La guerra e il suo costante intreccio con le dinamiche economiche che spesso la determinano. Dall’Ucraina a Gaza. Esistono condizioni economiche per la pace? Un tema di scottante attualità. L’Unità ne discute con Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio, esponente delle cosiddette scuole di pensiero economico critico e protagonista di numerosi dibattiti a due con esponenti di vertice dell’accademia e delle istituzioni internazionali, dal premio Nobel Vernon Smith all’ex capo economista del FMI Olivier Blanchard. Brancaccio è anche autore di un libro recente dal titolo La guerra capitalista, pubblicato da Mimesis…
Professor Brancaccio, Lei è stato promotore dell’appello internazionale “The economic conditions for the peace” pubblicato sul Financial Times, Le Monde ed Econopoly del Sole 24 Ore. Le chiedo: di fronte alla guerra a Gaza, come s’innestano le considerazioni che sostanziano l’appello?
Dall’Ucraina al Medio Oriente, le guerre moderne vengono quasi sempre interpretate come conflitti di natura religiosa, etnica, ideale, ma questo è un modo ingenuo di valutarle. In realtà, gli scontri in atto sono alimentati da forze sotterranee molto più potenti, di matrice essenzialmente economica. La nuova esplosione di violenze tra Israele e Gaza e le ripercussioni sullo scacchiere internazionale non fanno eccezione.
Quali sono queste forze economiche generatrici di guerra?
Per individuarle bisogna allargare lo sguardo. Il fattore di propagazione delle attuali tensioni belliche sta nei problemi di competitività e di debito estero dell’economia americana, che hanno portato alla grande svolta degli Stati Uniti verso una forma nuova di protezionismo, unilaterale e molto aggressiva.
La famigerata dottrina “America First” iniziata con Trump...
Trump l’ha sbandierata ai quattro venti ma i dati indicano che sottotraccia era cominciata già sotto Obama dopo la grande recessione del 2008, ed è proseguita pure con Biden. Il punto è che da diversi anni gli americani importano troppo ed esportano poco, e così accumulano un debito record verso l’estero. Per cercare di frenare questa tendenza, stanno innalzando barriere protezionistiche sempre più alte e selettive, in campo sia commerciale che finanziario. È una chiusura per certi versi inedita, che chiamano “friend shoring”. Vuol dire che ora gli americani intendono fare affari solo con gli “amici” occidentali e con i loro sodali, mentre vogliono ridurre ai minimi termini i rapporti economici con i “nemici”: vale a dire la Cina e altri esportatori orientali, e in piccola parte anche la Russia, che nel tempo hanno accumulato un bel po’ di debito americano.
A cosa serve questo protezionismo?
In ultima istanza, a evitare che i cinesi e gli altri creditori d’oriente utilizzino i loro attivi non più solo per prestare denaro ma anche per acquisire pacchetti di controllo di aziende americane. Per dirla in termini marxiani, c’è il rischio di una nuova “centralizzazione del capitale” a livello internazionale, questa volta in mani orientali. Il protezionismo USA serve a bloccarla.
Quali reazioni ha suscitato la svolta protezionista americana?
Ovviamente, i paesi creditori con cui per decenni gli Stati Uniti si sono indebitati e che invece oggi vengono qualificati come “nemici” e buttati fuori dal giro di affari, non l’hanno presa affatto bene.
Al punto da alimentare le tensioni militari a livello mondiale?
Sì. Alimentare o appoggiare, per vie dirette o indirette. La nostra tesi di fondo è che la feroce competizione economica moderna, con gli enormi squilibri internazionali che genera, per infiniti rivoli può sempre sfociare in scontri militari. Parafrasando Clausewitz, potremmo arrivare a dire che in fin dei conti la guerra è prosecuzione del capitalismo con altri mezzi. Del resto, è accaduto già in passato che le grandi contese economiche diventassero militari: la letteratura sulle determinanti materiali dei conflitti mondiali del Novecento è vasta. Pensiamo al debito estero dell’impero britannico in declino, alla vigilia della grande guerra. O pensiamo all’irrisolta questione dei debiti di guerra della Germania, nell’intermezzo tra i due conflitti mondiali. La Storia è cosa complessa e non si ripete, ma le analogie tra allora e oggi non mancano. Basti notare uno dei modi in cui le diplomazie internazionali, da Lavrov a Wang Yi, hanno interpretato la guerra in Ucraina: uno spartiacque storico, che potrebbe anche essere inteso come una verifica sulla tenuta del nuovo ordine protezionista americano.
In un suo recente articolo sul sito del Sole 24Ore, ha sostenuto che la questione palestinese indebolisce il progetto americano di friend shoring. Perché?
La strategia protezionista mira a costruire un blocco di “amici” costituito dagli Stati Uniti, dall’UE, dagli altri paesi occidentali e dai loro sodali, sostanzialmente slegato dal blocco dei “nemici” a guida cinese. Uno dei problemi è che il blocco occidentale non è autosufficiente dal punto di vista dell’energia e delle materie prime. Per risolvere questa difficoltà, gli Stati Uniti stanno portando avanti i cosiddetti “accordi di Abramo” e una serie di patti similari. L’obiettivo è “normalizzare” le relazioni tra Israele e alcuni grandi paesi arabi e africani a maggioranza musulmana, produttori di combustibili fossili e risorse naturali: in primo luogo Bahrein ed Emirati Arabi, ma anche Arabia Saudita, Marocco, Sudan e altri. La “normalizzazione” con Israele si rende necessaria affinché questi paesi possano essere stabilmente collocati nel blocco occidentale del friend shoring, in modo da fornirgli tutta l’energia di cui avrà bisogno. C’è tuttavia un grosso limite, in questi accordi: hanno lasciato totalmente in sospeso la questione palestinese. È un po’ come se qualcuno avesse “dimenticato” una bomba sotto il tavolo delle trattative.
Le nuove tensioni in Palestina potrebbero determinare una crisi di tutto il progetto del friend shoring?
Di sicuro c’è chi scommette in questo senso. Il governo cinese ha sostenuto che la nuova esplosione di violenze tra Israele e Gaza rappresenta un indice di instabilità non solo degli accordi di Abramo ma anche dell’IMEEC, il corridoio tra India, Medio Oriente ed Europa, che gli americani sponsorizzano come sentiero commerciale alternativo alla nuova via della seta cinese. Per Pechino, il ritorno alla ribalta della questione palestinese è l’ennesimo indizio che tutta la strategia protezionista americana del friend shoring si sta rivelando insostenibile. Ovviamente, è ancora presto per dire se questa profezia cinese sarà confermata o smentita dai fatti. Ma sottovalutarla sarebbe un errore.
Nel vostro appello sostenete che per interrompere questa grande spirale di guerra, dall’Ucraina al Medio Oriente, non basta invocare tregue né basta affrontare le questioni puramente territoriali, ma bisogna avviare una trattativa sulle grandi contraddizioni economiche mondiali.
La storia insegna che nelle trattative di pace i tavoli sulle contese territoriali sono sempre i più visibili, ma i tavoli sulle dispute economiche spesso si rivelano quelli decisivi. Vale anche per la situazione attuale. Per creare adeguate “condizioni economiche per la pace” occorre in primo luogo che gli americani facciano un passo indietro rispetto al progetto protezionista del friend shoring, unilaterale e aggressivo. Al tempo stesso, è necessario che i cinesi accettino un piano di regolazione, politica e non di mercato, dell’enorme credito che hanno accumulato verso gli Stati Uniti. Se si vuole davvero scongiurare un allargamento delle tensioni belliche nel mondo, bisogna iniziare a sciogliere questi due nodi cruciali.
In questo scenario che definire esplosivo è un eufemismo, cosa fa l’Unione europea?
Dal punto di vista economico, mentre gli Stati Uniti sono indebitati e quindi per loro il protezionismo non è del tutto illogico, l’UE si trova in una posizione di attivo verso l’estero, il che le consentirebbe di smarcarsi più agevolmente dalla logica guerrafondaia degli “amici” e dei “nemici”. Eppure, fino a questo momento, sul friend shoring l’Europa è stata quasi sempre subalterna alla linea americana. Quanto alle violenze tra Hamas e Israele, i paesi europei sono arrivati a votare in modi completamente diversi sulla risoluzione ONU per una tregua umanitaria: al momento, praticamente l’UE non esiste.
E cosa fa l’Italia? Una certa pubblicistica politico-editoriale definisce “brillanti” gli attuali indirizzi di politica estera del governo italiano. Lei che ne pensa?
Questo film “brillante” non l’ho visto, deve essermi sfuggito. Piuttosto, al Palazzo di vetro ho assistito al triste spettacolo di una Meloni imbarazzante: balbettava improbabili giustificazioni sull’astensione dell’Italia alla risoluzione ONU per la tregua, che invece Francia, Spagna e molti altri hanno approvato. La verità è che da qualche anno assistiamo a una preoccupante deviazione nella linea di politica estera dell’Italia: che un tempo riusciva a moderare l’atlantismo con una continua opera di mediazione verso i paesi non allineati a Washington, e oggi invece sembra incredibilmente appiattita sulle posizioni più estremiste in seno alla NATO. Questo scivolamento verso posizioni guerrafondaie è preoccupante anche per ragioni economiche. Il nostro paese è sempre stato un importante crocevia del commercio mondiale, inclusi i corridoi tra est e ovest. Avremmo un fortissimo interesse a riposizionarci sulla vecchia linea della moderazione e della diplomazia. Ma per adesso a Palazzo Chigi preferiscono mettere l’elmetto e non pensare.
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