La pandemia aveva mostrato da una parte lo stato colabrodo della sanità pubblica, al punto da dover contare su medici e aiuti cubani e russi. E dall’altra l’assoluta inutilità e persino pericolosità del privato in un momento emergenziale, con una sanità frammentata e non centralizzata.
Tutti, inoltre, ci ricordiamo delle stragi avvenute nelle strutture residenziali per anziani, e pensavamo che almeno qualcosa sarebbe cambiato in questo ambito. Invece, i dati pubblicati recentemente dall’Istat mostrano come il percorso di regionalizzazione continui a impattare largamente il reale accesso ai servizi sanitari nel nostro paese.
Lo studio dell’istituto di statistica si riferisce all’anno 2023 e riguarda le strutture residenziali socio-sanitarie e socio-assistenziali, che accolgono persone appartenenti a categorie fragili, per brevi periodi o a tempo indeterminato, e per i quali è necessaria una particolare attenzione da parte dell’autorità sanitaria.
Come leggiamo nel rapporto, le prime erogano servizi con “livelli di assistenza sanitaria bassa o assente a minori, stranieri, persone con dipendenze, donne vittime di violenza, adulti con disagio”, mentre le secondo forniscono “livelli di assistenza sanitaria medio alta a persone non autosufficienti, con disabilità o patologie psichiatriche”.
Le persone che hanno bisogno di questo tipo di sostegno stanno purtroppo aumentando in Italia: se nel 2022 ne hanno usufruito in 356.556, nel 2023 questo numero è aumentato a 362.850. E considerato che circa tre quarti dei residenti sono anziani, è facile collegare la dinamica anche all’invecchiamento progressivo della popolazione.
Ma, in maniera opposta, il numero dei presidi residenziali sta diminuendo. Infatti, se nel 2022 erano 12.576, nel 2023 erano 12.363, con l’offerta di posti letto che si è abbassata da circa 414 mila a quasi 408 mila, anche se per le dinamiche demografiche il numero di posti letto rimane stabile a 7 ogni mille abitanti.
Visti i numeri si potrebbe dunque pensare che il sistema riesce a garantire la copertura rispetto alle esigenze della popolazione. Ma se si va a guardare nel dettaglio la distribuzione regionale dei posti letto, ci si accorge che mentre nel Nord-Est essi sono 10 ogni mille abitanti, nel Meridione questi scendono a 3.
Risulta quindi evidente la disparità di accesso al servizio che deriva dalla frammentazione del paese in 20 sistemi sanitari regionali differenti, a cui si aggiunge la netta ritirata del pubblico tout court. Infatti, si legge nel rapporto, “la titolarità delle strutture è in carico ad enti non profit nel 45% dei casi, agli enti privati nel 24%, agli enti pubblici nel 19% e agli enti religiosi nel 12%”.
È il Terzo Settore a farla da padrone, ovvero quel mondo di enti senza scopo di lucro, che spesso sono in realtà vere e proprie macchine da soldi che si accaparrano bandi e fondi stornati dal pubblico per essere dati al privato. Per dare poi sostanzialmente lo stesso servizio, se non di qualità peggiore perché comunque legato a una logica di bilancio, con effetti anche sull’occupazione.
In questi presidi residenziali ci sono “373.462 unità di personale, di cui 32.896 volontari e 3.756 operatori di servizio civile”. Non solo questo mondo si fonda in maniera sostanziale sul volontariato e sul servizio civile, ma assorbe anche i lavoratori espulsi dal pubblico garantendo però meno tutele.
Infatti, tra il personale retribuito la maggioranza è fatta di professionisti in ambito sanitario, ma “è occupato con un regime orario ridotto il 41% dei dipendenti retribuiti, di cui ben il 17% con un impegno orario al di sotto del 50% rispetto al tempo pieno”. La quota di stranieri impiegati nelle strutture è del 12%, due su tre extraeuropei: sicuramente, tra le categorie più facilmente ricattabili.
Va inoltre sottolineato come, anche quando la struttura è pubblica, essa può finire in gestione a enti privati. E anche in questo caso c’è una netta distanza tra il Nord, dove il 26% delle strutture pubbliche sono gestite da enti no profit, e il Centro-Sud, dove questa percentuale viaggia sul 36-37%, con una crescente disarticolazione del sistema pubblico.
Oggi si continua a parlare di Autonomia Differenziata, ma la realtà è che bisognerebbe tornare indietro e ribaltare tutto il percorso cominciato sin dalla riforma del Titolo V della Costituzione per tornare a servizi pubblici davvero funzionali e funzionanti.
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