Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

05/02/2024

Stati Uniti e Cina allo scontro globale, l'epilogo

di Raffaele Sciortino

"Pubblichiamo il capitolo di aggiornamento al volume di Raffaele Sciortino "Stati Uniti e Cina allo scontro globale", redatto nello scorso settembre per l'edizione inglese del libro che uscirà per Brill il prossimo aprile."

Questo capitolo, che aggiungiamo alla traduzione dell’edizione originale uscita nell’ottobre del 2022, mira a dar conto sinteticamente delle principali novità (relative) che si sono date nell’ultimo anno. Ne risulta confermata, crediamo, la tendenza alla disconnessione USA-Cina e alla riconfigurazione del mercato mondiale (in senso marxiano) ma ancora al di qua di quelle precipitazioni drammatiche che possono portare a una sua vera e propria frammentazione attraverso crisi economiche, sociali e geopolitiche senza ritorno. La globalizzazione, così, sempre meno vale come cornice data dell’accumulazione mondiale, e sempre più come terreno di aspra competizione che dal livello dei singoli capitali trascresce a quello tra stati nazionali nel quadro della contrapposizione di fondo tra Occidente imperialista e Cina.

Inizieremo dalla principale novità: il cambio di passo impresso da Washington alla strategia del decoupling anti-cinese, sullo sfondo delle crescenti difficoltà statunitensi e occidentali nello scenario di guerra ucraino. Ne rintracceremo i primi effetti evidenti sulla dinamica già ben delineata di rallentamento generale della globalizzazione. Concluderemo con alcune osservazioni sulla risposta cinese, che a fronte dell’acuirsi dello scontro con gli Stati Uniti sta mostrando una continuità di linea strategica, e sulle prospettive di un’economia mondiale segnata dall’incertezza ma non (ancora) in recessione generale. Il che contribuisce a dar corpo a quella che abbiamo definito una sfida “riformista” sui generis all’ordine internazionale egemonizzato da Washington.

1. Il decoupling cambia passo

Come abbiamo visto, il passaggio dall’amministrazione Trump a quella Biden ha dato vita a un affinamento della strategia di decoupling (“selettivo”). Questa nell’ultimo anno ha decisamente svoltato verso misure di controllo tecnologico, commerciale e finanziario più restrittive nei confronti di Pechino, accompagnandosi però al lancio di una politica industriale (cosiddetta Bidenomics) con ingenti investimenti mirati a rafforzare il sistema tecnologico di impresa anche sul fronte interno.[1] Vediamo i passaggi principali.

Nell’agosto ’22 viene varato il Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors (Chips) and Science Act che punta a rafforzare le catene di fornitura della manifattura statunitense nei settori di punta attraverso investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica. 52,7 miliardi di dollari sono previsti per il solo settore dei semiconduttori, in particolare crediti di imposta per nuovi investimenti nel segmento foundry, così da coprire il divario di costi rispetto ai produttori asiatici.[2] Inoltre, questi incentivi vengono condizionati all’obbligo per le imprese beneficiarie di non investire in paesi a rischio per la sicurezza nazionale (leggi: Cina).

Sempre dell’agosto ’22 è l’Inflation Reduction Act (IRA), formalmente finalizzato a incentivare investimenti “verdi” sulla base di crediti fiscali sino a 369 miliardi di dollari. In realtà, si tratta di sussidi di stampo protezionistico per la produzione manifatturiera ed energetica statunitense, in particolare per veicoli elettrici, pannelli solari e batterie – segmenti nei quali la Cina ha notevoli vantaggi di costi – in grado di attirare investimenti industriali dal resto del mondo (non a caso ha sollevato lamentele anche da parte europea).

L’escalation più eclatante è quella dell’ottobre 2022 con l’entrata in vigore – per iniziativa dell’Ufficio per l’industria e la sicurezza (BIS: Bureau of Industry and Security), costola del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti – del blocco delle esportazioni dei semiconduttori più avanzati necessari per i supercomputer e l’IA e il divieto di vendere a società cinesi del segmento delle cosiddette fonderie i macchinari utili per la produzione di chip con litografie inferiori ai 14 nanometri. In più, sulla base del Foreign Direct Product Rule varato da Trump contro la Huawei, il divieto si estende a tutte le società straniere che fanno uso di tecnologia statunitense.[3] Da molti la mossa è considerata una vera e propria dichiarazione di guerra economica (declaration of economic war).[4]

Infine, un ordine esecutivo del presidente Biden del 9 agosto 2023 restringe rigidamente gli investimenti di venture capitale e private equity statunitensi in Cina nei tre settori dei semiconduttori, dei computer quantistici e dell’intelligenza artificiale.[5]

Soprattutto queste ultime misure, relative all’intera filiera dei semiconduttori, hanno dovuto fare i conti con le resistenze dei paesi alleati direttamente coinvolti. Ci sono voluti mesi di pressioni da parte di Washington per convincere Paesi Bassi, sede della ASML, e Giappone, sede della Tokyo Electron – produttori chiave nei segmenti alti della filiera (two critical producer nations in the semiconductor supply chain) – ad aderire alle restrizioni anti-cinesi sulla base di un’alleanza multilaterale formalizzata nel maggio ‘23.[6] Maggiori le resistenze della Corea del Sud – già colpita dall’Ira Act nella produzione di veicoli elettrici – essendo per Samsung e Sk Hynix il mercato cinese difficilmente sostituibile: l’amministrazione Biden ha così concesso un anno di proroga, oltre il quale però difficilmente si andrà.[7]

In definitiva le mosse di Biden hanno sposato le tesi restrizioniste di contro alle remore ancora presenti in parte dell’establishment economico statunitense sulle conseguenze negative di una guerra tecnologica anti-cinese. Rimane l’obiettivo di restringere e possibilmente bloccare l’innovazione cinese, ma gli strumenti si fanno più duri.[8] Il rebranding della strategia come “de- risking” (based on diversifying and deepening partnerships) suona più che altro come un artificio retorico e non può cancellare il crescente consenso nelle sfere politiche statunitense sulla priorità oramai attribuita alla “sicurezza nazionale”.[9] Il “new Washington consensus” lanciato dal consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan prevede sì il friendshoring – il tentativo di trasferire parte delle catene di fornitura dalla Cina ai paesi “amici” (friendshoring of supply chains to a large number of trusted countries) – ma alle condizioni dettate da una politica industriale di protezione del primato tecnologico statunitense da difendere con la politica “small yard and high fence”[10] e da accordi commerciali “non tradizionali” che non intendono aprire ulteriormente il mercato interno.[11] La politica estera per la middle class esige il suo pegno anche dagli alleati.

Da ultimo, a segnalare di fatto l’inizio della campagna elettorale per le presidenziali del 2024 in cui la questione Cina sarà uno dei temi centrali, si è aggiunta da parte dell’amministrazione Biden una nuova narrativa sulla crisi economica incombente sulla Cina, se non già scoppiata, che costituirebbe una bomba a orologeria nel cuore dell'economia mondiale e, secondo Biden, quando le persone cattive hanno problemi, fanno cose cattive, “When bad folks have problems, they do bad things”.[12]

2. Ricadute globali

Quanto agli effetti del cambio di passo statunitense si può in linea generale condividere questa valutazione: “Chiunque si aspetti che il friendshoring si traduca in un rapido e decisivo sganciamento dell’economia statunitense dalla Cina troverà ben poco nei dati dell’anno scorso che indichino questo risultato”, “Anyone expecting friendshoring to result in a quick and decisive uncoupling of the US economy from China will find little in the past year’s data pointing toward that result”.[13] Anche se non vanno sottovalutati né l’impatto cumulativo, che si manifesterà col tempo, né il significato politico.

I dati sull’interscambio commerciale USA-Cina evidenziano solo in parte l’accentuato trend di decoupling. Dopo i dati di forte incremento del 2021, come abbiamo visto, anche nel 2022 il commercio bilaterale è cresciuto per il terzo anno consecutivo verso il massimo storico così come il surplus commerciale cinese ($382.9 billion). Del resto in linea con il deficit della bilancia dei pagamenti USA che ha continuato ad allargarsi. Nella prima metà del ’23, invece, l’interscambio ha iniziato a diminuire, anche se non drasticamente, così come l’interdipendenza commerciale dei due paesi[14].
Fonte: Calcoli del segretariato UNCTAD basati su dati nazionali di Cina e Stati Uniti.

Nota: la dipendenza delle esportazioni cinesi dagli Stati Uniti è calcolata come le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sul totale delle esportazioni cinesi. La dipendenza dalle importazioni degli Stati Uniti dalla Cina è calcolata come le importazioni degli Stati Uniti verso la Cina sul totale delle importazioni degli Stati Uniti. L’interdipendenza commerciale complessiva è calcolata come il commercio bilaterale (importazioni+esportazioni) di Stati Uniti e Cina sulla somma del commercio totale dei due paesi
.

Permane tuttora una notevole dipendenza statunitense dalle catene di fornitura cinesi, in particolare in settori come la componentistica e i beni di consumo elettronici, le batterie per veicoli elettrici e altri dispositivi “green”, e in parte per alcuni minerali critici.[15] Ma si accumulano i segnali di una ridefinizione dei flussi commerciali secondo linee geopolitiche, anche se il ritmo non pare ancora serrato.

Più significativo il dato relativo agli investimenti diretti esteri statunitensi. Su questo piano si è data una ripresa dei flussi a partire dal 2022, dopo il calo dei due anni precedenti, sia verso che dagli Stati Uniti. In questo quadro si delinea il crescente protagonismo di Washington con investimenti all’estero in friendshoring, soprattutto verso Messico[16], Vietnam e Asia meridionale, oltreché in Europa, a discapito della Cina. Ma anche una ripresa verso gli Stati Uniti, soprattutto dall’Europa, sicuramente legata ai nuovi sussidi federali e a iniziative di reshoring nel campo della manifattura dei chip e delle tecnologie “pulite”. In particolare, sono significativi gli annunciati investimenti per gli impianti di TSMC in Arizona e un impianto di Samsung in Texas. Di conseguenza, stanno diminuendo gli investimenti esteri reciproci tra USA e Cina.
Fonte: The Economist, Piano americano per controllare gli investimenti in Cina, 22 giugno 2023

A livello di catene globali del valore esistenti, resta comunque la centralità degli hub cinesi, non facilmente aggirabili sul breve-medio termine. Ciò vale, per esempio, per la regione coperta dai paesi Asean, una delle più dinamiche al mondo, dove la competizione sino-statunitense è diventata più aspra – come abbiamo visto a proposito dell’accordo commerciale intra-asiatico RCEP e dell’iniziativa dell’Indo-Pacifico. Nonostante gli sforzi anti-cinesi dell’amministrazione Biden, i paesi di questa regione hanno visto negli ultimi anni stringersi i rapporti economici con Pechino come fonte principale dell’import e dell’export sia per i beni finali che per componenti intermedie.[17] Ma ciò vale in parte per la stessa produzione dei microchip. Non solo Washington è ancora lontana dal poter coprire il segmento faundry, avendo solo iniziato a stanziare fondi per gli impianti e la manodopera specializzata. Non solo è impossibile oramai per qualunque paese abbracciare internamente l’intera filiera per i costi insostenibili. Ma dal decoupling dal mercato cinese le compagnie statunitensi nel segmento alto potrebbero subire significative perdite che ne comprometterebbero la competitività mondiale e i fondi per la ricerca. Mentre è difficile che Pechino possa essere completamente emarginata, potrebbe anzi recuperare terreno, ben al di là delle scarse possibilità di ritorsioni commerciali.[18] Tutto ciò è dimostrato plasticamente, per fare due esempi importanti, sia dalle difficoltà di Apple a separarsi dai fornitori e dal mercato cinesi[19], sia dal recupero di Huawei – il cui nuovo smartphone contiene un chip avanzato progettato e prodotto interamente in Cina[20] – dopo le durissime sanzioni comminate dall’amministrazione Trump.

Inoltre, come accennavamo, tutto indica che Washington spingerà sempre più anche gli alleati verso un decoupling duro nei confronti della Cina. Ma senza poter nei fatti compensare le loro sicure perdite sul mercato cinese con incentivi reali, tanto più a fronte del crescente protezionismo industriale statunitense. Il che in prospettiva rende meno solido il fronte anti-cinese e – a meno di una chiara coercizione economica da parte di Washington – dovrebbe portare questi paesi a diversificare piuttosto che a sostituire del tutto la Cina.[21]

Tutto ciò risulta evidente se ci volgiamo al quadro complessivo della globalizzazione. Prosegue e anzi si accentua la slowbalization. Lo si vede innanzitutto a livello di commercio mondiale. Dopo il rimbalzo del 2021, i dati complessivi per il 2022 hanno mostrato un rallentamento della crescita (2,7% annuo, ma con brusco calo nell’ultimo trimestre) a causa principalmente delle perduranti restrizioni anti-covid in Cina e delle tensioni geopolitiche tra Washington e Pechino.[22] Il rallentamento si è accentuato nei primi tre trimestri del 2023, dopo un inizio anno di ripresa grazie alla fine delle misure anti-covid cinesi. Le previsioni delle istituzioni internazionali prevedono una crescita anemica per il resto del 2023 e per tutto il 2024, anche al di sotto delle medie già basse registrate dopo la crisi finanziaria globale. Contestualmente, a partire dalla fine del 2022 – anche a seguito delle misure dell’amministrazione Biden – si è incrementata la prossimità geografica del commercio internazionale (nearshoring) insieme alla prossimità politica (friendshoring) nel quadro di una generale diversificazione delle fonti di approvvigionamento – ciò che non si era dato in maniera significativa tra il 2021 e buona parte dell’anno successivo.[23]

A livello di investimenti diretti all'estero (IDE) – più di un terzo del commercio mondiale e componente qualitativa fondamentale dello stock di capitale mondiale – il 2022 ha visto un rallentamento in termini assoluti (-12%, per 1,3 trilioni di dollari) ma su un 2021 in forte ripresa dopo lo choc pandemico (1,6 trilioni, ma pur sempre sotto i livelli del 2015, i più alti del post-GFC).[24] Anche se con una crescita degli investimenti greenfield (nuovi impianti) rispetto alle ingenti operazioni di fusione e acquisizione avutesi in Occidente l’anno precedente. Le multinazionali occidentali hanno totalizzato i due terzi del totale dei flussi in uscita con una netta ripresa degli Stati Uniti (quasi tre volte rispetto a Giappone e Cina, seconda e terza rispettivamente) e un evidente calo nell’esportazione di capitali europei (con la Germania a -13%). Il 2023 sarà con ogni probabilità di crescita ancora più debole se, come pare, risulterà confermato il trend del primo trimestre (-25% a livello globale sull’anno precedente). Mentre continuano ad aumentare le misure di restrizione degli investimenti da parte occidentale. Di conseguenza, anche sul piano degli investimenti esteri, vediamo i primi passi della tendenza a una loro concentrazione all’interno di paesi tra di loro politicamente allineati. Come suggerisce l’IMF: “Sta per verificarsi uno spostamento dei flussi di capitale transfrontalieri”, “a shift in cross-border capital flows is about to take place”.[25] Ne sta risentendo in particolare la Cina, che pure nel 2022 è rimasta il secondo beneficiario globale dietro gli Stati Uniti ma con un numero di progettati nuovi investimenti in calo rispetto al pre-pandemia, e con una diminuzione degli investimenti all’estero del 18% (il livello più basso dal 2011). Il trend è confermato dai dati finora disponibili per il 2023: calo generale del 2,7% dei flussi in entrata, tornati al livello del 2020 in piena crisi pandemica e dimezzati rispetto al 2019; acquisizioni cinesi di compagnie estere diminuite a causa delle restrizioni occidentali.[26] Questo mentre il resto dell’Asia conferma il primato per flussi di capitali in entrata.

Da un lato, è la conferma del processo in atto di diversificazione e ristrutturazione delle catene di fornitura globali a potenziale danno della Cina. D’altro lato, la centralità cinese nelle catene di fornitura globali – e dunque il flusso di investimenti in entrata – già da un pezzo non è più basata sul basso costo del lavoro, bensì in misura crescente su capacità produttive e sulla qualificazione della forza-lavoro incrementate dall’innovazione continua, su una funzionale rete logistica, sull’intreccio di attività manifatturiere e servizi differenziati.[27] Lo dimostra, ad esempio, la scalata cinese nella produzione mondiale di veicoli elettrici.[28] Ma anche il fatto che Pechino ha acquisito un ruolo dominante nell’esportazione di beni intermedi – oramai la metà dell’export complessivo – in alcuni segmenti importanti del mercato globale. E ha incrementato decisamente la parte di valore aggiunto interno di contro a quello estero (ancora prevalente, però, nell’industria dei semiconduttori, come abbiamo visto) nella partecipazione alle catene globali del valore.[29] In queste, dunque, il posizionamento cinese si colloca sempre più nei segmenti medio-alti, a valle piuttosto che a monte. Per questa ragione la Cina continua ad attrarre investimenti, seppur in misura minore del passato, e sempre più nei servizi e in ricerca e sviluppo. Senza dimenticare che una parte non indifferente degli spostamenti di investimenti nei paesi Asean riguarda capitali cinesi che a loro volta delocalizzano (anche per aggirare le restrizioni statunitensi).

Ciò ha due risvolti importanti. Primo, la risalita cinese nelle catene del valore implica la possibilità di costi notevoli per i paesi e le multinazionali che dovessero diversificare radicalmente la propria produzione via dalla Cina, per la dipendenza dai beni intermedi cinesi e/o laddove sussistano legami economici forti (come per Germania, Giappone e Corea del Sud).[30] Anche per questo, in secondo luogo, al momento è sì in corso una certa riconfigurazione delle catene del valore, ma laddove si sta dando essa va più nel senso della strategia “Cina + uno” che non di un decoupling vero e proprio. La Cina, sia come fornitrice di componenti sia come mercato di vendita, non viene sostituita del tutto ma diventa una parte della catena, per altri versi diversificata sia a scala regionale che globale. La catena tende così a trasformarsi in una rete, con quali costi e conseguenze è ancora presto per dire.[31]

In questo quadro, l’azione di Washington inizia dunque a sortire degli effetti visibili sul piano della riconfigurazione del mercato mondiale. Ma, più che poter bloccare del tutto Pechino, essa sembra servire a prendere tempo al fine di rafforzare il primato tecnologico mondiale, la struttura produttiva interna e l’egemonia geopolitica. Ma non è questo il solo piano della disconnessione in atto.

3. Disconnessioni geopolitiche

Le crescenti difficoltà dell’imperialismo statunitense a mantenere il controllo economico della Cina devono riversarsi sul piano geopolitico come espressione concentrata delle contraddizioni dell’accumulazione capitalistica mondiale. Al momento due restano i teatri di maggiore tensione: l’Asia Orientale con Taiwan, dove la contrapposizione tra i due stati è pressoché diretta; il conflitto ucraino, nel quale la Cina gioca un ruolo indiretto ma importante.

Nel primo scenario non si registrano clamorose novità. Quanto alla questione taiwanese, dopo il provocatorio viaggio a Taipei della leader del Partito Democratico Nancy Pelosi nell’agosto 2022, possiamo registrare, sempre a livello di provocazioni statunitensi di natura politica, la decisione di Biden di inviare armi nell’isola sulla base di un programma previsto solo per aiuti militari a stati sovrani e l’idea espressa da qualche congressista statunitense di far saltare le fabbriche di semiconduttori dell’isola nel caso di attacco cinese.[32] Strettamente legato a ciò, l’incremento previsto della presenza militare statunitense nell’area grazie a un accordo con Filippine e Papua Nuova Guinea.[33]

Di maggiore portata in prospettiva, forse, il vertice di Camp David dell’agosto 2023 tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, che ha evidenziato l’intento di Washington di procedere verso una Nato asiatica anti-cinese, che potrebbe passare per l’adesione dei due paesi asiatici, tra di loro storicamente avversi, al blocco militare AUKUS. Al momento, sono stati decisi un “impegno a consultarsi” reciprocamente in caso di crisi; nuovi patti di condivisione dell’intelligence; un piano per tenere esercitazioni militari annuali,  “commitment to consult” one another when crises arise; a new intelligence-sharing pacts; a plan to hold annual military exercises.[34] A ciò si aggiunge un vago impegno di cooperazione in tema di catene di fornitura, vago per la contrarietà statunitense a qualunque accordo commerciale di apertura ulteriore del mercato interno. Non va dimenticato che l’export sudcoreano verso la Cina, per quanto in calo a causa delle misure coercitive di Washington, resta fondamentale e che il quadro politico interno sudcoreano è assai diffidente nei confronti del Giappone.

Ma è il teatro ucraino che al momento riveste maggiore importanza – oltre che per Mosca e Kiev – non solo per gli Stati Uniti ma anche, seppur indirettamente, per la Cina che sarà investita in misura importante dall’evoluzione dell’equazione globale di potenza che risulterà dall’esito della guerra. A un anno e mezzo dallo scoppio del conflitto i fumi della martellante propaganda occidentale hanno iniziato a diradarsi almeno nella misura sufficiente a confermare alcune ipotesi (peraltro non originali) già avanzate in questo volume.

Innanzitutto, come ha dichiarato anche recentemente il segretario della Nato Stoltenberg, “la guerra non è iniziata nel febbraio dello scorso anno. È iniziata nel 2014”. E poi: “Il presidente Putin dichiarò nell’autunno 2021, e ci inviò una bozza di trattato che loro volevano la Nato firmasse promettendo di non allargarsi più. È quanto ci inviarono. Ed era una precondizione per non invadere l’Ucraina. Ovviamente non abbiamo firmato... dunque, Putin è entrato in guerra per evitare che la Nato, che la Nato allargata, arrivasse ai suoi confini”.[35] Abbiamo qui la conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, sia della postura aggressiva della Nato (allargamento) sia di quella che abbiamo chiamato la “trappola ucraina”. In secondo luogo, è oramai di pubblico dominio che all’indomani dell’inizio del conflitto Kiev e Mosca stavano portando avanti un negoziato su un documento concordato, negoziato dal quale Zelensky dovette ritirarsi per le pressioni anglo-americane. In terzo luogo, dagli esiti del vertice Nato di Vilnius del luglio 2023, che ha rimandato l’adesione dell’Ucraina all’organizzazione atlantica a data da destinarsi per evitare uno scontro bellico diretto con Mosca, è risultato evidente che per Washington l’Ucraina è e deve rimanere un terreno di battaglia dai bassi costi e dagli alti benefici, e che gli ucraini sono nient’altro che carne da cannone. Lo dimostra la stessa controffensiva ucraina iniziata a giugno, sanguinosissima per Kiev e fin qui fallita nei suoi obiettivi.[36] Essa è stata non solo imposta da Washington per motivi politici (in particolare, l’esigenza di mostrare qualche risultato sul terreno di battaglia a opinioni pubbliche occidentali sempre più scettiche), ma anche impostata senza le adeguate condizioni militari (numero di combattenti, artiglieria, copertura aerea).[37] Kiev ovviamente ha dovuto accettare secondo il principio che chi paga comanda.

Detto questo, dove siamo oggi?

A Washington si continua a pensare, con spirito bipartizan (Trump a parte), che l’“investimento” ucraino stia dando il massimo profitto, avendo la guerra indebolito di molto il nemico russo, serrato le fila dell’alleanza Nato, impaurito la Cina. Il tutto senza stivali americani a terra, american boots on the ground.[38] A un’analisi meno superficiale la realtà dei fatti appare un po’ differente. Senza negare i vantaggi immediati per Washington derivanti dal conflitto e l’indubbio logoramento cui è sottoposta la Russia, tutti gli elementi di un possibile boomerang sul medio-lungo termine indicati in questo libro risultano confermati.

In primo luogo, la guerra non ha finora messo in ginocchio la Russia né dal punto di vista militare né da quello economico. Al contrario, sta mettendo a dura prova il dispositivo militare-industriale della Nato al punto che non è certo se, alle condizioni date, sarà possibile proseguire ancora a lungo l’attuale livello di sostegno militare a Kiev. Inoltre, la mancata vittoria ucraino-statunitense – oltreché allontanare ulteriormente l’ingresso ucraino nella Nato – sta alienando sempre più buona parte della popolazione europea (ma non le leadership politiche) dal proseguimento del conflitto e dall’invio di armi occidentali, tanto più che la situazione economica sul continente europeo volge al peggio. In secondo luogo, l’arma delle sanzioni anti-russe si è rivelata tutt’altro che magica. Al contrario, i legami economici di Mosca con i paesi asiatici e più in generale del Sud del mondo si sono rafforzati, dai droni iraniani al contrabbando di microchip, ai mercati dell’energia di Cina e dei paesi emergenti. Non solo: anche politicamente Mosca è risultata tutt’altro che isolata internazionalmente, con gran parte dei paesi del Sud restii ad abbracciare le tesi occidentali sulla guerra – come dimostrano l’allargamento dei Brics (v. sotto) e lo stesso andamento del summit G20 del settembre 2023. Infine, e soprattutto, ogni speranza di allontanare Pechino da Mosca si è rivelata pia illusione.[39]

Dove si va (presumibilmente)?

La guerra potrebbe durare ancora a lungo, anche nel caso di una pace “fredda”. Negli Stati Uniti, al momento, si stanno delineando due campi: il primo favorevole a un congelamento del conflitto – ma non disposto a rinunciare a inserire in qualche modo l’Ucraina nel dispositivo di sicurezza Nato –, l’altro a continuare la guerra e il pieno supporto militare ed economico a Kiev. L’amministrazione Biden sembra orientata su quest’ultima posizione, che non esclude una convergenza con la prima quanto a obiettivi di medio termine ma non prima, probabilmente, di una ulteriore escalation del conflitto (attacchi missilistici sul territorio russo?). Mosca da parte sua non può a questo punto fermarsi prima di essersi garantita il “fallimento” dello stato ucraino, tale da rendere impossibile la sua adesione alla Nato. Ma è da vedere se ha le risorse per fare ciò, o dovrà accontentarsi nella migliore delle ipotesi di una “ugly victory”. In definitiva, a meno di un crollo improvviso di una delle due parti, la guerra dovrebbe trascinarsi per tutto il 2024 in attesa per lo meno dell’esito delle presidenziali americane.

Ciò non toglie che per Washington si presenta un groviglio di problemi non facilmente risolvibili: da un lato, come tirarsi fuori a un certo punto dal conflitto senza che ciò appaia come una sconfitta; dall’altro, come continuare a far pressione sulla Russia e indebolire così un fianco della Cina. Su tutto, pesa la potenziale perdita di prestigio internazionale, che potrebbe non essere limitata ai soli paesi e popolazioni extra-Nato se è vero che per gli alleati di Washington (UE compresa) vale pur sempre il monito espresso una volta da Kissinger: accodarsi all’impero americano significa votarsi, prima o poi, a fare da agnello sacrificale. Pesano poi la necessità di ripensare il modello fin qui seguito della guerra asimmetrica basata sull’assoluta primazia militare e tecnologica sul campo e su un parco uso di truppe sul terreno – essenziale per un fronte interno finora ostile a gravosi impegni bellici – e più in generale l’urgenza di una messa a punto di una Grand Strategy. Problemi al contempo strategici, industriali e socio-politici.

In tutto questo la Cina ha seguito una linea di coerente fermezza nei confronti di Washington, di appoggio sostanziale a Mosca, e di ricerca di consenso nel Sud globale rispetto all’esigenza del suo appello “riformista” per un ordine internazionale multipolare. Nel febbraio 2023 Pechino ha diffuso un suo “position paper” sulla guerra in Ucraina per l’attivazione di un percorso di negoziato per pervenire alla pace, ma affermando di non voler togliere le castagne dal fuoco al vero responsabile del conflitto.[40] Non a caso a marzo Xi Jinping in persona ha visitato Mosca. Nei mesi successivi la diplomazia cinese ha lavorato al rilancio dell’importanza internazionale dei paesi Brics, negli ultimi anni un po’ appannata. Nel frattempo, Pechino ha dovuto prendere atto che il vertice Nato di Vilnius, in pieno delirio di onnipotenza, ha chiaramente additato la Cina come nemico.[41] Ciò a conferma della percezione di una “NATO-izzazione” dell’Asia-Pacifico e, contestualmente, della visione condivisa dai vertici del partito-stato, ma diffusa nell’opinione pubblica cinese, che una sconfitta russa in Ucraina lascerebbe sola la Cina a confrontarsi con gli Stati Uniti e aprirebbe a un più diretto scontro in Asia Orientale. La popolarità acquisita dal termine Meixifang (Stati Uniti e Occidente) è assai eloquente al riguardo. L’urgenza di una proiezione internazionale più pronunciata da parte della Cina è nelle cose.

4. Cina: il quadro interno

Prima di affrontare questo aspetto, fermiamoci brevemente sulla situazione interna cinese.

Mentre scriviamo, in Occidente si insiste molto sulla “fine del miracolo cinese” attribuendolo sostanzialmente al disequilibrio investimenti-consumi e ai vincoli imposti all’impresa privata dal comando politico dell’economia.[42] La critica non è affatto nuova e converge con la narrazione che sta prevalendo nell’amministrazione Biden.[43] Del resto, è possibile una lettura differente degli stessi dati della congiuntura economica cinese.[44] Ma il punto non è questo. Non si tratta di negare le criticità dello sviluppo cinese, già analizzate in questo volume, il calo degli investimenti privati e il ripresentarsi della bolla immobiliare, ma di collocarli nel contesto corretto. Da un lato, sarebbe strano se con il rallentamento della domanda globale non ci fosse una ricaduta sull’export cinese e in particolare sull’impresa privata. Dall’altro, vanno considerati, a fare da cornice, la politica di deleveraging della leva finanziaria complessiva e l’affinamento della politica industriale da parte di Pechino, strettamente connessi.

Sul primo versante, le autorità centrali hanno intrapreso già all’indomani della crisi finanziaria del 2015-16 una politica graduale di riduzione della liquidità dopo l’enorme stimolo fiscale del 2009. Di qui il rallentamento del credito erogato sia dal sistema bancario ombra (shadow banking system) sia dalle amministrazioni locali, il cui indebitamento sopravanza di quasi quattro volte quello del governo centrale e presenta ritorni decrescenti che si assommano alla diminuzione delle entrate locali a causa del calo delle vendite dei diritti d’uso della terra a fini edilizi.[45] L’obiettivo è di rimpiazzare gradualmente il debito locale con quello centrale rendendo più dipendenti e controllate le autorità locali e più efficiente l’allocazione del credito. Qualcosa di analogo vale per l’attitudine del governo centrale verso la bolla speculativa immobiliare, riaccesasi di recente.

Anche questa è paradossalmente il sottoprodotto della campagna di deleveraging (vedi la più stringente regolazione dell’agosto 2020), che ha portato alcune holding immobiliari a finanziare ulteriori progetti edilizi vendendo direttamente agli acquirenti le case prima del loro completamento secondo schemi di finanza-Ponzi. Per lo scorno degli analisti occidentali, i fallimenti o quasi-fallimenti che ne sono seguiti – lungi dal rappresentare il momento Lehman cinese (senza cartolarizzazioni e significativa esposizione all’estero?!) – sono per le autorità “il prezzo da pagare per disciplinare il settore immobiliare nel suo complesso e ridurne il peso nell’economia più ampia”, “the price of disciplining the property sector as a whole and reducing its weight in the broader economy.” [46] Oltreché la spinta per una transizione a un modello diverso anche per l’industria immobiliare, come esplicitamente affermato dai vertici del PCC. [47] Insomma, la riduzione del rischio finanziario sotto una più stretta supervisione politica centrale è fondamentale per la strategia cinese che vede un ribilanciamento complessivo del modello di crescita fin qui seguito. [48]

A questo proposito, va notato che la stessa strategia industriale non è ferma, ma prosegue con aggiustamenti importanti, in particolare in risposta ai vincoli crescenti posti dalla guerra dei semiconduttori. In estrema sintesi, si può osservare anche su questo piano un tentativo di maggiore centralizzazione degli investimenti tecnologici, che supera il precedente modello di competizione decentralizzata e selvaggia rivelatosi assai dispendioso e non sempre efficiente. Dalla crescita meramente quantitativa del Pil si sta così passando a obiettivi qualitativi mirati.[49] Ne sono un segno: l’inserimento di un maggior numero di tecnocrati nel Politburo del PCC – a seguito del XX Congresso del partito dell’ottobre 2022 – come a livello di province; la creazione di una Commissione Centrale per lo sviluppo tecnologico presso il Politburo del PCC (marzo 2023); in questo quadro, nuovi stimoli alle imprese private dopo la stretta regolativa degli anni precedenti; la discussione interna al partito sulla necessità di non contrapporre investimenti e consumi e non squilibrare il mercato interno.[50] Insomma, nei limiti posti dalle condizioni date e dalla collocazione nella divisione internazionale del lavoro, sembra essere in corso in Cina un tentativo serio, almeno nei settori di punta (high-end production), verso uno sviluppo intensivo basato su forme di estrazione del plusvalore relativo, pur ibridate con forme più arretrate. Anche la lotta di classe saprà adeguarvisi?[51]

5. Un riformismo globale?

Le novità principali dell’ultimo anno quanto alla Cina riguardano, come anticipavamo, principalmente la sua proiezione esterna.

Innanzitutto, verso il Medio Oriente. Mentre gli investimenti cinesi della BRI sono rimasti pressoché costanti in rapporto al Pil dal 2016, dal 2022 il flusso maggiore si è indirizzato verso il Medio Oriente nel settore delle energie.[52] Il viaggio di Xi Jinping a Ryad e l’incontro con i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo nel dicembre 2022 hanno incrementato i progetti comuni, con un piano di armonizzazione tra la saudita Vision 2030 e la BRI, il rilancio dell’idea dello petro-yuan nonché di un accordo di libero scambio con i paesi dell’area.[53] Sul piano più strettamente geopolitico, e per certi versi clamoroso, si è poi avuta la firma a Pechino dell’accordo tra Iran e Arabia Saudita, da decenni accesi nemici dietro l’accurata regia statunitense. L’intesa prevede il pieno ripristino delle relazioni diplomatiche, l’impegno alla stabilizzazione di Siria e Afghanistan e porre fine al conflitto yemenita, l’intento di cooperare all’interno dell’Opec anche in merito alla sicurezza del traffico marittimo nel Golfo Persico. Non è escluso che ciò possa preludere altresì a un accordo sul nucleare iraniano. Un severo colpo all’egemonia di Washington nell’area, tenuto conto del ruolo storico saudita di bastione filostatunitense, e una prima evidente affermazione del peso geopolitico di Pechino.[54] Questo mentre l'Arabia Saudita ha ridotto l'acquisto dei titoli USA riportandoli ai livelli del 2016 per timore di future sanzioni.

Di portata più generale, nell’agosto 2023, il 15° vertice dei paesi Brics a Johannesburg. Vediamone i risultati principali:

- è stato deciso, per la sorpresa degli osservatori occidentali, un allargamento dell’organizzazione a sei nuovi paesi: Argentina, Etiopia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran e Arabia Saudita.

- Si è rafforzato l’asse Pechino-Mosca, a favore di un allargamento qualificato ma più ampio di quanto avrebbe voluto l’India, e dell’inserimento contestuale di Iran e Arabia Saudita.

- Ha ripreso slancio la spinta per una riforma della governance economica globale in una direzione effettivamente multilaterale, più favorevole alle istanze del Sud Globale e meno subordinata alla politica statunitense e al potere del dollaro.[55]

- Grazie alla crescita di autorevolezza politica e del peso economico i Brics+ possono così fare da catalizzatore delle spinte per una riforma complessiva dell’ordine internazionale da parte dei soggetti non appartenenti al blocco occidentale.

- Sul piano finanziario e monetario, ci sono stati passi ulteriori verso il pagamento del commercio bilaterale nelle monete locali. Non si tratta affatto di una moneta comune, allo stato irrealizzabile. Ma di dare corso più deciso alla volontà condivisa di ridurre la dipendenza dal dollaro come mezzo di pagamento internazionale e di aggirare le sempre più frequenti sanzioni occidentali. Su questo versante non va sottovalutata la concentrazione di produttori di petrolio nel BRICS+ (più del 40% produzione mondiale).

La persistente eterogeneità dei membri è un fatto: i Brics+ non rappresentano un vero blocco politico né tanto meno un’alleanza di sicurezza. Del resto, l’attitudine di questi paesi – a parte oggi la Russia e, in misura crescente, la Cina – non è anti-occidentale, è piuttosto di multiallineamento. Gli altri membri, ciascuno con i propri interessi e peculiarità, puntano piuttosto ad accrescere il potere di contrattazione con l’Occidente su questioni come il trasferimento di tecnologie, gli armamenti, i termini degli accordi commerciali, il prezzo delle materie prime, l’eventuale ristrutturazione del debito. (In particolare, l’India sembra disposta a giocare apertamente su più tavoli, come del resto è evidente rispetto al conflitto ucraino, senza nulla concedere a Pechino sul piano geopolitico ed economico). Ciò non toglie che anche così i Brics+ potrebbero diventare una spina nel fianco degli Stati Uniti a misura che iniziano a minarne il monopolio della moneta mondiale sul piano delle transazioni commerciali.[56]

Tutto ciò non sarebbe possibile senza il ruolo essenziale di Pechino. Innanzitutto, grazie alla Cina il commercio bilaterale tra i paesi Brics è aumentato in misura rilevante, in particolare con Brasile e Russia.[57] Di conseguenza, l’uso reciproco delle valute locali ne ha tratto ulteriore spinta.

Soprattutto lo yuan inizia a essere trattato tra e al di là dei paesi Brics, in Asia, Africa e America Latina e per gli acquisti di petrolio e gas.[58] Il che è reso possibile dagli accordi di swap tra banche centrali (establishing bilateral swap lines and offshore, clearing banks) con i quali Pechino sopperisce alla scarsa liquidità internazionale dello yuan dovuta alle restrizioni del conto capitale (capital account restrictions).[59] In particolare, per effetto delle sanzioni occidentali lo yuan è divenuto di fatto per la Russia la valuta di riserva e quella più trattata sul mercato valutario e delle obbligazioni. Infine, proseguono dal 2022 forti acquisti di oro, soprattutto di Cina, Russia e India, che va a sostituire parzialmente il dollaro come riserva delle banche centrali sia in considerazione del rischio sanzioni sia a fronte di un’inflazione persistente sui mercati globali.[60] Per Pechino ciò serve a dare una base più solida al processo di internazionalizzazione dello yuan. Non a caso nel corso del 2023 lo yuan è arrivato per la prima volta a superare il dollaro nei pagamenti internazionali bilaterali. (The yuan was used in 49% of China's cross-border transactions last quarter, topping the dollar for the first time).[61]

Insomma, la sfida “riformista” all’Occidente continua a fare passi avanti.

6. La crisi che viene

Al momento in cui scrivo, la congiuntura economica mondiale volge al peggio, dopo essere passata tra il ’21 e il ‘23 attraverso alti e bassi violenti: pandemia, ripresa (relativa) post-pandemica, rallentamento. È vero che gli Stati Uniti non sono entrati finora in recessione, come invece ci si aspettava, probabilmente anche grazie agli enormi sussidi erogati da Trump e Biden. Ma l’economia tedesca è in recessione tecnica trascinandosi dietro il rallentamento dell’intera eurozona. E si prevede un rallentamento della domanda globale e della produzione, che potrebbe questa volta coinvolgere, a differenza che nella GFC, anche la Cina.

A conclusione di questo aggiornamento, vogliamo richiamare brevemente due aspetti più che solo congiunturali, in stretta connessione.

Il primo è la novità, dopo parecchi decenni, della ricomparsa dell’inflazione nelle economie occidentali dal 2021 (prima, si noti, dello scoppio del conflitto ucraino). Se negli ultimi mesi, il fenomeno pare essersi parzialmente ridimensionato, in realtà ciò vale solo per la parte considerata dagli economisti accademici “volatile” (come se i prezzi dell’energia e del cibo fossero secondari!), mentre quella cosiddetta “core” persiste. Comunque sia, difficilmente i prezzi alla produzione e delle commodities retrocederanno ai livelli pre-pandemici. Ora, pur a denti stretti, parte dell’establishment finanziario e accademico ha riconosciuto che tra i fattori principali del fenomeno c’è, anche a seguito dell’opportunità fornita dai colli di bottiglia sul lato dell’offerta nella ripresa post-pandemica, l’aumentato potere di fissare i prezzi (pricing power) da parte di price-setting firms ovvero di oligopoli nazionali e internazionali. Mentre non si è pressoché data la cosiddetta spirale salari-prezzi.[62] A monte di ciò, è importante sottolineare, anche se non è possibile argomentarlo in questa sede, che l’inflazione ha alla base una caduta generale della profittabilità del capitale che viene ripartita in maniera diseguale attraverso il meccanismo dei prezzi (ovvero una perequazione stratificata del tasso di profitto) tra oligopoli e settori più aperti alla concorrenza.[63] I primi possono mantenere la profittabilità senza intervenire sulla composizione organica del capitale o sul tasso di sfruttamento ma solo a spese di altri settori e imprese, senza un reale aumento della massa complessiva del plusvalore. A ciò concorre altresì il meccanismo del credito che ha visto nei decenni della globalizzazione allungarsi enormemente la cerniera tra moneta nazionale e liquidità privata denominata prevalentemente in dollari (cosiddetta finanziarizzazione). Tutto ciò se permette un rinvio della crisi di sovrapproduzione, tende ad aggravarla rimandando nel tempo la scelta dolorosa di soluzioni drastiche. Per intanto, l’inflazione ha una implicazione importante per l’Occidente: essa erode i salari reali del proletariato, nonché i redditi dei ceti medi, contribuendo decisamente alla rottura del compromesso sociale post-fordista (globalizzazione ascendente), che seppur con notevoli smottamenti ha retto anche nel decennio post CFG. In prospettiva questo dato si rivelerà fondamentale per una ripresa del conflitto sociale nei paesi imperialisti, seppur non nelle forme del movimento operaio storico.[64]

In questo quadro, e siamo al secondo punto, si colloca anche il graduale cambiamento della politica monetaria del Federal Reserve statunitense (e a ruota della BCE) dal Quantitative Easing (QE) al Quantitative Tightening (QT). Con il QE le banche centrali del blocco occidentale hanno sostanzialmente monetizzato il debito del sistema finanziario scosso dalla crisi del 2008 attraverso un colossale programma di acquisti di titoli statali e tassi di interesse mantenuti bassissimi, il che ha altresì permesso i continui rialzi (ancorché assai diversificati) dei titoli di borsa. Con la crisi pandemica la cosa si è ripetuta garantendo il salvataggio delle imprese (anche quelle cosiddette zombie). Ora dal picco dell’aprile 2022 il totale degli asset finanziari detenuti dalla Fed è calato di $864 miliardi a $8,10 trilioni nell’agosto 2023 (pari al 15,2% del totale dei titoli di stato statunitensi) (of total Treasury securities outstanding).[65]
Fonte woolfstreet.com

È pur sempre una quantità notevolmente cresciuta anche solo in confronto ai 2 trilioni all’indomani della CFG. Il che spunta le armi della Banca Centrale, ovvero il controllo della moneta e del credito, e contribuisce a gonfiare ulteriormente la bolla del debito. Non solo: una politica di QE non può che provocare alla lunga un indebolimento del dollaro sui mercati globali, tanto più a fronte dei segnali di insofferenza nei suoi riguardi nel mondo non occidentale. Non si è allentata infatti quella che abbiamo chiamato la “fatica del dollaro” né si è fermato il peggioramento della posizione debitoria di Washington: debito nazionale oltre i 32 trilioni di dollari, raddoppiato dall’inizio della CFG; posizione internazionale netta deficitaria per più di 16 trilioni di dollari; contrazione pur ancora limitata della quota del dollaro come valuta di riserva (58% del totale nel 2022, il valore più basso dal 1995)[66]; riduzione dei titoli del debito statale statunitense detenuti dalla Banca Centrale Cinese e non solo.[67] In più, si è aggiunta l’insofferenza crescente delle frazioni interne di capitale legate al prestito a interesse, che hanno accettato per anni i bassi tassi dovuti al QE sia per la situazione di emergenza post 2008 sia perché compensate con la vendita dei titoli di stato e i rally di borsa della caduta del credito in un’economia in stagnazione. Ora il calo dei profitti si fa però più acuto.

Di conseguenza, la collocazione del crescente debito estero statunitense e il rischio di indebolimento del dollaro hanno richiesto l’aumento dei tassi da parte della Fed. E non a caso il dollaro si è rafforzato grazie ai differenziali dei tassi sia rispetto all’euro che allo yuan come già nel 2022 grazie all’effetto “porto sicuro” a seguito dello scoppio del conflitto ucraino.[68]

Va detto che si tratta però di rialzi ancora limitati rispetto all’inflazione reale. Ma già solo questi hanno suscitato notevoli criticità negli stessi Stati Uniti: oltre all’aumento delle spese per interessi per il debito nazionale, le banche regionali hanno sofferto (vedi il fallimento della Silicon Valley Bank e della Signature Bank nel marzo 2023 a causa della svalorizzazione dei titoli di stato detenuti come patrimonio)[69] o stanno soffrendo l’aumento, così come il commercial real estate per la caduta dei prezzi legati all’erogazione di mutui e le imprese per i costi aumentati del finanziamento. Criticità che peraltro incentivano i processi di centralizzazione del capitale.

Nonostante la propaganda di autolegittimazione, la mutata politica monetaria della Fed non serve dunque a combattere realmente l’inflazione, ma a preservare il comando globale del dollaro senza però operare brusche svolte. Solo un innalzamento secco dei tassi del tipo del Volker choc potrebbe infatti, inducendo una dura recessione, stoppare effettivamente il fenomeno. D’altra parte, lasciar correre l’inflazione comporta rischi elevati: indebolimento del dollaro, instabilità finanziaria, rischio di una rincorsa salariale. Il tutto nel quadro di crescenti tensioni geopolitiche internazionali. Di qui per le banche centrali occidentali il dilemma che non potrà che farsi più acuto se le condizioni resteranno quelle indicate.

Non siamo ad oggi già al punto di maturazione di una svolta drastica, nella quale una svalorizzazione massiccia del capitale in eccesso condotta dalle frazioni guida del capitale e dello stato statunitense possa aprire a una ristrutturazione capitalistica radicale con la generalizzazione di un nuovo standard del valore e la riconfigurazione dei rapporti di classe. Quando si darà, essa non potrà però evitare un salto nello scontro oramai iniziato tra Stati Uniti e Cina, e riaccenderà altresì tutte le tensioni tra Occidente e Sud del mondo e all’interno dello stesso Occidente così come il conflitto di classe a scala globale. Si vedrà allora se lo scarto tra la struttura dell’accumulazione mondiale e i margini per una Grand Strategy statunitense potrà essere colmato oppure se esso aprirà alla disarticolazione del sistema capitalistico mondiale.

Note

1 John Bateman, The Fevered Anti-China Attitude in Washington Is Going to Backfire, Politico, December 15, 2022.

2 Semiconductor Industries Association, 2022 State of the U.S. Semiconductors Industry, Washington 2023.

3 Allen G., Choking off China’s Access to the Future of AI, Center for Strategic and International Studies, October 11, 2022.

4 Alex Paalmer, An Act of War: Inside America’s Silicon Blockade Against China, The New York Times Magazine, July 12, 2023: “C.J. Muse, a senior semiconductor analyst at Evercore ISI, put it this way: “If you’d told me about these rules five years ago, I would’ve told you that’s an act of war — we’d have to be at war.”

5 The White House, Executive Order on Addressing United States Investments in Certain National Security Technologies and Products in Countries of Concern, August 9, 2023.

6 Tobita, R. 2022. US calls out Japan and Netherlands over China chip curbs, Asia Nikkei, November 6; Reuters, Dutch to restrict semiconductor tech exports to China, joining US effort, CNN, 8 marzo 2023; Cagan Cok, ASML Hit with New Dutsch Limits on Chip Gear Export to China, Bloomberg, June 30, 2023.

7 Kim Jaewon and Cheng Ting-Fang, Samsung and SK Hynix face China dilemma from U.S. export controls, Nikkei Asia, October 25, 2022.

8 Grey Anderson, Strategies of Denial, New Left Review, June 15, 2023.

9 “We don’t negotiate on matters of national security” said U.S. Commerce Secretary Gina Raimondo in her two days in Beijing, end August (https://www.cnbc.com/2023/08/30/heres-what-the-us-hopes-china-will-do-after-raimondos-trip.html). See also Janet Yellen, Remarks by Secretary of the Treasury Janet L. Yellen on the U.S. - China Economic Relationship at Johns Hopkins School of Advanced International Studies, April 20, 2023.

10 Sullivan Jake, Remarks by National Security Advisor Jake Sullivan on the Biden-Harris Administration’s National Security Strategy. October 12, 2022.

11 “We will unapologetically pursue our industrial strategy at home — but we are unambiguously committed to not leaving our friends behind. We want them to join us”: Remarks by National Security Advisor Jake Sullivan on Renewing American Economic Leadership at the Brookings Institution, April 27, 2023.

12 Michael Shear, Biden Describes China as a Time Bomb Over Economic Problems, New York Times, August 11, 2023.

13 Peter Engelke, Emily Weinsten, Global Strategy 2023: Winning the tech race with China, Atlantic Council Strategy Paper Series, June 27, 2023.

14 UNCTAD, Global Trade Update June 2023, Febraury 2023, Geneva: United Nations.

15 Niccolò Conte, Charted: America’s Import Reliance of Crtical Minerals, Visual Capitalist, August 4, 2023.

16 Alberto Guidi, Poli manifatturieri: geo-rivoluzione in corso, Ispi, April 21, 2023.

17 Abigail Dahlman (PIIE) and Mary E. Lovely (PIIE), US-led effort to diversify Indo-Pacific supply chains away from China runs counter to trends, September 6, 2023.

18 Nel maggio 2023 Pechino ha deciso il divieto di acquisto di semiconduttori prodotti dalla statunitense Micron Technology nel tentativo di creare tensioni tra Washington e Seul, le cui aziende potrebbero colmare il vuoto: Jiyoung Sohn, Yang Jie, China’s New Chip Ban on Micron, The Wall Street Journal, May 22, 2023. Nel luglio ha limitato l’esportazione di gallio e germanio, importanti per lo sviluppo di semiconduttori non basati sul silicio.

19 Patrick McGee, How Apple tied its fortunes to China, Financial Times, January 17, 2023.

20 Eva Dou, New Phone Sparks Worry China Has Found a Way Around U.S. Tech Limits, The Washington Post, September 2, 2023.

21 Gary C. Hufbauer and Megan Hogan, CHIPS Act Will Spur US Production but Not Foreclose China, Piie, October 2022. Vedi anche l’intervista con David Paul Goldman, an economic author for the Asia Times: https://news.cgtn.com/news/2023-08-28/U-S-tech-restrictions-impact-reasons-for-a-potential-tech-war-loss- 1mCHAqKLOU0/index.html.

22 World Trade Organization, Global Trade Outlook, April 2023, WTO Publications, Geneva 2023.

23 Olivia White, Jonathan Woetzel, Jeonmin Seong, and Tiago Devesa, The complication of concentration in global trade, Mckinsey, January 12, 2023.

24 UNCTAD, World Investment Report 2023: Investing in Sustainable Enegy for All, 2023 Geneva: United Nations.

25 IMF, World Economic Outlook 2023. A Rocky Recovery, IMF Publication Services, Washington 2023.

26 Glenn Barklie, China’s FDI decline: Why are foreign companies decreasing their dependency on Asian giant?, February 16, 2023. See also: Bloomberg News, China’s Foreign Investment Gauge Declines to 25-Year Low, August 7, 2023.

27 Yeung, H. W. C. (2022). Interconnected worlds: Global electronics and production networks in East Asia. Stanford University Press.

28 Felix Richter, BYD and Tesla Dominate Global EV Sales, Statista, September 5, 2023.

29 Un trend inverso a quello tedesco: Garcia Herrero, A. 2023. Resilience of Global Supply Chain: Facts and Implications. ADBI Working Paper 1398. Tokyo: Asian Development Bank Institute.

30 Laura Alfaro, David Chor, Global Supply Chains: the Looming “Great Reallocation”, working paper 31661 National Bureau of Economic Research, Cambridge, MA, September 2023.

31 Garcia Herrero, A., Resilience of Global Supply Chain: Facts and Implications, 23: “It is clearly still too early to measure the degree to which supply chains are being reshuffled”.

32 Jason Willick, Blow Up the Microchips? What a Taiwan Spat Says About U.S. Strategy, The Washington Post, May 12, 2023.

33 Chad De Guzman, U.S. and Philippines Announce New Sites for Military Cooperation, Time, April 4, 2023.

34 Alexandra Sharp, U.S., South Korea, Japan Bolster Ties at Camp David Summit, Foreign Policy, August 18, 2023.

35 NATO, Secretary General Jens Stoltenberg at the joint meeting of the Committee on Foreign Affairs (AFET) and the Subcommittee on Security and Defense (SEDE) of the European Parliament, September 7, 2023.

36 Daniel Davis, The Hard Reality, September 7, 2023.

37 Aaron Mateè, John Mearsheimer: Ukraine War Is a Long Term Danger, interview, July 30, 2023.

38 Vedi ad esempio: Ctpost, Sen. Blumenthal (opinion): 'Zelensky doesn’t want or need our troops. But he deeply and desperately needs the tools to win', August 29, 2023.

39 Bonny Lin, The China-Russia Axis Takes Shape, Foreign Policy, September 11, 2023.

40 Government of China. 2023. “China’s Position on the Political Settlement of the Ukraine Crisis”.

41 NATO, Vilnius Summit Communiquè, July 11, 2023: “24. […] We are working together responsibly, as Allies, to address the systemic challenges posed by the PRC to Euro-Atlantic security and ensure NATO’s enduring ability to guarantee the defence and security of Allies. We are boosting our shared awareness, enhancing our resilience and preparedness, and protecting against the PRC’s coercive tactics and efforts to divide the Alliance. We will stand up for our shared values and the rules-based international order, including freedom of navigation.”

42 Adam Posen, The End of China’s Economic Miracle. How Beijing’s Struggles Could Be an Opportunity for Washington, Foreign Affairs, Sepytember-October 2023.

43 James Galbraith, China in decline? New US narrative Is geared towards 2024 election, South China Morning Post, August 18, 2023.

44 Nicholas Lardy, How serious is China's economic slowdown?, PIIE, August 17, 2023.

45 Macropolo, China’s Debt Hangover, December 2022.

46 Nathan Sperber, Forecasting China?, september 8, 2023, New Left Review Sidecar.

47 CCP, Central Economic Work Conference, December 15-16, 2022.

48 Come si nota anche dalla creazione di una nuova Commissione Finanziaria Centrale, nel marzo 2023, all’interno non del Consiglio di Stato, ma direttamente del Comitato Centrale del PCC.

49 Ruihan Huang, A.J. Cortese, Nanometers over GDP: Can Technocrat Leaders Improve China’s Industrial Policy?, Macropolo, May 23, 2023.

50 Qu Xinyi, Jia Yuxuan, and Zichen Wang, Study Times op-ed shoots down new policy options, Pekingnology, August 20, 2023.

51 Chuang, China FAQ. Isn’t China the world’s sweatshop?, May 22, 2023.

52 Nedopil, Christoph (July 2022): “China Belt and Road Initiative (BRI) Investment Report H1 2022”, Green Finance & Development Center, FISF Fudan University, Shanghai.

53 Vivian Nereim, China and Saudi Arabia Sign Strategic Partnership as Xi Visits Kingdom, The New York Times, December 8, 2022.

54 David Ignatius, “How China Is Heralding the Beginnings of a Multipolar Middle East”, The Washington Post, 16 March 2023, https://www.washingtonpost.com/opinions/2023/03/16/china-saudi-arabia-iran-middle-east-change/.

55 Steven Erlanger, David Pierson, Linsey Chutel, Iran, Saudi Arabia and Egypt Invited to Join Emerging Nations Group, The New York Times, August 24.

56 Piero Pagliani, Brics+ o bric-à-brac?, Sinistrainrete, September 2, 2023.

57 Marco Fernandes, Brics gain new chances to improve global development, AsiaTimes, April 13, 2023.

58 Vedi l’accordo tra China National Offshore Oil Corp. (CNOOC) e France's TotalEnergies del marzo 2023, che rappresenta il primo acquisto di gas naturale liquefatto in yuan: Neils Christensen, China settled its first LNG trade in yuan, Kitco News, March 29, 2023.

59 Hector Perez-Saiz and Longmei Zhang, Renminbi Usage in Cross-Border Payments: Regional Patterns and the Role of Swaps Lines and Offshore Clearing Banks, IMF Working Paper, March 2023.

60 Marc Jones, Countries repatriating gold in wake of sanctions against Russia, Reuters, July 10, 2023.

61 Noriyuki Doi and Saki Akita, Yuan exceeds dollar in China's bilateral trade for first time, Nikkei ASIA, July 24, 2023.

62 Weber, Isabella M.; Evan Wasner, "Sellers’ Inflation, Profits and Conflict: Why can Large Firms Hike Prices in a Emergency?" (2023). Economics Department Working Paper Series. 340, University of Massachussetts Amherst.

63 Bruno Astarian, Ferro Robert, Le Ménage à trois de la lutte des classes, 323-24.

64 Ho trattato questo tema in Raffaele Sciortino, I dieci anni, capitolo 3.

65 Wolf Street, Fed Balance Sheet QT, September 7, 2023.

66 Naomi Rovnick and Libby George, The end of King Dollar?, Reuters, May 25, 2023.

67 Ceicdata, China’s Holding of US Treasury Securities 2000-2023.

68 Reuters, China’s state banks seen selling dollars for yuan, August 17, 2023.

69 I depositi sono stati immediatamente garantiti dall’ente regolatore mentre la Fed ha varato un programma di erogazione di liquidità (Bank Term Funding Program) per prevenire una corsa agli sportelli.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento