“Domani mattina alle 6.00 fatti trovare pronto”. Questo è, al massimo, quello che alcuni corrispondenti da Gaza per importanti testate internazionali (Reuters, Associated Press, CNN, New York Times) si saranno sentiti dire alla vigilia del 7 ottobre.
Una volta che il raid palestinese oltre il muro di confine tra Gaza e Israele è partito hanno seguito i loro contatti e si sono ritrovati sul campo, in particolare all’ex inespugnabile valico di Eretz, e poi nei kibbutz presi d’assalto dai combattenti palestinesi.
Le foto che hanno messo in circolazione sono quelle dei carri armati “espugnati” e di miliziani che entrano nelle comunità, non quelle di uccisioni di civili israeliani.
Adesso quei corrispondenti palestinesi di queste quattro testate internazionali vengono accusati di essere stati “complici” delle uccisioni di civili israeliani il 7 ottobre, secondo una campagna di disinformazione decisamente infame da molti punti di vista. Vediamo perché.
In primo luogo c’è la “fonte” di questa campagna di criminalizzazione dei giornalisti sul campo. Si tratta di una vera e propria fogna ultrasionista: il sito Honest Reporting, praticamente un ossimoro.
Il suo corrispettivo in Italia è il sito ultrasionista Informazione Corretta, visibilmente gestito da un gruppo di “fomentati” che, al solo leggerli, si rischia di diventare anti-israeliani per tutta la vita.
Honest Reporting, così come il suo corrispettivo italiano, non è un sito di news o di informazione, ma è un vero e proprio apparato di intervento/linciaggio israeliano in materia di informazione, dedicato a delegittimare ogni articolo o commento critico verso Israele.
Lo spiegano sul loro stesso sito: “La missione di HonestReporting è quella di garantire la verità, l’integrità e l’equità, e di combattere i pregiudizi ideologici nel giornalismo e nei media, così come hanno un impatto su Israele”. Pretese da fact checker, insomma, ma dichiaratamente a senso unico.
Una “fonte non credibile” non può rendere credibile, fin dalla partenza, una campagna di informazione/disinformazione.
In secondo luogo questa campagna di criminalizzazione dei reporter sul campo (palestinesi in questo caso) ha l’obiettivo di delegittimare ogni corrispondente che non si limiti a passare le veline delle Idf, cioè delle Forze Armate Israeliane.
Osservate come nei lanci di agenzie, nei Tg o negli articoli venga sempre specificato che sono “Forze di Difesa Israeliane” e non forze armate, e di come ogni volta che si cita Hamas venga aggiunto sempre che è il responsabile dell’eccidio del 7 ottobre.
Gli israeliani “vengono uccisi”, mentre i palestinesi “sono morti”. I palestinesi vengono filmati solo come disperati ma mai come combattenti. In questi giorni di scontri durissimi ne avete mai visto uno?
È meglio – per qualcuno – diffondere le immagini di un popolo dolorante e sconfitto che quelle di un popolo che sa anche resistere.
Sfumature, ma che fanno la differenza nell’impatto che hanno sull’opinione pubblica.
Ragion per cui nei mass media vanno diffuse solo le versioni, le immagini e il linguaggio stabilito dagli apparati israeliani, che su questo godono di una decennale esperienza e influenza.
Terzo e ultimo elemento. È vergognoso definire “embedded” (cioè giornalisti a seguito di truppe) i corrispondenti palestinesi delle testate internazionali. Soprattutto se detto da redazioni, telegiornali e giornali che intorno a Gaza sono arruolati in mezzo alle truppe israeliane e raccontano o filmano solo quello che i militari israeliani gli consentono.
Se i giornalisti palestinesi delle quattro testate internazionali vengono ritenuti “complici dei terroristi”, occorrerebbe affermare che anche chi lavora a seguito delle truppe di Tel Aviv è “complice del terrorismo di Stato” israeliano.
La scusa spesso ripetuta è che a Gaza i giornalisti occidentali non possono entrare, omettendo di ricordare che oltre al valico di Eretz in Israele c’è anche quello di Rafah in Egitto e magari da lì ci si può provare.
Ma è naturalmente molto rischioso. Perciò molte testate hanno assunto come corrispondenti giornalisti palestinesi che vivono (o vivevano visto che ne hanno già ammazzati 39 in un mese) nella Striscia di Gaza.
Una guerra raccontata solo dai terrazzi o dalle strade di Tel Aviv, o degli accampamenti dei soldati israeliani, ha ben poco di completezza informativa. Così come lo erano ben poco le corrispondenze al seguito delle truppe statunitensi in Iraq o Afghanistan, che hanno poi regalato carriere fulminanti ad alcune/i giornaliste/i della Rai.
Anche sulla guerra in Ucraina, del resto, ci hanno abituato a vedere corrispondenti che devono stare sul lato ucraino e da lì descrivere il conflitto.
I pochi corrispondenti sul lato russo, per quanto potessero provare ad essere “neutrali”, sono stati silenziati, ignorati, criminalizzati – anche lì – come “complici”; ricordiamo il caso clamoroso del corrispondente Rai da Mosca, Marc Innaro.
Infine, ma non per importanza, vogliamo ribadire che in tempi di guerra non esiste – o almeno non riteniamo esista – una informazione “obiettiva”. Al massimo ci può stare una informazione onesta, ma sicuramente non nel nome abusato che si è dato il sito israeliano che sta cercando di delegittimare i corrispondenti palestinesi sul campo.
Non certo per “onestà”, ma solo per imporre l’egemonia della comunicazione israeliana su tutti i mass media.
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