Il 4 novembre arriva in Ucraina la capa della Commissione europea, l’euroatlantista Ursula von der Leyen. Scopo ufficiale della visita – ne sono convinti a Kiev – sarebbe quello di recapitare «notizie positive per l’Ucraina», in particolare, riguardo l’adesione del paese alla UE.
O, quantomeno, a leggere strana.news, questo è ciò di cui è convinto Aleksei Goncharenko, membro della delegazione ucraina all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.
Ma è possibile escludere che la teutonica guerrafondaia non rechi anche altre notizie, non altrettanto “positive” dal punto di vista dei nazigolpisti di Kiev?
Ad esempio, citando le solite “fonti anonime”, l’americana NBC parla di alti funzionari USA e UE che discutono (il verbo non tragga in inganno: se «così dove si puote…» hanno deciso qualcosa, hanno anche i mezzi per imporre la decisione) con esponenti ucraini la possibilità di colloqui di pace tra Kiev e Mosca.
Vero è che, specifica il canale, al momento la discussione riveste carattere appena generale, riguardando quali potrebbero essere i “sacrifici” di Kiev a conclusione del conflitto.
In ogni caso è un fatto, osserva Anna-news.info, che si sono fatte più frequenti le pressioni occidentali per spingere Kiev alle trattative con Mosca, specialmente dopo il vicolo cieco in cui è finita la famosa “controffensiva” ucraina.
Più di un paese occidentale si è pronunciato sulle difficoltà a un ulteriore sostegno al regime di Zelenskij e si parla addirittura di fine 2023, come termine dopo il quale Kiev dovrà in ogni caso sedersi al tavolo delle trattative.
Anche «Alti funzionari dell’Amministrazione Biden» nota NBC, «sono preoccupati del fatto che l’Ucraina stia esaurendo le proprie risorse, mentre sembra che la Russia disponga di riserve inesauribili».
A questo proposito, nelle settimane scorse Kiev ha annunciato un inasprimento dei criteri di mobilitazione, con l’inclusione di categorie di cittadini finora qualificati come «non completamente idonei al servizio».
Le risorse ucraine sono infatti al limite: ne sono consapevoli, anche se non tutti, sia a Kiev, sia a Washington. E se il Pentagono intende giocare la carta del trasferimento della produzione di armi «nei paesi amici», qualcun altro, in USA, si dice preoccupato da tale passo.
È il caso di Responsible Statecraft, il periodico online del Quincy Institute. Lo scorso ottobre rappresentanti di oltre trenta paesi si erano infatti riuniti a Kiev per il Forum internazionale sulle armi e in quell’occasione Vladimir Zelenskij aveva annunciato la creazione di una nuova “Alleanza dell’industria della difesa”, formata da 59 imprese di 23 paesi che avrebbe lo scopo di difendere l’Ucraina e «qualsiasi altro paese nel mondo dalle aggressioni».
Ancora Anna-news.info suppone che tale “Alleanza” debba aiutare Kiev a dislocare la produzione di armi sul territorio ucraino.
Su questo punto, però, Responsible Statecraft afferma con preoccupazione che il Dipartimento della difesa USA non dovrebbe lasciare il processo di trasferimento in mano agli appaltatori militari: questi possono aumentare i prezzi a loro piacimento, in modo che il Pentagono riempia le tasche degli azionisti.
La produzione congiunta, continua il periodico yankee, implica il trasferimento di tecnologia militare, oltre che la cura per l’efficienza e la redditività dell’impresa ed è dubbio che ciò sia opportuno nel caso di un paese in guerra.
Lasciando Responsible Statecraft ai propri dubbi, che comunque non sembra scaturiscano da preoccupazioni “pacifiste”, la questione dell’ulteriore armamento della Kiev majdanista sta sollevando dibattiti nella stessa Ucraina.
Su Ukraina.ru, Sergej Zuev osserva che esperti, politici e persino militari ucraini accennano sempre più spesso alla illusorietà di una vittoria nel conflitto e arrivano a ipotizzare uno stop della “controffensiva”, se non addirittura una tregua, quantunque la posizione ufficiale di Kiev sia di segno opposto, con Zelenskij convinto del ritorno alle frontiere del 1991.
Hanno ormai fatto il giro del mondo le esternazioni del Capo di Stato maggiore ucraino Valerij Zalužnyj a The Economist sul vicolo cieco in cui sono finite al fronte le forze ucraine. «Per uscire da questa impasse», afferma Zalužnyj, c’è bisogno di «qualcosa di nuovo, come la polvere da sparo, che i cinesi hanno inventato e che noi usiamo tutt’oggi per ucciderci a vicenda».
A suo dire, la vittoria di Kiev potrebbe esser data sia da un qualche grosso progresso tecnologico – ma «non ci sono segnali» in questo senso – sia da una superiorità nei principali tipi di armi: ma anche in questo, Kiev non può vantare alcunché, a differenza di Mosca che, a dispetto delle sanzioni, è in grado di mantenere a lungo la propria superiorità in armi e attrezzature, missili e munizioni.
Ora, nota Ukraina.ru, Zalužnyj non dice apertamente che si debba terminare l’offensiva, ma tale conclusione, stando a quanto scrive Strana.ru, scaturisce logicamente dalle sue parole: «la guerra è arrivata a un vicolo cieco e per uscirne è necessaria una svolta tecnologica colossale». Che non ci sarà.
In generale, però, né a Kiev né in Occidente ci sono segnali diretti verso un congelamento del conflitto. E invece, nella società ucraina, si domanda Zuev, ci sono tali segnali?
A parere del filosofo Andrej Datsjuk, oggi nessuno è ancora pronto all’emergere di sempre più aree “illegali” di sviluppo, comprese tecnologia ed economia: ad esempio intelligenza artificiale e sviluppo genetico. E parte fondante di questo processo sono il divieto di pensare e il divieto di ricerca umanistica imposti dalla «élite mondiale nel suo insieme» avverte Datsjuk, con l’obiettivo di «ridurre la popolazione mondiale».
E in questo processo, secondo Datsjuk, il posto dell’Ucraina è quello di «essere cadaveri, essere un banco di prova, essere distrutti», così che tutta l’energia sociale del paese «può essere diretta solo nella direzione della cultura e della lingua – punto... e non può essere utilizzata né per risultati ingegneristici, né per risultati scientifici, né per invenzioni».
Paradossalmente, afferma il filosofo, l’idea nazionalista e la questione se lo Stato ucraino possa avere un proprio notebook sono legate: «sembrerebbe che nessuno ne vieti la creazione, ma non c’è abbastanza libertà per dotarsi dell’intero insieme di competenze necessarie per la produzione di un proprio notebook».
Si arriva al punto: la scoperta della «polvere da sparo» auspicata da Zalužnyj, si infrange sulla constatazione di Datsjuk che l’Ucraina majdanista non dispone oggi «di una propria missilistica, costruzione navale, carri armati... Perché?».
Eppure, quel nazionalista e collaborazionista di Stepan Bandera «non ha mai scritto che non dobbiamo avere nostri missili...» lamenta il filosofo ucraino, ma vien fuori che «non appena poniamo l’autoritarismo linguistico e culturale come impostazione di base, quelle persone che vogliono la libertà – intellettuali, ingegneri, inventori, scienziati, ricercatori, ecc. – per qualche motivo non vogliono lavorare».
In trent’anni, quelli che sono gli eredi di tecnologie uniche a livello mondiale, hanno perso tutto e, continua Datsjuk, oggi «l’idea nazionale ucraina è quella di chiudere il paese come in un collegio, quello della UE, affidando a Bruxelles tutte le questioni vitali e continuando a vivere in povertà, ma “con una visione europea”». Von der Leyen viene apposta a Kiev per ribadirlo.
Dunque, afferma Datsjuk – che non dà segno di mettere in discussione il corso nazigolpista del 2014 e tantomeno la svolta “democratica” del 1991, dopo la quale le principali industrie ucraine, a partire proprio da quella aeronautica, all’avanguardia dell’intera URSS, sono state ridotte in macerie – «perché sia possibile la costruzione di carri armati e missili ... abbiamo bisogno di motivazioni più ampie». A lui scorgerne i segnali nella Kiev ostaggio dei nazigolpisti.
E, conclude sconsolato il politologo Vadim Karasev, «dove sono i nostri sputnik? Dov’è finita la nostra “Južmaš”, che realizzava tecnologia missilistica e spaziale e altri prodotti high-tech? È stato tutto distrutto, saccheggiato, calpestato».
Ma poi anche lui non vede altra soluzione che la possibilità di «ricreare qualcosa da soli o in collaborazione con l’Occidente». Allo scopo, insieme a von der Leyen, vengono a Kiev anche i “manager” del complesso militare-industriale euroatlantico, Italia compresa.
La strada che, iniziata dai nazionalisti reazionari e antibolscevichi ucraini a fine ‘800, ripresa negli anni ’30 dai banderisti fattisi poi collaborazionisti nazisti e continuata dai timidi approcci dei “rimpatriati” ucraini negli anni ’50, aveva quindi condotto al 1991 e, “conseguentemente”, al 2014, è dunque la stessa strada che invocano oggi “filosofi”, “politologi” di Kiev.
Ma qual è la strada che vuole il popolo ucraino?
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