra mondiale che ha concluso tale processo. Sempre la Grande Guerra ha poi determinato la nascita di paradigmi alternativi a quelli borghesi, grazie alla miracolosa affermazione di uno stato socialista in Russia. La seconda guerra mondiale non ha mutato nessun paradigma, vi è stata la sostituzione di un centro imperiale, Londra, con un altro: Washington.

Oggi ci dobbiamo porre il seguente quesito: la guerra in Ucraina può mutare i paradigmi? In questo articolo cercherò di dimostrare che la risposta potrebbe essere affermativa.

Se si ammette che quella in corso in Ucraina è una guerra di cambiamento paradigmatico, a quale modello del passato si potrebbe avvicinare? Cercherò di dimostrare che il modello di riferimento è proprio la Guerra dei Trent’anni, non tanto per la durata, che dovrebbe essere inferiore a causa delle superiori capacità distruttive delle armi moderne e dei costi esorbitanti che possono rovinare velocemente uno Stato tributario, quanto per lo scontro tra due diversi sistemi paradigmatici tra loro alternativi ed inconciliabili, scontro che non può essere risolto dalla fine delle ostilità tra Kiev e Mosca. In altre parole, l’improvvida decisione degli USA di scatenare una guerra per procura in Ucraina ha scoperchiato il mitico vaso di pandora, dal quale stanno uscendo conseguenze del tutto inaspettate per gli strateghi di Washington e che li stanno convincendo di non potere più tornare indietro.

Dalla Guerra dei Trent’anni nasce il capitalismo moderno

In estrema e lacunosa sintesi, le istanze delle chiese riformate, è opportuno ricordarlo, erano state enunciate un secolo prima l’inizio della Guerra dei Trent’anni; la confessione augustana, detta anche luterana, venne espressa in maniera compiuta nel 1530 in occasione della Dieta di Augusta, ma Lutero aveva affisso le celebri 95 tesi sul portone della chiesa di Wittenberg già nel 1517. Senza addentrarsi nei precetti teologici, da un punto di vista squisitamente politico la carica rivoluzionaria della riforma luterana risiedeva nella facoltà del cristiano di potere avere un rapporto immediato con Dio, attraverso la lettura e la meditazione delle sacre scritture, e non più mediato dall’ordinamento ecclesiastico che dal Papa discendeva fino ai parroci. Anche l’enorme letteratura teologica prodotta dai padri della chiesa della tarda antichità, dell’alto medioevo fino ad arrivare a San Tommaso d’Acquino veniva “rimandata al mittente”, ritenuta negativa perché tendeva a sostituirsi all’autentica parola di Dio custodita solo nella Bibbia e nei Vangeli. Il contenuto “eversivo” della riforma luterana venne immediatamente intuito da alcuni principi tedeschi, che vi poterono scorgere almeno due importanti opportunità: scrollarsi di dosso l’ingombrante potere dei vescovi cattolici in Germania, tre dei quali erano anche elettori del Sacro Romano Impero fin dai tempi della Bolla d’Oro: arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia; la possibilità di mettere le mani sull’immenso patrimonio che la Chiesa cattolica possedeva nei territori dell’Impero sia sotto forma di proprietà delle diocesi che degli ordini monastici.

I tempi per un cambio di paradigma erano diventati maturi e Paolo Sarpi, negli antefatti della sua Istoria del Concilio tridentino fa intendere che se Martin Lutero non avesse ottenuto la protezione di alcuni principi tedeschi, segnatamente il Duca di Sassonia Federico III, non si sarebbe potuto salvare da scomuniche e condanne di Leone X e di Carlo V, ed avrebbe fatto la medesima fine del suo precursore, Ian Hus, arso vivo a Costanza nel 1415.

Lutero aveva minato i fondamenti della tradizione politica medievale: il potere spirituale del Papa e quello temporale dell’Imperatore, la via era aperta ad altri cambiamenti come quelli descritti nella classica opera di Max Weber “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. In questo importante testo si mette in rilievo la riforma di Giovanni Calvino, la quale ribalta la fondamentale visione anti economicista della tradizione cattolica. Il calvinista non chiede alcuna grazia a Dio, egli è invece devoto per la benevolenza già ricevuta ma a lui ancora sconosciuta; il cammino del credente nel corso della sua vita ha quindi lo scopo di capire, attraverso il successo del suo lavoro, delle sue iniziative, se Dio lo ha gratificato della sua grazia. Il successo, la ricchezza sono quindi segni della benevolenza divina già concessa, e per la quale la riconoscenza si manifesta in chiese sobrie, spoglie ed intime. Lo spirito d’iniziativa prende quindi slancio dalla ricerca della comprensione della grazia divina, e non è un caso che tale credo si sia affermato presso popoli dalle spiccate propensioni commerciali come quello olandese.

Tuttavia il XVI secolo non vede affatto il trionfo della Riforma nei confronti del Cattolicesimo, i protestanti non sono ancora in grado di emanciparsi dal potere di Papi ed Imperatori. Al contrario, la Controriforma fornisce un nuovo bagaglio ideologico al campo imperiale, il quale esercita una decisa stretta sulle “libertà di coscienza e parola” attraverso la tesi dell’infallibilità del Papa, e quindi del potere nelle sue articolazioni pubbliche e private, l’istituzione dell’Indice, dell’Inquisizione eccetera (non viene in mente nulla di attuale?).

L’impero degli Asburgo sul quale il sole non tramontava mai, diviso per ineludibili motivi di gestione tra i due rami della famiglia austriaca e spagnola, non poteva che nutrirsi del Concilio tridentino, e non poteva che cercare di cancellare quello che le chiese riformate avevano conquistato fino a quel momento. Le contraddizioni tra l’Imperatore che non voleva, ed anche non poteva, abbandonare imbelle il suo ruolo di guida del Sacro Romano Impero, ed i principi protestanti che si rendevano conto di non potere più accettare di tornare al passato, soprattutto a causa della volontà dei cattolici di essere risarciti dei beni già confiscati che sarebbe sfociato nell’Editto di restituzione, potevano essere risolti solo da una guerra, che è interessante per noi sotto alcuni aspetti.

Primo aspetto, lo abbiamo visto, scontro di due modi diversi di vedere politica ed economia: da un lato la tradizione medievale dell’Imperatore, del Papa, dei grandi feudatari, dell’economia sostanzialmente rurale dalla quale derivavano la vita da rentièr, grazie ad estese proprietà terriere, di nobili ed ecclesiastici. In questo sistema il vescovo siede al medesimo tavolo del principe e discute con lui di politica. Dall’altro lato, il mondo riformato fatto di principati, città stato e repubbliche liberate dal secolare giogo delle massime istituzioni medievali; in economia è il lavoro, il commercio, l’industria che determinano la conoscenza della grazia divina; la moneta merce acquista dignità morale, le attività finanziarie dei prestiti anche ad usura, l’affermarsi delle borse, delle banche si liberano del giudizio etico negativo che la teologia cattolica aveva dato loro e sotto un certo punto di vista Calvino avvicina Dio alla moneta. In questo sistema il pastore siede al tavolo della servitù ed è ignorato dal principe.

Il secondo aspetto risiede nell’evoluzione della guerra dei Trent’anni in diverse fasi, che vedono l’avvicendarsi di protagonisti diversi: fase boema (1618–1625), fase danese (1625–1629), fase svedese (1630–1635) ed infine fase francese (1635–1648). La Guerra dei Trent’anni è stata quindi un contenitore di diversi conflitti e non sempre senza soluzione di continuità.

Il terzo aspetto è rappresentato dal fatto che insieme ai paradigmi anche la gerarchia delle potenze cambiò in conseguenza degli esiti del conflitto: gli stati che avevano sostenuto le chiese riformate assunsero progressivamente maggiore importanza nello scacchiere europeo e quindi mondiale come la Svezia, nonché le stesse Olanda ed Inghilterra anche se coinvolte marginalmente nel teatro tedesco. Le potenze che si erano legate al partito cattolico, al contrario, iniziarono la loro fase declinante sia pure con tempistiche diverse: immediatamente l’Italia, mediatamente Spagna ed Austria come colonne d’Ercole del dominio asburgico in Europa. Un capitolo a parte riguarda infine la Francia, vera potenza vincitrice della Guerra dei Trent’anni grazie al genio politico di Richelieu.

La Francia, autentico Giano bifronte, da un lato era un paese cattolico, per di più governata successivamente da due cardinali della Chiesa, Richelieu appunto e Mazzarino, dall’altro sostenne decisamente il campo dei protestanti contro gli Asburgo; questa particolare e vincente alchimia politica le diede un indiscusso ruolo preminente nel vecchio continente che durò fino alla battaglia di Waterloo del 1815.

In sintesi, del modello “Guerra dei Trent’anni” in relazione all’odierno conflitto in Ucraina ci interessa verificare se si possano individuare i seguenti elementi: diversi paradigmi che sottendono i due schieramenti; divisione in più fasi di un lungo conflitto; individuazione di una nuova gerarchia delle potenze in relazione ai paradigmi sostenuti.

Le similitudini con la crisi attuale: i paradigmi del “campo americano”

A mio avviso, volenti o nolenti, dopo Cristo siamo tutti cristiani e dopo Marx siamo tutti marxisti. In che senso? Il cristianesimo aveva sconfitto il paganesimo: un caleidoscopio di religioni dove gli Dèi erano sostanzialmente raffigurazioni umane, un sistema di credenze che politicamente generava un’eccessiva vicinanza tra uomini e Dèi, causando seri problemi di legittimità dei poteri regio ed imperiale. Una delle ragioni della crisi dell’impero romano risiedeva nella risibile volontà di uomini, spesso caratterizzati da molti vizi e poche virtù, di pretendere di essere elevati al rango divino solo perché eletti imperatori. Il merito del cristianesimo è stato quello, grazie alla sua teologia evoluta, di restituire a Dio la giusta distanza da tutti gli uomini, sovrani compresi, e di far discendere dalla volontà divina il potere dei monarchi, che cessavano di essere Dèi, ma diventavano “unti del Signore”, quindi legittimati a governare dalla grazia divina nonostante gli stessi numerosi vizi e le poche virtù dei predecessori romani. La religione aveva quindi un posto centrale nella vita politica delle nazioni e dei popoli, lo abbiamo visto nel capitolo precedente.

Dopo Marx siamo tutti marxisti nel senso che l’economia ha sostituito la religione quale elemento di legittimazione del potere. Il modo di produzione, il modo di distribuire la ricchezza tra le diverse classi sociali, la diversa visione del rapporto tra economia e politica sono oggi la “teologia” che giustifica il potere del “sovrano”, scalzando la religione da questo importante ruolo. Se nella Guerra dei Trent’anni il confronto era stato tra due visioni della religione cristiana, nel conflitto ucraino si stanno profilando altrettanti modi diversi di vedere l’economia.

Cominciamo a guardare il “campo imperiale”, che chiameremo propriamente il “campo americano”. Il centro sono gli Stati Uniti, gli stati vassalli sono quelli europei, il Giappone, la Corea del Sud, e grazie all’alleanza con la Gran Bretagna, anche Australia e Nuova Zelanda. Quali sono i paradigmi difesi dagli “americani”? Innanzitutto la concezione della moneta come strumento di dominio e solo successivamente come mezzo di scambio, misura di valore e riserva di valore. Le monete del “campo americano” non solo sono inconvertibili con l’oro e con qualsiasi altro metallo nobile, ma sono espressioni di paesi estremamente indebitati, quindi soggetti ad una smodata produzione di moneta nelle sue tre aggregazioni.

In questo campo, infatti, militano paesi tra i maggiori debitori del mondo, limitandosi ai soli conti pubblici: Stati Uniti d’America (32.555 miliardi di dollari), Giappone (13.537 miliardi); Germania, Francia, Gran Bretagna ed Italia raccolti in una forbice che va dai 2.556 miliardi ai 3.042 miliardi di dollari. I raffronti con il valore del PIL delle relative economie sono del tutto risibili in quanto non vi è nessuna volontà di restituire un solo dollaro, e tanto meno d’invertire il trend dell’indebitamento, vuoi per la crisi pandemica del biennio 2020-2021, vuoi per la guerra in Ucraina del successivo anno e mezzo. Se un paese non è in grado di restituire i debiti contratti dovrebbe essere in default, innanzitutto gli Stati Uniti, ma se quest’ultimi esercitano il controllo diretto sugli organismi internazionali di regolazione come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, ecco che il problema non si pone più: il paese più indebitato è “padrone” delle istituzioni che “aiutano” gli Stati morosi. Non è solo questo: grazie alla smodata produzione della sua carta moneta, gli USA sono indirettamente in grado di finanziare i debiti di altri paesi che invece, loro sì, sono tenuti a restituire quanto prestato oppure di dichiarare bancarotta: stiamo parlando, ad esempio, del rapporto triangolare che lega Stati Uniti, FMI ed Argentina. Quando un paese finisce in questo “triangolo delle Bermude”, non solo viene saccheggiato dal punto di vista economico, ma viene anche privato della sua indipendenza, e la sua politica estera viene dettata da Washington, la quale, in una sorta di gioco beffardo, è a capo di una nazione ben più insolvente.

Un altro paradigma del “campo americano”, che discende dal primo, è rappresentato dalla totale finanziarizzazione della sua economia. L’elevata presenza di denaro disgiunto da logiche economiche ha determinato l’affermarsi di banche d’affari, Edge Found, società d’investimento private che dispongono di enormi capitali liquidi e che si pongono come intermediari anche nei rapporti politici dentro e fuori gli Stati. Seguendo l’esempio triangolare che abbiamo visto precedentemente, vediamo una nuova relazione tra Stati Uniti, società d’investimento private ed Ucraina, come ci riferisce Wall Street Italia del 20 giugno scorso: “BlackRock e JP Morgan a supporto della ricostruzione dell’Ucraina”. La forte interconnessione tra finanza privata ed amministrazioni USA, caratterizzata da un continuo travaso di personale apicale tra le due sponde in un clamoroso conflitto d’interessi che nessuno mette mai in adeguato rilievo, permette a queste società di sostituirsi anche alle istituzioni finanziarie nate dalla seconda guerra mondiale. Il paradigma occidentale di creare soldi dai soldi attraverso l’aumento dell’indebitamento pubblico, ha come contraltare la deindustrializzazione attraverso i classici meccanismi di prelievo di valore da parte delle proprietà finanziarizzate nei confronti dell’apparato produttivo: dirottamento di quote maggiori di ricavi a favore del mercato borsistico e speculativo; depotenziamento di ricerca e sviluppo dei prodotti; abbattimento dei costi a deterioramento della qualità della produzione; compressione di salari e stipendi; delocalizzazione delle attività in aree a minore costo complessivo. Il processo di finanziarizzazione e privatizzazione dell’economia non riguarda solo la produzione di beni, anche di primaria necessità, ma investe sempre maggiori settori dei servizi specialmente se di origine pubblica: autostrade, telecomunicazioni, sanità, servizi sociali. Le regole applicate sono le medesime sopra descritte e non ha nessuna importanza se si tratta di pagare un pedaggio per passare su un Ponte Morandi a pochi minuti dal suo crollo per incuria; oppure se pagare privatamente, solo chi se lo può permettere, una prestazione sanitaria urgente che altrimenti vede mesi di liste d’attesa; oppure ancora abbandonare le città alla speculazione edilizia ed alla bolla degli affitti in modo da espellere aliquote sempre maggiori di cittadini che non sono in grado di pagare pigioni salate oppure mutui dai tassi variabili proibitivi. Tutto questo non deriva dall’azione della misteriosa mano del mercato, come avrebbe detto il non compianto Cesare Romiti, ma è frutto di una precisa dottrina che è figlia di un’altrettanto pervasiva ideologia: il neoliberismo.

Nel “campo americano” i cosiddetti diritti personali, che sono quelli della borghesia, non debbono avere tendenzialmente limiti, e non possono trovare ostacoli nei diritti di una comunità. Il limite alla volontà del borghese di soddisfare il proprio bisogno e più spesso il proprio capriccio, deriva dalla sola capacità di spesa di colui che declina il desiderio in un diritto, anche quando si tratta di affittare oppure acquistare a titolo definitivo parti del corpo di altre persone che, secondo l’ideologia occidentale, debbono essere libere di potersi vendere sul mercato, e non ha nessuna importanza se tale libertà è solo un’ipocrita maschera che nasconde il puro bisogno di chi affitta oppure vende parti del proprio organismo: “Maternità surrogata, corsa delle coppie in Ucraina prima del “reato universale”, La Repubblica del 9 giugno scorso; oppure “Traffico di esseri umani, così i profughi in fuga dall’Ucraina rischiano di finire nella rete dei trafficanti... La tratta degli esseri umani è la schiavitù del mondo contemporaneo e da quando la Russia ha invaso l’Ucraina si teme per i profughi in fuga dal conflitto. Ha diverse vesti: prostituzione e lavori forzati, condizioni di servitù domestica, obbligo a commettere crimini. E poi c’è il traffico di bambini o di organi”, Il Fatto Quotidiano del 19 aprile 2022.

In conclusione, i paradigmi del campo americano sono: polarizzazione economica tra i sempre più ricchi, ma in sempre in minor numero, ed i poveri in perenne aumento quantitativo e “qualitativo”; privatizzazione di ogni aspetto della vita sociale; finanziarizzazione di tutte le attività economiche. Vi è poi da registrare un mutamento dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa che, al di là dei paradigmi enunciati, ha reso ancora più gerarchico il rapporto tra metropoli imperiale e provincie. La crisi strutturale del dollaro e di conseguenza degli USA spinge Washington a pretendere esosi e continui tributi da provincie imperiali sempre più impoverite. Tali tributi assumono poi diverse forme a seconda della causale sottesa: ad esempio maggiori acquisti di armi americane, che i membri europei della NATO sono tenuti a porre in essere per far fronte allo stato di guerra “per procura” contro la Russia; per poterle pagare, i membri UE devono ovviamente tagliare la spesa sociale e gli investimenti per fare spazio alla percentuale di PIL necessaria da devolvere al complesso militare industriale USA. Un’altra forma di tributo che Washington pretende è una conseguenza della dollarizzazione dell’economia europea, ed in questo caso l’aggio imperiale funziona in due modi: da un lato impone all’industria europea maggiori costi derivanti dai prezzi di materie prime ed energia dettati dai mercati controllati dal dollaro; dall’altro rende gli Stati Uniti appetibili per accogliere aziende europee che vogliono delocalizzare per arginare l’aumento dei costi determinati dagli USA stessi. La deindustrializzazione della zona Euro e le derivanti crisi economiche e sociali avranno delle conseguenze rilevanti per il futuro di queste nazioni, vediamole sotto forma di causa – effetto. L’aumento del disavanzo delle bilance commerciale e dei pagamenti rende i deficit sempre maggiori anche a causa dalla diminuzione tendenziale del gettito fiscale, dovuto al paradigma del “campo americano” che prevede di spostare il peso fiscale sempre di più sulle spalle degli strati poveri della popolazione, ad esempio inasprendo la tassazione indiretta oppure aumentando la platea di servizi pubblici sottoposti a ticket. I profitti, e spesso gli extra profitti delle Corporation, soprattutto se americane, godono invece di benefici fiscali dovuti, ad esempio, a sedi legali e fiscali diverse dal luogo dove si produce la ricchezza, a complessi meccanismi d’elusione grazie alla compiacenza della autorità nazionali e della UE e via di questo passo. I deficit annuali sempre più elevati aumenteranno il debito complessivo, consegnando gli stati europei nelle mani di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, con funzioni di supervisione anche delle attività della BCE piuttosto che delle banche centrali nazionali, sul modello della Troika che si è palesata in occasione della crisi greca del 2015.

A questo punto il gioco è fatto: paesi deindustrializzati, indebitati, agitati da tensioni sociali anche violente vengono privati di ogni residuo di sovranità, pronti per essere lanciati in uno scenario di Terza guerra mondiale, dovendo cercare di recuperare in oriente quello che gli Stati Uniti tolgono loro in occidente. L’Italia è già arrivata a questo punto ma non basta; la volontà di guerra alla Russia di paesi come Polonia e Repubbliche baltiche non sono ancora sufficienti; occorre che paesi importanti come Germania e Francia giungano al medesimo punto di crisi in modo da formare una coalizione ampia e militarmente valida per attaccare la Russia, considerando poi che gli USA terrebbero un profilo simile a quello attuale rispetto all’Ucraina, mandando al massacro le provincie europee contro la Russia, e magari quelle asiatiche contro la Cina nelle fasi successive della Guerra dei Trent’anni del XXI secolo.

Le similitudini con la crisi attuale: i paradigmi del “campo dei BRICS”

Abbiamo visto gli imperiali, ovvero gli americani ed i loro vassalli, vediamo ora i paradigmi dei protestanti, ovvero del “campo dei BRICS”. Va premesso che far coincidere i “protestanti” con i BRICS è una semplificazione che va presa con la massima cautela, fatta con evidenti scopi didascalici ma ben consci dei suoi limiti. Il comune denominatore di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è l’interesse nazionale che propende maggiormente nel perseguire e sviluppare la cooperazione BRICS rispetto ad un rapporto con gli Stati Uniti; questi paesi possiedono inoltre un grado di sovranità, sia pure in diversa misura, sufficiente per perseguire una politica estera in grado di “protestare” contro il potere imperiale americano. Vi sono poi paesi che possono essere ascritti al “campo BRICS”, pur non facendone formalmente parte, sempre per le due ragioni sopra evidenziate.

A differenza del “campo americano”, dove il rapporto tra i membri è quello classico che si instaura tra una metropoli imperiale e le sue provincie, quello dei BRICS è un’associazione di nazioni tra loro indipendenti e con un grado diverso di impermeabilità alla potente influenza di Washington. Vi sono membri impermeabili come Cina e Russia, vi sono componenti parzialmente permeabili come Brasile ed India, e vi è infine il Sud Africa che, oltre alla permeabilità all’influenza americana che non sembra irresistibile, deve gestire quella maggiore della Gran Bretagna a causa della presenza delle due importanti minoranze bianche di origine inglese ed olandese ed i loro legami culturali e d’interesse con l’Occidente. Inoltre Pretoria deve destreggiarsi nei rapporti interni al Commonwealth of Nations in misura maggiore rispetto all’India che invece non ha nessuna minoranza bianca sulla quale Londra possa fare leva. Come accennato, vi sono poi altri paesi che militerebbero volentieri nel “campo BRICS”, e che a volte lo fanno intendere, come ad esempio: Iran, Turchia ed Arabia Saudita.

Ma quali sono i paradigmi dei “BRICS” così differenti da rendere necessario un lungo confronto anche militare? Partiamo sempre dal cuore del problema e dalla madre di tutti i conflitti: la crisi del dollaro inconvertibile. Nel “campo dei BRICS” sta maturando l’idea di non utilizzare più il biglietto verde per le transazioni commerciali, ma di usare le valute nazionali a seconda dei paesi con i quali si debbono regolare i conti della Bilancia commerciale: siamo già nel campo del “casus belli” per gli Stati Uniti. Ma non è finita qui: per regolare i conti più complessi della Bilancia dei pagamenti i BRICS stanno realizzando proprie istituzioni finanziarie internazionali indipendenti da FMI e Banca Mondiale, come la Nuova Banca di Sviluppo presieduta dall’ex presidente brasiliana Dilma Rousseff e per gli americani è ancora peggio. Le brutte notizie per Washington proseguono: i paesi euroasiatici e BRICS stanno facendo incetta di oro come ci informa, ad esempio, The Post del 10 gennaio 2023: “BRICS undermine dollar hegemony with gold purchases”. Per un motivo opposto a quello degli Stati Uniti, anche i BRICS possono usare la moneta come arma, la quale, a differenza del dollaro che ha bisogno della minaccia militare per essere accettata, è sufficiente che esista per causare danni incalcolabili al biglietto verde ed alla economia del “campo imperiale”. Se i BRICS decidessero, come sembra vogliano fare, di creare una moneta comune convertibile in oro, tornando ad una sorta di Gold Exchange Standard, è assai probabile che il dollaro evaporerebbe in una iper inflazione a doppia cifra simile, se non peggiore, a quella che colpì il Papier Mark tedesco nel 1923. Da un punto di vista paradigmatico, i BRICS riconducono la moneta alle sue funzioni tradizionali: mezzo di scambio per acquisto di beni e servizi, unità di conto per attribuire prezzi, riserva di valore per il risparmio. Ricondurre la belva moneta nel suo recinto vuol dire che le economie dei BRICS non sono propense alla finanziarizzazione per le caratteristiche di grandi paesi produttori di materie prime e dotati di un comparto manifatturiero sviluppato.

Nel campo dei BRICS le attività di banca commerciale e di banca d’affari sono decisamente divise, al contrario del campo americano dove le seconde sfruttano parassitariamente le prime. La presenza di uno Stato comunista a tutti gli effetti, la Cina, e di un altro che è stato il primo paese socialista nella storia dell’umanità, la Russia, possono velocemente orientare l’organizzazione dei BRICS in forma di “Capitalismo di Stato”, anche sviluppato. In Cina il Piano Quinquennale è una realtà avente forza di legge ed è in grado di coordinare a sé altre forme di organizzazioni economiche tendenzialmente pianificate; in Russia la cultura del Piano viene da lontano, dal 1928 quando fu adottato per la prima volta, e questo strumento di programmazione è stato usato per i successivi sessant’anni. Le economie in via di sviluppo degli altri componenti del “campo BRICS”, possono essere diretti verso forme di Capitalismo di Stato ed organizzazione pianificata in forma evoluta. Essere portatori di questi paradigmi significa, però, che la politica prevale sull’economia, che gli interessi collettivi condizionano quelli individuali. Nel “campo BRICS” anche e soprattutto per il notevole numero di abitanti, il diritto della comunità prevale rispetto a quello del singolo, e questo comporta che il diritto ad un lavoro dignitoso, all’accesso universale alla sanità, all’istruzione, alla politica della casa deve riguardare tutta la popolazione rientrando quindi nella sfera di responsabilità e di azione dello Stato. L’economista americano Michael Hudson parla di “socialismo con caratteristiche eurasiatiche” e lo descrive nel seguente modo: “Certo, ci sarà un’economia mista. Naturalmente ci sarà l’impresa privata. Naturalmente ci sarà la proprietà individuale, ma sarà soggetta a vincoli sociali in modo che le fortune che vengono fatte da qualche privato non saranno ottenute a spese del resto della società... È necessario coordinare i settori pubblico e privato. Invece come in America e in Europa, dove l’obiettivo del settore privato è quello di prendere il controllo del governo per privatizzare e svendere il dominio pubblico... Bisogna evitare la ricerca di rendita economica, la ricerca di rendita immobiliare e la ricerca di rendita monopolistica. Quei settori della finanza, della proprietà terriera, della ricerca e sviluppo, della salute pubblica, appartengono al dominio pubblico, non privatizzati”.

Le similitudini con la crisi attuale: la guerra a fasi

Il leninismo, ancora di più del marxismo, porta in sé la terribile regola di guardare in faccia alla realtà senza cessioni ai propri desideri, alle proprie speranze, alle proprie convinzioni. Solo una chiara ed obiettiva capacità d’analisi può far comprendere gli avvenimenti attuali e cercare di prevedere con un margine d’errore accettabile le tendenze future; in altre parole il leninismo è esattamente il contrario della propaganda. Se applichiamo i princìpi leninisti a quanto ci siamo detti fino ad ora ne derivano le seguenti conclusioni:
- i paradigmi dei due campi sono tra loro inconciliabili;
- gli Stati Uniti si trovano ampiamente in uno stato di “casus belli” a causa del rischio sempre più concreto che il dollaro venga utilizzato sempre di meno;
- il minor utilizzo del biglietto verde ne causa il rischio di evaporazione in una incontrollata iper inflazione;
- l’élite americana si sta orientando verso la decisione di disfarsi del dollaro, considerato ormai una moneta zombi, cioè moneta morta ma ancora vivente;
- l’unico modo pensato per disfarsi del dollaro è attraverso una guerra mondiale anche nucleare;
- la necessità americana di un conflitto su larghissima scala è però contrastato dal “campo BRICS”, che è composto da nazioni militarmente in grado di tenere testa agli USA ed ai suoi vassalli.

L’élite americana sta quindi valutando se il costo in termini di possibile devastazione degli Stati Uniti è compatibile con la prosecuzione del suo attuale potere, oppure se vi sia il rischio di un’implosione economica, sociale e politica tale da disgregare l’Unione in uno scenario simile a quello della guerra di secessione del 1861. Per ora la valutazione è ancora negativa, quindi gli Stati Uniti sono propensi ad adottare una strategia di guerra prolungata a più fasi, simile a quella della guerra dei Trent’anni, appunto.

Abbiamo sotto gli occhi la “fase ucraina” che sta volgendo al suo termine. In questo stadio gli attori sul campo sono stati solo Russia ed Ucraina, mentre gli altri componenti dei due campi si sono mossi alle spalle dei contendenti. Nella fase boema della guerra dei Trent’anni, il campo imperiale era già organizzato e, ad esempio, in occasione della battaglia della Montagna Bianca del 1620, la Lega Cattolica (la NATO di allora), fu in grado di mobilitare tutte le sue forze, mentre il campo protestante era rappresentato solo da boemi e dal Palatinato, assenti gli altri principi protestanti. Nel febbraio 2022 la NATO era già schierata compatta a sostegno del proprio delegato sul campo di battaglia, l’Ucraina, mentre la Russia, gravata dall’onere di dover iniziare formalmente l’azione militare, per potere radunare il proprio campo intorno a sé, ha avuto bisogno di tutto l’anno. Tuttavia nel 2022 il campo dei protestanti si è organizzato ed ha conseguito una prima vittoria non militare: le due strategie americane tese a far collassare l’economia russa ed a provocare l’isolamento diplomatico di Mosca, necessario per provocare la caduta di Vladimir Putin, sono entrambe fallite. È rimasta la sola opzione militare di cui abbiamo parlato in premessa, ma è ormai ammesso anche dagli americani che le possibilità per Kiev di vincere la guerra sono assai ridotte: “Leaked Pentagon documents suggest US is pessimistic Ukraine can quickly end war against Russia” afferma la CNN del 12 aprile scorso, e come dice il proverbio “a buon intenditore poche parole”.

La progressiva coscienza della probabile sconfitta del regime di Kiev induce gli americani a chiudere la fase ucraina del conflitto ed aprirne una nuova con attori diversi che verrebbero ad affiancare prima e rimpiazzare poi l’esausto esercito ucraino: potrebbe essere la fase polacca con l’aiuto di una Coalition of the willing, rigorosamente fuori dall’ambito NATO. La consistenza della coalizione dei volenterosi dipenderebbe poi dal potere coercitivo degli USA nei confronti dei singoli volontari: bulgari, rumeni, slovacchi sembrano i predestinati dell’est europeo, l’Italia la più votata in quello ovest. Ma sulla predizione di fasi future è opportuno fermarsi subito per non scadere nella cabala. Invece va indagato un dato preoccupante sulla durata del conflitto, che forse non è così distante da un concetto pluridecennale.

Il punto è individuare il teatro del confronto e se possibile circoscriverlo. La Guerra dei Trent’anni si svolse soprattutto in Germania e nei territori ereditari della Casa d’Austria perché erano i luoghi dove si fronteggiavano i cattolici coi protestanti. Se il conflitto odierno dovesse seguire le medesime regole dovrebbe estendersi nell’area dove si confrontano neo-liberismo e socialismo dalle caratteristiche euroasiatiche, ovviamente semplificando concetti più complessi. Teoricamente si parla del continente euro-asiatico, non solo la Russia ma anche la Cina, caratterizzati da fronti apribili da parte degli Stati Uniti in Europa orientale, Medio Oriente, Mar della Cina. Tuttavia nei BRICS vi è anche il Brasile, quindi l’America Latina potrebbe essere un teatro di guerra futuro, ed in Africa vi è il Sud Africa, causa di un altro possibile teatro. Tra l’altro, il continente nero sta rispondendo in modo positivo alle sollecitazioni che vengono da Mosca in occasione del vertice tra Russia ed Africa tenutosi a San Pietroburgo lo scorso 27 luglio: “Vladimir Putin promette grano gratis all’Africa e accusa l’Occidente... La Russia è pronta a sostituire il grano ucraino in Africa, soprattutto sullo sfondo di raccolti record», ha spiegato Putin, secondo cui «la quota della Russia nel mercato mondiale del grano è del 20%, quella dell’Ucraina è inferiore al 5%. Ciò significa che è la Russia che contribuisce in modo significativo alla sicurezza alimentare globale... I Paesi occidentali ostacolano la fornitura di cereali e fertilizzanti e accusano ipocritamente la Federazione Russa della crisi alimentare globale».”, Il Tempo del 27 luglio.

Gli scenari possibili sono vasti, ed il tempo necessario per portarli ad uno stadio operativo sono tutt’altro che rapidi, questa considerazione potrebbe aggiungersi a quelle precedenti a supporto della tesi di un lungo conflitto diviso in fasi successive.

Similitudini con la crisi attuale: la nuova gerarchia delle nazioni

Abbiamo accennato che alla fine della Guerra dei Trent’anni le nazioni che si erano legate alle chiese riformate iniziarono la loro fase ascendente, mentre quelle che erano rimaste fedeli alla chiesa cattolica la loro fase discendente. Il tremendo conflitto in Germania, occorre ribadirlo, permise di riscrivere le regole politiche che riallineavano i rapporti internazionali alla realtà economica e finanziaria già esistente nel vecchio continente, questa riscrittura fu la pace di Westfalia. Nello scenario attuale Michael Hudson parla correttamente, per il campo dei “protestanti”, di economia mista, di proprietà private che si debbono rapportare al pubblico in via subordinata, realtà economiche già presenti, seppur in diverso grado, in tutti i paesi BRICS. Quello che Hudson definisce “socialismo con caratteristiche eurasiatiche” tuttavia oggi è distinguibile solo in Cina, e solo un esito positivo della Guerra dei Trent’anni del XXI secolo potrebbe estenderlo a tutto il campo dei “protestanti” in un processo in divenire. Al contrario, nel campo americano il neo-liberismo è già affermato in tutti i suoi componenti, avendo espresso la sua attrattività negli anni Novanta dello scorso secolo, all’interno dell’euforia della Fine della Storia, a seguito del crollo del Muro di Berlino. Oggi il neo-liberismo esprime solo tendenze regressive ed è pervaso da una sinistra forma di nichilismo causata dall’inarrestabile processo di concentrazione di enormi ricchezze fittizie in pochissime mani. Da questo particolare nichilismo dei signori di Wall Street e della City di Londra potrebbe scaturire la decisione di precipitare il pianeta nell’olocausto nucleare, anche perché sono consci che il mutamento della gerarchia delle nazioni è già in atto. Non giungono notizie di paesi che smaniano di entrare nel G7, al contrario sono gli occidentali che invitano indiani e brasiliani all’ultimo summit in Giappone nella speranza di esercitare pressioni utili ad incrinare i rapporti interni ai BRICS, sperando di sfruttare quella permeabilità della quale si accennava prima; al contrario, ci sono 19 gli stati che formalmente oppure informalmente hanno chiesto di entrare a far parte dei BRICS.

Queste considerazioni, e ben altre con dovizia d’informazioni al massimo livello, vengono fatte in tutte le cancellerie, anche quelle soggette al giogo americano come la francese e la tedesca ma che hanno comunque ben chiaro che l’interesse nazionale stia andando in senso contrario alla politica estera espressa dai vari Macron e Scholz (l’Italia sembra non pervenuta, persa ormai nel suo delirio di servilismo).

A mio avviso Parigi e Berlino si rendono perfettamente conto di trovarsi di fronte ad una scelta: accettare la sollecitazione americana d’intraprendere una guerra convenzionale contro la Russia, e magari contro suoi nuovi alleati (Bielorussia, Iran?), tentare l’avventura di riguadagnare in quei paesi quello che gli americani esigono come tributo in occidente; oppure cambiare di campo tra una fase e l’altra del conflitto come fece la Sassonia nella Guerra dei Trent’anni, complice disordini dinastici di quello stato. Quello che invece sembra non più possibile è rimanere nell’attuale stallo: tributari dell’esosa metropoli imperiale e vittime della perdita dei grandi spazi commerciali cinese e russo.

Resta un’ultima considerazione che per ora non ha riscontro, ma che potrebbe averlo. Abbiamo detto che alla fine il grande vincitore della Guerra dei Trent’anni fu la Francia, la quale beneficiò dell’essere essere rimasta uno stato cattolico, ma di aver saputo lucrare sull’affermazione dei paesi protestanti ai danni di Vienna. Chi potrebbe essere la Francia di oggi? Quale paese occupa una posizione di guida della NATO, primo alleato degli USA, e contemporaneamente siede nel Commonwealth con India e Sud Africa? Suggerirei di osservare la Gran Bretagna sotto quest’ottica perché potrebbe essere la strategia che risolleva Londra dalle difficoltà del dopo Brexit.

La contraddizione tra realtà economica e finanziaria del mondo e le sue regole scritte nel 1945 è giunta ad un grado d’intensità difficilmente gestibile, vedremo se il modello “Guerra dei Trent’anni”, ovviamente non l’unica possibile, sarà quella probabile.

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