Alcuni anni fa lo storico israeliano Ilan Pappè inchiodava le responsabilità della comunità internazionale nella complicità con i crimini coloniali israeliani contro i palestinesi chiedendo: “Fino a quando il mondo permetterà a Israele di fare quello che fa?”
L’incantesimo sbagliato, che ha consentito decenni di consensi e complicità del tutto ingiustificati a livello internazionale verso Israele, sembra però essersi spezzato in più punti di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza
Perfino in tre importanti paesi dove il livello di servilismo e complicità con lo Stato di Israele appariva inamovibile (Germania, Stati Uniti, Italia), si è rotto il silenzio e si palesano proteste sia verso la politica israeliana sia verso i suoi pervasivi – ma oggi meno efficaci – apparati ideologici di stato.
Mentre non si è ancora spenta né risolta la questione della partecipazione israeliana all’Eurovision, sul piano culturale si sono aperti altri fronti di contestazione contro Israele.
In Germania durante la cerimonia di premiazione del festival del cinema di Berlino sabato scorso ha fatto scalpore il regista statunitense Ben Russell che ha ritirato il premio per il suo documentario Direct Action indossando una kefiah palestinese sulle spalle e dichiarando che “Naturalmente siamo per la vita e siamo contrari al genocidio, e per un cessate il fuoco in solidarietà con i palestinesi”.
Applausi anche per la coppia di registi israeliano e palestinese Yuval Abraham e Basel Adra premiati per il loro documentario No Other Land e per le parole pronunciate durante la premiazione, quando hanno parlato di “carneficina e massacro dei palestinesi”. Le consuete reazioni di protesta di politici e ministri tedeschi a difesa di Israele non hanno avuto il potere interdittivo esercitato in passato. Se la diga si rompe si rompe.
Perfino nella pavida Italia, dopo le parole di Ghali al Festival di Sanremo, intorno alla Biennale di Venezia si è alzata la voce di Anga, sigla che sta per “Art Not Genocide Alliance”, un’alleanza di artisti che nel giro di poche ore ha raccolto oltre diecimila firme, intorno ad un documento che dichiara: “Noi firmatari chiediamo l’esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia”.
La richiesta di escludere Israele è contenuta in una lettera diretta alla Fondazione della Biennale, che ha già raccolto migliaia di sottoscrittori. “Mentre il mondo dell’arte si prepara a visitare il diorama dello stato-nazione ai Giardini – si legge nell’appello – affermiamo che è inaccettabile ospitare uno Stato impegnato nelle atrocità in corso contro i palestinesi a Gaza. No al Padiglione del Genocidio alla Biennale”.
I promotori dell’iniziativa hanno sottolineato che “la richiesta di riconoscimento delle atrocità commesse dai partecipanti” all’esposizione veneziana “non sono senza precedenti”. Dal 1950 al 1968, ricordano, “a causa della diffusa condanna globale e degli appelli al boicottaggio, il Sudafrica dell’Apartheid fu scoraggiato dall’esporre e messo da parte quando la Biennale assegnò gli spazi. Il Sudafrica non fu riammesso fino all’abolizione del regime dell’apartheid nel 1993”.
Viene poi citato il caso del conflitto russo in Ucraina: “Nel 2022 – si legge nella lettera – la Biennale ha condannato l’inaccettabile aggressione militare da parte della Russia, che includeva la dichiarazione di rifiutare qualsiasi forma di collaborazione con coloro che hanno compiuto o sostenuto un atto di aggressione così grave”.
I promotori hanno quindi puntato il dito anche contro “il silenzio” della Biennale “sulle atrocità di Israele contro i palestinesi. Siamo sconvolti da questo doppio standard – proseguono –. Qualsiasi lavoro che rappresenti ufficialmente lo Stato di Israele costituisce un’approvazione delle sue politiche genocide. Non esiste libera espressione per i poeti, gli artisti e gli scrittori palestinesi assassinati, messi a tacere, imprigionati, torturati”.
Infine, e proprio negli Stati Uniti, la protesta contro la complicità della Casa Bianca con Israele è detonata anche sul piano politico e non solo in quello universitario o nelle piazze.
Il presidente Biden, infatti ha vinto le primarie democratiche in Michigan con il 78,5 per cento dei voti, ma almeno il 16,5 per cento degli elettori ha scelto l’opzione “uncommitted” sulla scheda elettorale, accogliendo la richiesta avanzata da diversi attivisti e organizzazioni solidali con la Palestina che hanno protestato contro le politiche dell’amministrazione Biden su Israele e Gaza. Si tratta di circa 17.300 voti: un dato già di gran lunga superiore ai 10 mila voti di scarto che hanno permesso a Trump di conquistare lo Stato alle elezioni del 2016.
Il fatto che questa clamorosa azione di protesta sia avvenuta in un meccanismo decisivo della politica negli Stati Uniti dà il segno di come il sistema di intimidazione dei gruppi sionisti sulla politica, la cultura e il mondo accademico Usa venga oggi contrastato apertamente.
Israele sta ormai verificando non solo che il mondo intorno a se è cambiato ma che le file di quelli disposti a chiudere gli occhi o abbassare la testa di fronte ai crimini di guerra israeliani si sono assottigliate. Forse il mondo sta finalmente cessando di “permettere a Israele di fare quello che fa”.
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