Sappiamo bene che la spina dorsale dell’industria europea è l’automotive, che però si trova di fronte a una profonda crisi. Al punto che il prossimo 5 marzo la Commissione Europea licenzierà un piano d’azione apposito per sostenere il settore.
Ma c’è chi ha capito che un’epoca è finita e, forse, ne inizierà un’altra per Bruxelles, con priorità ben differenti. Rheinmetall, il colosso tedesco degli armamenti, ha annunciato a Reuters che ha intenzione di convertire due suoi impianti verso una produzione ibrida, civile-militare.
Il progetto deve ancora essere finalizzato, ma la società ha fatto presente all’agenzia di stampa britannica la volontà di trasferire gli stabilimenti di Berlino e Neuss alla divisione Armi e Munizioni della società. Seppur continueranno a produrre componenti per l’industria automobilistica, cominceranno a realizzarne anche per mezzi militari.
“Gli impianti beneficeranno della forza industriale che il Gruppo Rheinmetall possiede come importante fornitore di attrezzature militari – hanno scritto a Reuters –, nonché dell’elevata domanda da parte dei clienti in Germania e nel mondo”. L’obiettivo è dunque puntare sul riarmo europeo, unico tema su cui i vertici del continente sembrano essere d’accordo.
I dati di mercato sembrano dar ragione a Rheinmetall: il suo utile operativo su armi e munizioni è quasi raddoppiato nei primi nove mesi del 2024, mentre la divisione automobilistica ha registrato un calo del 3,8%. Anche KNDS, che divide la proprietà tra tedeschi e francesi, ha annunciato l’acquisizione di uno stabilimento ferroviario a Görlitz per riadattarlo alla produzione di veicoli blindati.
Sempre Reuters riporta che alcuni economisti della Deutsche Bank hanno calcolato che raggiungere il target del 2% di spesa militare, come previsto dalla NATO, significherà miliardi e miliardi in arrivo per il settore. Ma hanno sottolineato anche che, dei 200 miliardi spesi in equipaggiamenti della difesa dai paesi europei nel corso del 2022, solo 40 miliardi sono finiti a fornitori della UE.
Qui emerge uno dei due nodi che bisogna porre in evidenza. Per quanto si siano avuti processi di fusione o si siano create importanti joint venture – come quella tra Leonardo e la stessa Rheinmetall – tra i grandi attori della difesa europea, il complesso militare-industriale comunitario rimane ancora frammentato, dispersivo, incapace di porsi come motore di un nuovo, pericoloso, modello di sviluppo.
E qui giungiamo al secondo nodo. Se parliamo invece dell’automotive, le sue filiere occupano nel complesso 13 milioni di persone e producono intorno all’8% del PIL comunitario. Ma soprattutto, assorbono il 32% degli investimenti in Ricerca e Sviluppo: è, senza ombra di dubbio, il fulcro dell’industria europea.
Allo stesso tempo, è un settore che, per le caratteristiche che ha assunto alle latitudini occidentali, si fonda sostanzialmente sul consumo privato. Un consumo che è però messo in difficoltà dalla costante compressione della domanda interna (se i salari restano bassi e non tengono il passo dell’inflazione, c’è sempre meno da comprare) e dalle guerre commerciali, subite – da Washington – o promosse – contro Pechino.
Allora la domanda è: può il comparto militare prendere il posto dell’automotive come perno dell’economia UE? Sicuramente no in termini di riassorbimento dell’occupazione persa in altri settori, ma implica anche la prospettiva di avere necessariamente “più Stato”, sia nei processi economici sia nella loro direzione. Ma non a beneficio dei cittadini. Anzi...
Significherebbe, soprattutto, avere una classe politica capace e mostrare flessibilità nel trasformare il modello di sviluppo. Due cose che per la classe dirigente europea sembrano impossibili.
Ma intanto, la deriva bellicista continua, con i grandi gruppi industriali che ci puntano... E questo è già un segnale preoccupante.
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