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27/02/2025

E mo’ sò dazi...

Fine delle chiacchiere, ora si fa sul serio. Nella prima riunione del suo governo, presente anche Elon Musk – che dunque dovrebbe essere considerato un “ministro” – Donald Trump ha confermato di aver preso la decisione di imporre dazi “del 25%” sui prodotti europei. Quanti avevano sperato che si trattasse solo di sparate minacciose per contrattare qualcosa su altri piani (la guerra in Ucraina, ecc.), o che ci fosse spazio per un trattamento individuale diverso (Meloni, insomma), devono ora fare i conti con la realtà.

Anche perché il tycoon ha dichiarato ufficialmente guerra all’Unione Europea in quanto tale: “non accetta le nostre auto o i nostri prodotti agricoli, si approfitta di noi. Io amo i Paesi della Ue, ma siamo onesti: l’Unione Europea è nata per fregare gli Stati Uniti e sta facendo un buon lavoro, ma ora sono io presidente”. Non preoccupa insomma soltanto quel che “l’Europa” fa, ma il fatto stesso che esista e si concepisca come un competitor sul mercato mondiale, con ambizioni “strategiche” certo velleitarie ma coltivate a lungo.

Al di là delle dichiarazioni di circostanza, come quelle europee che promettono immediata risposta sullo stesso piano, è bene tener d’occhio il dato economico e politico più rilevante, che non a caso è stato inquadrato seriamente soprattutto dagli industriali italiani, che sanno benissimo quanto i loro profitti derivino dall’essere contoterzisti della Germania e dunque secondo paese europeo nella classifica delle esportazioni verso gli Usa.

“È un cambio di paradigma, inaspettato e incredibile quello che arriva dagli Stati Uniti – commenta il presidente di Confindustria Orsini –. La minaccia non è quella di un impatto solo sulle dinamiche commerciali. La verità è ben più drammatica: qui si rischia la tenuta economica e sociale di molti stati dell’Unione e dell’Unione stessa. Quello che arriva dalla leadership americana è un attacco alle imprese e al lavoro europei. Il vero obiettivo è la deindustrializzazione del nostro continente, e quindi dei suoi livelli occupazionali”.

Una dichiarazione di guerra, abbiamo detto. Peraltro già implicita nella volontà di dare via libera all’uso delle stablecoin per favorire il deflusso del risparmio privato dai mercati europei verso Wall Street.

Una guerra dei dazi e monetaria che non solo mette fine a 80 anni di “amicizia” tra le due sponde dell’Atlantico (in realtà come sappiamo bene, un rapporto di sudditanza e di “sovranità limitata” da parte europea), ma mina tutti i pilastri di una relazione stabile. I rapporti economici, infatti, veicolano e facilitano tutti gli altri. Impostarli in termini di concorrenza feroce – mors tua, vita mea – è il modo migliore di spaccare tutto anche su altri piani.

Inevitabilmente, oltre alla presa d’atto della guerra aperta, Confindustria si preoccupa subito di passare all’incasso, chiamando il governo (e i governi di tutta Europa) ad agire subito secondo direttive che Orsini sintetizza velocemente: “Voglio citare tre linee di azione nette: sburocratizzazione, meno norme: il Clean Industrial Deal deve essere un patto per la crescita, non per la decrescita. Stop a multe e a dazi autoimposti sulla manifattura europea. E serve un piano industriale per la crescita economica e sociale europea”.

Poca roba, vien da dire, ma “vasto programma”... Chiamare in causa la burocrazia, infatti, nel linguaggio confindustriale significa sempre “meno controlli”, sia contabili che sull’attività produttiva (emissioni e sversamenti inquinanti, componenti dannosi, sicurezza sul lavoro, ecc.). Sono cose che angosciano già ben poco le imprese e non sarò difficile ottenere ancora più “briglie sciolte”.

Ma un “piano industriale per la crescita economica e sociale europea” è un sogno impossibile, visti i criteri costitutivi della comunità economica continentale, orientati alla più cinica concorrenza anche interna.

Ma anche questo appello contraddittorio – “più libertà alle aziende, ma con una programmazione continentale” – rende bene la confusione che regna da queste parti con l’avvento del “ciclone Trump” e la rottura ormai plateale dell’“asse euro-atlantico”.

Anche perché è ormai evidente che le vecchie ricette su cui era sopravvissuta tutta l’industria europea – salari bassi o congelati ai livelli di venti anni fa, aiuti pubblici alle imprese e alle esportazioni, riduzione dei diritti del lavoro, ecc. – ormai non bastano per mantenere la “competitività” con le produzioni degli ex paesi del “Terzo Mondo”.

È di questi giorni, per esempio, l’allarma che arriva dalla Francia, dove Michelin – uno dei principali produttori di pneumatici e “orgoglio nazionale” – va chiudendo uno stabilimento dopo l’altro, mettendo in strada qualche migliaio di lavoratori, nonostante i 3,6 miliardi di profitti registrati nel 2023. Lo stesso sta accadendo a Valeo, ArcelorMittal, Auchan.

I miliardi concessi sotto forma di agevolazioni fiscali (per la ricerca e sviluppo o per altre motivazioni “creative”) possono, come nel caso di Michelin, gonfiare i profitti aziendali, ma non risolvono il problema e non invertono dunque il declino industriale. Una prova empirica viene dal panorama delle industrie dominanti ancora oggi in Europa: sono le stesse di 25 anni fa. È rimasto tutto fermo, senza innovazione né ricerca di nuovi settori (informatica e intelligenza artificiale, qui, sono parole esotiche, dopo la chiusura della francese Bull o dell’italiana Olivetti).

L’inevitabile riduzione delle esportazioni verso gli Usa, in conseguenza dei dazi, si abbatte come una tempesta su una nave già rabberciata e mal progettata.

La UE prepara “piani”, cerca soldi e promette investimenti. Ma avviare nuovi settori produttivi richiede anni (mancano le competenze, tanto per cominciare), e certamente non impiegheranno i lavoratori che oggi o nei prossimi anni perderanno il lavoro (difficile che un operaio della Michelin o della Renault possa diventare ingegnere informatico...).

È la fine di un modello di sviluppo fondato sulla “furbizia”. Che somiglia molto da lontano all’intelligenza, finché non viene scoperta...

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