A ridosso del primo maggio, Festa dei Lavoratori, il Centro studi della confederazione imprenditoriale Unimpresa ha pubblicato un rapporto sul disagio sociale in Italia. Elaborando dati Istat, è emerso che quasi il 15% della popolazione è a rischio povertà.
La prima cosa da sottolineare è che questi dati non arrivano da qualche studioso nostalgico del comunismo e nemmeno dai sindacati dei lavoratori (con “la Triplice” che del resto ha abbandonato la sua funzione decenni fa). È una delle associazioni più rappresentative del mondo delle piccole e medie imprese a lanciare l’allarme. A suo modo, ovviamente…
Probabilmente preoccupati per la tenuta del mercato interno, che ha un peso ancora sostanzioso nella nostra economia e soprattutto per le imprese di queste dimensioni, mentre l’export boccheggia in continuità con i problemi tedeschi, Unimpresa fa presente al governo lo stato dei portafogli italiani. Facendo però anche un autogol nel mostrare come più si lavori, meno ci si solleva economicamente.
Mentre Palazzo Chigi si fregia dei numeri sull’occupazione (su cui andrebbe fatto un discorso che per ora lasciamo da parte), Unimpresa afferma che “l’aumento del dato relativo al mercato del lavoro negli ultimi mesi non cancella le zone ad altissimo rischio”. La riduzione di quest’area di persone di solo lo 0,3% nell’ultimo anno mostra la realtà del nostro paese.
Nella fascia di disagio si trovano quasi due milioni di disoccupati. Quello che non viene detto è che questo dato rappresenta la totalità dei disoccupati: chi perde il lavoro in Italia finisce direttamente ai margini della società e a un passo dall’indigenza, mostrando come non esista più un sistema di tutela tale da garantire la dignità della persona.
A questi numeri vanno aggiunti i 6 milioni e 603 mila lavoratori impiegati in varie forme precarie, in aumento tra il 2022 e il 2023 di 52 mila unità. Per concludere la panoramica sui meno abbienti italiani, agli 8 milioni e mezzo “a rischio” qui presentati si aggiungono le oltre 5 milioni di persone in povertà assoluta.
È il quadro di un paese in cui quasi una persona su quattro è in difficoltà parziale o estrema, è il quadro di un paese in cui le politiche degli ultimi decenni hanno portato al fallimento, alla polarizzazione e all’immobilità sociale.
Ma c’è di più, perché i dati di Unimpresa palesano una realtà ulteriore: lavorare non è più garanzia di sopravvivenza.
Nel rapporto Unimpresa, gli unici occupati che hanno visto ridurre il numero di chi è in condizione di disagio sono i precari a tempo pieno (che rimangono tuttavia oltre i 2 milioni). Tra chi è in difficoltà è aumentato anche chi ha un contratto a tempo determinato part time, a tempo indeterminato ma si trova a svolgere un part time involontario, collaboratori e autonomi part time.
Guardando la dinamica storica, dal 2005 a oggi i poveri sono più che raddoppiati, passando da 2,4 milioni a 5,6 milioni. Questo aumento è stato alimentato soprattutto da quelli che vengono chiamati working poor, passati da 8,5 a 10,4 milioni.
Ma lavoratori poveri è una formula che nasconde la verità: si tratta di lavoro sottopagato. Un lavoro che non risponde più nemmeno alle fondamenta del rapporto capitale/lavoro, in cui per lo meno la retribuzione deve permettere al proletario di mangiare e restaurare le sue energie... per essere sfruttato anche il giorno dopo.
È questa la cartina tornasole della profondità della crisi che viviamo. Non sono certo le ricette di Unimpresa – che alla fin fine approva l’operato del governo e presenta soluzioni funzionali al profitto – a poter invertire la rotta.
I temi del salario minimo e dell’omicidio sul lavoro, che negli ultimi mesi le forze della reale opposizione hanno portato nelle piazze, sono due vettori fondamentali su cui costruire agitazione e organizzazione dei settori popolari, in difesa dei loro interessi.
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