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25/02/2025

Sospensione senza ritiro della riforma Bernini sulla ricerca universitaria

La ministra Bernini ha annunciato la sospensione dell’esame del ddl 1240, la riforma della ricerca universitaria che ha sollevato molte voci di contrasto all’interno dell’ambito universitario. Ma nel frattempo, rimane un vuoto tragico nella regolamentazione del lavoro accademico, che porterà all’espulsione di migliaia di giovani precari della ricerca.

Rimane il nodo per cui l’iter legislativo è stato solo sospeso, e bisogna dunque pensare che riprenderà non appena le condizioni politiche renderanno possibile portarlo a termine, cioè una volta che saranno scemate nel tempo le proteste. Con i vertici del mondo accademico che invece hanno continuato a sostenere la riforma, sperando di continuare a contare su di un esercito di precari per continuare a far funzionare gli atenei italiani.

Bisogna innanzitutto ricordare che tra il personale docente, dei ricercatori e degli assegnisti di ricerca, senza includere le altre figure quali borsisti e contrattisti, la quota dei precari è passato dal 18,5% del 2010 al 45,32% del 2024. Molti di questi posti saranno inoltre falcidiati dalla fine dei fondi PNRR, rendendo anche impossibile qualsiasi prospettiva di approfittare del turnover per gli attuali giovani dottorandi.

La riforma che ha introdotto i contratti di ricerca al posto della selva di assegni e forme precarie di impiego, fatta nel 2022 perché legata agli obiettivi inscritti nel PNRR, è rimasta solo sulla carta. Già il governo Draghi che l’aveva licenziata aveva previsto molte proroghe e deroghe, consapevole di non poter garantire i finanziamenti necessari per applicarla.

Ora si apre dunque una fase transitoria in cui proroghe e deroghe andranno a scadere, senza strade alternative e portando all’espulsione di migliaia di ricercatori. La riforma Bernini, in un certo senso, puntava a riallineare la realtà con la normativa, restaurando vari percorsi precari di impiego.

La Conferenza dei Rettori, la CRUI, si è invece espressa per continuare sulla strada impostata dalla ministra. L’accademia italiana oggi funziona proprio grazie allo stuolo di giovani dottorandi e ricercatori, mal pagati e ricattabili, su cui è imposta una mole di lavoro enorme per sopperire alle mancanze strutturali delle università.

Di questo i rettori vogliono continuare ad approfittare, mentre hanno evitato di condannare con forza la mancanza di fondi. Si tratta di una beffa la promessa della ministra di 37,5 milioni di euro per i contratti di ricerca, non solo perché briciole rispetto alle necessità, ma anche perché si tratta di soldi già dovuti, secondo gli obblighi previsti proprio dal PNRR.

Inoltre, stando alle precedenti leggi di bilancio, il Fondo di Finanziamento Ordinario, principale entrata degli atenei, doveva contare circa 9,5 miliardi nel 2024, e passare a poco meno di 9,6 miliardi nel 2025. Al contrario, se diamo per scontato che gli annunci fatti verranno davvero rispettati, nel 2025 si dovrebbe arrivare concretamente a circa 9,4 miliardi.

Ciò si ripercuote anche sul personale tecnico-amministrativo, per il 5% assunto in maniera precaria, a cui vanno aggiunti i lavoratori di aziende a cui sono stati appaltati vari servizi. Una situazione creata ad arte anche per favorire l’accesso dei privati nella ricerca, essendo l’unico canale attraverso cui reperire fondi.

Sono poche le forze che parlano di ciò di cui ha davvero bisogno l’università italiana: portare i finanziamenti universitari almeno all’1,5% del PIL della media OCSE, mentre in Italia sono fermi intorno all’1%, stabilizzare i precari e reinternalizzare i servizi, impedire l’accesso dei privati che orientano la ricerca secondo il ritorno di bilancio, e infine cancellare la logica premiale che ha creato atenei di serie A e atenei di serie B.

Per uscire dal cul-de-sac in cui è stata gettata l’università, questa è l’unica strada.

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