Dopo un lungo articolo sul Financial Times, Mario Draghi è tornato a tuonare contro le inerzie dell’Unione Europea in una audizione all’europarlamento di Strasburgo.
Sul Financial Times, Draghi, ieri aveva lanciato un appello affinché l’Unione Europea elimini le barriere commerciali interne all’unione che penalizzano la crescita economica, sottolineando come gli ostacoli imposti dagli Stati membri abbiano un impatto molto più negativo sull’economia europea rispetto ai possibili dazi che gli Stati Uniti potrebbero introdurre. In pratica le barriere interne hanno funzionato come dei dazi auto imposti attraverso regolamenti e normative che tecnicamente parlando, citando i dati del FMI, sono comparabili a una tariffa imposta del 110% per i servizi e del 45% per la produzione.
Nell’audizione al parlamento europeo Draghi ha allertato i paesi UE sul fatto che se le recenti dichiarazioni, da parte dell’amministrazione statunitense sui dazi commerciali ne delineano il futuro, “possiamo aspettarci di essere lasciati in gran parte soli a garantire la sicurezza in Ucraina e nella stessa Europa e per far fronte a queste sfide, è sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre di più come se fossimo un unico stato”.
Quando a settembre dello scorso era stato presentato il Rapporto Draghi sulla competitività europea, il tema geopolitico principale era l’ascesa della Cina. “Ora – ha affermato lo stesso Draghi – l’Ue dovrà affrontare i dazi da parte della nuova amministrazione statunitense nei prossimi mesi, ostacolando il nostro accesso al nostro più grande mercato di esportazione”. “Inoltre, le tariffe statunitensi più elevate sulla Cina reindirizzeranno la sovracapacità cinese in Europa, colpendo ulteriormente le aziende europee”, ha aggiunto l’ex governatore della BCE.
“In effetti, le grandi aziende dell’Ue sono più preoccupate per questo effetto che per la perdita di accesso al mercato statunitense. Potremmo anche trovarci di fronte a politiche ideate per attrarre le aziende europee a produrre di più negli Stati Uniti, basate su tasse più basse, energia più economica e deregolamentazione”, ha specificato. “L’espansione della capacità industriale negli Stati Uniti è una parte fondamentale del piano del governo per garantire che i dazi non siano misure inflazionistiche”, ha concluso Draghi.
A giudizio dell’ex governatore della BCE, ogni giorno che ritardiamo, la frontiera tecnologica si allontana da noi, “ma il calo dei costi è anche un’opportunità per noi di recuperare più velocemente. Innanzitutto, il ritmo dei progressi nell’intelligenza artificiale ha accelerato rapidamente” e “abbiamo visto modelli di frontiera raggiungere quasi il 90 per cento di accuratezza nei test di riferimento per il ragionamento scientifico, superando i punteggi degli esperti umani. Abbiamo anche visto modelli diventare molto più efficienti, con costi di formazione in calo di un fattore dieci e costi di inferenza di un fattore di oltre venti”.
“Per ora, la maggior parte dei progressi sta ancora avvenendo al di fuori dell’Europa. Otto degli attuali primi dieci grandi modelli linguistici sono stati sviluppati negli Stati Uniti, mentre gli altri due provengono dalla Cina”, ha affermato Draghi davanti al Parlamento di Strasburgo. La complessità della risposta politica sulle sfide globali coinvolgono “ricerca, industria, commercio e finanza” e richiede “un grado di coordinamento senza precedenti tra tutti gli attori” perché “il tempo non è dalla nostra parte, con l’economia europea che ristagna mentre gran parte del mondo cresce”.
“Dobbiamo creare le condizioni affinché le aziende innovative crescano in Europa anziché restare piccole o trasferirsi negli Stati Uniti. Ciò significa abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali e spingere per un mercato dei capitali più basato sul capitale azionario”, ha proseguito Draghi. “Spesso siamo noi stessi i nostri peggiori nemici in questo senso” e “abbiamo un mercato interno di dimensioni simili a quello degli Stati Uniti”, ha evidenziato. “Abbiamo il potenziale per agire su larga scala ma il Fondo monetario internazionale stima che le nostre barriere interne equivalgano a un dazio di circa il 45 per cento per la produzione e del 110 per cento per i servizi”, ha detto ribadendo quanto già scritto sul Financial Times.
Draghi è dunque tornato ad indossare i panni del profeta in patria ma, ancora una volta, sembra assolvere se stesso da ogni responsabilità.
In fondo ha avuto anche lui incarichi di altissima competenza nelle istituzioni europee – governatore della BCE dal 2011 al 2019. Erano gli anni in cui l’accelerazione verso la convergenza dei poteri decisionali nella Ue è stata fortissima, con sperimentazioni di “cinismo spietato” come nel caso dell’accanimento delle misure di austerity contro la Grecia.
Ma oltre a brutalizzare i paesi più deboli dell’Unione la classe dirigente europea non è sembrata voler andare oltre. Anzi no, ben oltre c’è andata, ma solo sul piano dell’avventurismo militare ed economico nella guerra contro la Russia in Ucraina sul quale Draghi è stato pienamente corresponsabile dal punto di vista politico e ideologico prima nella funzione di governatore della Banca Centrale Europea e poi come premier in Italia. I risultati negativi sono adesso ben visibili davanti agli occhi di tutti.
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