Ieri l’Istat ha pubblicato il suo rapporto annuale per il 2024, che fa un quadro complessivo della situazione italiana. Anche quest’anno la fotografia che ne deriva è davvero impietosa: il Bel Paese è precario, funestato dalle disuguaglianze, quasi punitivo per i giovani che studiano.
I dati raccolti parlano dell’Italia sotto vari aspetti, ma ce ne sono alcuni che saltano all’occhio e che fa bene riassumere per mostrare dove ci ha portato l’incapacità della classe dirigente. A partire da ciò che il governo si guarda bene dal dire sull’occupazione e sulle retribuzioni.
Neanche due settimane fa la Meloni si fregiava del tasso di occupazione in aumento e dei disoccupati in diminuzione. Per quanto riguarda il primo (numero di persone occupate sulla popolazione tra i 15 e i 64 anni), l’Istat certifica un aumento del 2,4% rispetto al 2019, raggiungendo il 61,5%.
Quello che Palazzo Chigi non dice è che l’Italia rimane di gran lunga dietro la Spagna, la Francia e la Germania. Se si considera la popolazione tra i 20 e i 64 anni, a marzo venivano diffusi dati che davano il nostro paese al 66,3%, lontano quasi dieci punti dalla media europea e fanalino di coda della UE.
Per quanto riguarda i disoccupati in diminuzione, è di nuovo l’Istat a dirci che allo stesso tempo il tasso di inattività di coloro tra i 15 e i 64 anni è il più alto della UE (33,3%). Come vari analisti ricordano da anni, in Italia il problema è che in pochi lavorano, e in tanti hanno persino rinunciato a cercarlo.
E non perché le paghe di chi lavora siano così ricche da permettere di rimanere a casa. Tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni medie annue sono aumentate del 16% in termini monetari, ma allo stesso tempo il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%.
Tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 17,3%, e le retribuzioni contrattuali solo del 4,7%. Solo nell’ultimo trimestre del 2023 e nel primo del 2024 si comincia a segnalare un’inversione di tendenza, ancora lontana da un recupero completo di quello che i lavoratori hanno perso.
Tra il 2014 e il 2023 la spesa equivalente delle famiglie, in termini reali, è diminuita del 5,8%, con picchi oltre l’8% per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi. Intanto, anche la propensione al risparmio è diminuita fino al 6,3% lo scorso anno: si guadagna meno e si dà fondo ai risparmi, senza tuttavia essere in grado di spendere come un tempo.
Difatti, sempre tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai dal 9% al 14,6%. Se ci si aggiunge che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe voluto lavorare di più (era involontario, in sostanza), si chiude il quadro di un paese che non riesce a stare al passo con le aspettative dei suoi cittadini.
Questo vale ancor di più se si guarda un altro paio di dati. Innanzitutto, al fatto che il 34% degli occupati laureati (circa 2 milioni di persone) sono impiegate con un inquadramento professionale più basso rispetto al titolo conseguito: sono “sovra-istruiti”, in una definizione che mostra tutta la distorsione del nostro modello di sviluppo.
I part-time involontari e i sotto-inquadrati dimostrano ancora una volta che la retorica per cui c’è troppa gente che non ha voglia di lavorare è falsa. E anche la litania per cui, prima di qualsiasi aumento salariale, si dovrebbe aumentare la produttività, viene smontata in poche righe dall’Istat stesso.
In una delle schede di presentazione del rapporto si può leggere infatti: “La riduzione della capacità produttiva nella manifattura e la persistente debolezza della domanda interna hanno contribuito a deprimere gli investimenti fissi lordi e, di riflesso, la produttività del lavoro”.
Gli imprenditori non investono, e non investono perché la domanda interna è stata compressa da decenni di austerità, precarizzazione e compressione salariale. Il paradigma mercantilistico che hanno ripetuto in continuazione, a Bruxelles e a Roma, dovrebbe essere ribaltato.
Infine, negli ultimi venti anni la partecipazione politica è diminuita di 15 punti percentuali (37,6% tra i 25 e i 64 anni). Un numero che mostra la disaffezione alla politica da parte della cittadinanza, in un paese in cui i vincoli esterni, di bilancio o di guerra, hanno fatto sentire la popolazione sempre meno in grado di incidere su una classe dirigente lobbistica.
Il primo giugno la manifestazione nazionale è sì contro il governo, ma sarà anche la piazza che rappresenterà una reale alternativa a questa Italia che hanno costruito sullo sfruttamento e, troppo spesso, anche sul sangue dei lavoratori.
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