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17/02/2025

Sanremo 2025 - Pagelle e analisi del Festival

Nonostante i cinque anni di direzione artistica di Amadeus abbiano contribuito a svecchiare sia i concorrenti che il pubblico del Festival di Sanremo, continua a essere combattuta la decisione di partecipare alla più importante rassegna musicale della nostra penisola da parte di artisti non appartenenti al circuito mainstream. Più di qualcuno teme di mettere a rischio credibilità e coerenza, con i propri fan che potrebbero non comprendere la decisione di inserirsi in un evento che resta profondamente nazional-popolare. Nel tempo si è però fatta sempre più autorevole la lista di artisti di area indipendente (possiamo chiamarli ancora "alternativi"?) che hanno deciso di mettersi in gioco, esibendosi sul palco del Teatro Ariston senza snaturarsi. Limitandoci agli ultimi trent’anni penso ad esempio ai Bluvertigo e ai Subsonica, a Mauro Ermanno Giovanardi, ai Marlene Kuntz e agli Afterhours (forse è cambiato tutto proprio con loro), a Daniele Silvestri, Motta e Zen Circus. L’opportunità di far ascoltare una canzone di tre minuti alla platea più vasta possibile è determinante: non esistono altre possibilità in Italia per incollare oltre dodici milioni di telespettatori davanti lo schermo già al martedì sera, in un mondo dominato da un numero crescente di piattaforme streaming dove puoi trovare qualsiasi tipo di contenuto in qualsiasi momento. Oltre dodici milioni di persone erano sintonizzate su Rai1 già martedì 11 febbraio, prima serata dell’edizione 2025 del Festival di Sanremo, con share da finale di Coppa del Mondo di calcio.

Preso atto del fatto che non necessariamente essere in gara debba scalfire la propria dignità artistica (in alcuni casi non porta neanche particolari benefici, ma questo è un altro discorso), quest’anno il “popolo indie” ha potuto ammirare tre belle proposte: Lucio Corsi, Brunori Sas e Joan Thiele. Potremmo interpretarla come una nuova modalità di essere “indie” negli anni Venti? Andare a Sanremo non per esprimere la volontà di salire sul carrozzone del mainstream, ma per portare varietà, per portare sé stessi, per provare a cambiare le cose dal di dentro.

Lucio Corsi già dopo la prima serata porta a casa il premio di Assomusica (l’Associazione Italiana degli Organizzatori e Produttori di Spettacoli di Musica dal Vivo) per la migliore esibizione live di un artista “rivelazione”, e quello del Mei (il Meeting delle Etichette Indipendenti) che gli conferisce la Targa come “Miglior Artista Indipendente”. Poi vincerà anche il Premio della Critica intitolato a Mia Martini e si piazzerà al secondo posto in classifica generale, dietro il vincitore Olly. Un vero trionfo per un cantautore che colpisce al cuore per la sua purezza, che sui social mentre fornisce il proprio codice identificativo per il televoto invita a votare chiunque, perché nella musica non è importante chi vince. Lucio conquista subito le simpatie di tutti, grazie al personale mix di David Bowie e Ivan Graziani, presentandosi sin dalla prima serata come un piccolo bignamino di sé stesso, utilizzando i vestiti di scena che indossa da anni, che gli consentono di trovarsi a proprio agio anche in un contesto completamente nuovo. “Volevo essere un duro”, ma anche il duetto con Topo Gigio del giovedì sera (che si piazza al secondo posto), consente anche a chi lo sta ascoltando per la prima volta di comprendere in maniera fedele il personaggio e il suo stile. Un talento vero che grazie a Sanremo conquista la visibilità che merita.

La 75esima edizione del Festival registra il ritorno della direzione artistica nelle mani dell’abbronzatissimo Carlo Conti. Il presentatore toscano mostra di avere sempre la situazione saldamente sotto controllo, serra i tempi chiudendo le esibizioni ogni sera in tempi umani, sfoderando un Festival che rappresenta il trionfo iper-rassicurante del concetto di famiglia, l’affermazione dell’ordinarietà, persino con il Papa che interviene in video la prima sera per affermare come la musica possa essere riconosciuta come strumento di pace, e dove bastano due versi di Simone Cristicchi per far piangere l’intera platea.

Per entrare nel merito dei singoli concorrenti vi rimando poco più in basso, con le pagelle ed i commenti curati dalla nostra redazione, ma oltre alle canzoni (anche se nei giorni del Festival più che delle canzoni si è parlato dei fisici palestrati dei maschietti e delle silhouette di Clara, Gaia ed Elodie) e al numero spropositato dei co-conduttori, questa edizione passa in archivio per l’iper-ritmico show di Jovanotti, per il rinnovato Damiano David in coppia con Alessandro Borghi, per l’altra Maneskin Victoria che si tuffa nel set dei Duran Duran a quarant’anni da “Wild Boys”, per Benigni, Tamberi e i ragazzi del Teatro Patologico diretti da Dario D’Ambrosio, per Edoardo Bennato che ricorda a tutti che alla fine “sono solo canzonette”.

Il nostro applauso speciale va alla sempre troppo poco lodata orchestra e a tutti gli artisti indipendenti che invece di restare rinchiusi nel limbo underground mostrano come sul palco più complicato d’Italia si possa salire, eccome, portando sé stessi e la propria musica, senza snaturarsi, senza compromessi. E c'è voluto Dario Brunori (terzo in classifica generale, premiato per il Miglior Testo) per ricordare un grande che ci ha lasciato soltanto poche settimane fa: Paolo Benvegnù.
(Claudio Lancia)

Le pagelle

Achille Lauro - "Incoscienti giovani"
Ormai partecipante fisso di Sanremo, in passato ha portato brani più o meno convincenti, perlomeno quando ha premuto sull'acceleratore, ma a questo giro se ne esce con una ballata nel massimo rispetto dei più diabetici stereotipi sanremesi, con svenevoli colate di archi e testo romantico di rara banalità ("Amore mio veramente, se non mi ami muoio giovane, ti chiamerò da un autogrill, tra cento vite o giù di lì"). Anche il canto biascicato più che una peculiarità è ormai un'arma a doppio taglio e risulta caricaturale. Si potrebbe inoltre aprire una parentesi sullo stato della musica mainstream italiana attuale e sul fatto che i cantautori stiano scomparendo. Non viene più dato spazio ad artisti in grado di scrivere i propri brani senza l'apporto di una catena di montaggio spersonalizzante: per un pezzo come questo sono servite sette persone.
Voto: 4
(Federico Romagnoli)

Bresh
- "La tana del granchio"
Già il successo di Bresh è un mezzo mistero, più di Olly, poi questa partecipazione sanremese non aiuta. È in quota giovani che sembrano vecchi, infatti porta un brano che rimanda al cantautorato tradizionale, che lui interpreta senza strafare al contrario del succitato collega tutto apnea e intensità. A suo modo l’opposto di Cristicchi, scarta dal partner in difficoltà dicendo che ripassa quando vuole guarire. La verità è che scorre senza lasciare il segno, medio cantante con media canzone in un’edizione media. Certo, se si ripensa a Ultimo questo è molto meglio, e merita almeno un voto doppio.
Alle cover suona tre volte De André padre con De André figlio, per problemi tecnici, bruciando le tappe e diventando un veterano del palco dell’Ariston.
Voto: 4
(Antonio Silvestri)

Brunori Sas - "L'albero delle noci"
“Sanremo è il mio palco naturale, tutto ciò che sta accadendo in questi mesi è una sorta di allenamento per il grande momento in cui lancerò galatine al cioccolato alla platea in delirio. Tra l'altro ho già il brano pronto, per cui, come succede per i professori, attendo solo di raggiungere il punteggio per salire in graduatoria ed entrare di ruolo”. A raccontarcelo fu Brunori Sas sedici anni fa, ai tempi di “Vol. Uno”. Parole che oggi tornano utili perché il cantautore calabrese ha finalmente esordito all’Ariston. Lo ha fatto a 47 anni e con un sorriso stampato sulla faccia dal giorno in cui ha saputo di esserci. Manco fosse un Olly. O uno dei Jalisse. La canzone è stata scritta ben altro che nel 2009, visto che è una dedica in chiave degregoriana alla piccola figlia. Peccato che del cantautore romano resti solo un’imitazione posticcia. Gli esami di maturità come canta(va) un altro grande cantautore romano e stelle polari subentrano prima del ritornello spinto dagli archi che lo riporta nella sua dimensione più antica, quella appunto di “Vol. Uno”. Manca però quel quid genuino, grezzo e roboante che ne faceva all’epoca un autore meravigliosamente disperso e in fuga da una terra avara con chi della musica ne vorrebbe fare sempre e comunque un vero mestiere.
Voto: 5,5
(Giuliano Delli Paoli)

Clara - "Febbre"
Ci riprova, ancora più sicura della propria bellezza statuaria… ma va peggio quando prova a muoversi o, ancora peggio, ballare. Il brano è un veloce pop elettronico misto rap dove alterna due o tre idee, ma la prova vocale è modesta, il testo noiosetto, la melodia dimenticabile. Fuori dalla canzone lei sembra anche simpatica, persino buffa. L’unica esibizione che guadagna qualcosa senza volume: non è un buon segno. "The Sound Of Silence" (Simon & Garfunkel) con Il Volo momento doloroso da vedere e ascoltare, violenza culturale.
Voto: 4
(Antonio Silvestri)

Coma_Cose - "Cuoricini"
Praticamente è una "Sarà perché ti amo 2.0". Se siete fan dei Ricchi e Poveri, può quindi fare per voi, mentre chi all'epoca di "Anima lattina" ha gridato al miracolo masticherà amaro nel constatare una tale china discendente. C'è veramente poco altro da dire. Abdicata ogni pretesa di rientrare nell'intellighenzia del pop indipendente italiano, il duo si adatta ai tormentoni preconfezionati e spera probabilmente di agganciare TikTok ("Ma tu volevi solo cuoricini, cuoricini, pensavi solo ai cuoricini, cuoricini, stramaledetti cuoricini, cuoricini"). A questo punto sarebbe il caso di trarre le dovute conclusioni: probabilmente anche "Anima lattina" non rappresentava il miracolo che all'epoca si è detto.
Voto: 4
(Federico Romagnoli)

Elodie
- "Dimenticarsi alle 7"
Vittima, ovviamente, dei berci dei maschi infoiati dell’Ariston, è stata elegante sul palco ma il brano, pieno di allunghi sulle vocali, la mette in difficoltà spesso. C’è il beat da ballare e quando accenna a ballare, basta che muova un fianco e passa un po’ tutto in secondo piano. Ci si poteva aspettare però qualcosa di più spregiudicato, invece gli archi imbrigliano tutto e conferiscono, al massimo, un qualcosa di decadente e cinematografico. Poteva essere l’occasione di segnare una distanza con il resto dei concorrenti, invece ne esce un po’ omologata. Diverte di più nella serata cover con Achille Lauro, dove diventa pantera, ruggisce e ammicca, conquista con un pizzico di divertita autoironia.
Voto: 5
(Antonio Silvestri)

Fedez
- "Battito"
Arriva sul palco schiacciato dal gossip, con tutti gli occhi puntati su di lui e i fucili già carichi. Il brano, invece, ha una sua potenza espressiva, lui riesce a rappare senza sbagliare nulla e a cantare in modo limitato ma meno imbarazzante di altri. Trova con le lenti a contatto nere l’unica soluzione davvero da ricordare di tutta l’edizione, uno sguardo magnetico, impossibile da ignorare. Manca totalmente di ironia, una malattia condivisa da troppi altri, e chiaramente spettacolarizza l’ansia e il malessere, ma quantomeno non c’è il ricatto morale implicito di altri. Alle cover inscena il pernicioso brano-sandwich: l'originale "Bella stronza" di Masini viene opportunamente epurata di alcune fantasie di stupro ed eufemismi in zona violenza domestica per essere rimpinzata di nuove strofe rappate, su una relazione tossica. Alla fine, Fedez esce da tutto questo rinforzato, praticamente rinato: maestro assoluto nel gestire l'hype nell'attuale contesto mediatico, è risultato meno terribile di buona parte del suo recente catalogo.
Voto: 5
(Antonio Silvestri)

Francesca Michielin - "Fango in Paradiso"
In un'intervista rilasciata pochi giorni prima dell'inizio del Festival, Francesca Michielin ha tenuto a sottolineare quanto la sua canzone sarebbe stata influenzata dalle atmosfere di “Folklore”, il primo dei due introspettivi album indie-folk realizzati da Taylor Swift in piena pandemia. Durante l’ascolto di “Fango in paradiso” risulta però arduo trovare chissà quali punti di reale contatto con il songwriting della cantautrice americana, giusto il tema trattato: un amore giunto al capolinea. La seconda esibizione, quella del mercoledì sera, Francesca la termina in lacrime: non sappiamo se per essersi troppo immedesimata nella narrazione - evidentemente autobiografica - oppure per non aver potuto avere accanto a sé un Aaron Dessner, un compositore-arrangiatore capace di elevare le idee della cantante a un livello più autorevole e coinvolgente. Ne esce invece il consueto crescendo nazional-popolare, molto sanremese, senza particolari rischi, come ne abbiamo ascoltati a migliaia. Sempre deliziosa la Michielin, ma - con tutto il rispetto per Raina e Simonetta - le auguriamo di intercettare in futuro autori che sappiano slanciare ulteriormente le grandi potenzialità della sua voce. Che tutti ben conosciamo.
Voto: 6,5
(Claudio Lancia)

Francesco Gabbani - "Viva la vita"
Sorridente come non mai, vestito sempre come se fosse stato assoldato per un matrimonio un po’ kitsch, è un concentrato di good vibes che stucca velocemente, l'antitesi dei tristicchi. Il brano si apre con una mezza citazione di “Knockin’ On Heaven’s Door”, poi lui gigioneggia lungo tutto il testo, scioglie le vocali e trasforma ogni cosa in un fiume di uiua lua uita dove ammicca, mima un po’ il testo, lo interpreta come se fosse una questione di teatro, di smanacciate. La canzone però non c’è proprio e lui fa anche un po’ di fatica sugli acuti. Smanceroso. Malus a vita per aver portato dei bambini sul palco come un Mr. Rain qualsiasi.
Voto: 3,5
(Antonio Silvestri)

Gaia - "Chiamo io chiami tu"
Tocca a Gaia aprire la settantacinquesima edizione del Festival con “Chiamo io, chiami tu, un brano che, nelle intenzioni, sembra uscito direttamente dal manuale del perfetto produttore musicale: ritornello leggero e orecchiabile, un titolo che richiama le hit estive e una voce calda e spensierata. Ma qualcosa dev’essere andato storto nelle dosi degli ingredienti. Il ritornello è fin troppo leggero ma non abbastanza orecchiabile, mentre il testo è indimenticabile solo per l’irritazione che lascia nell’ascoltarlo. Alla fine, però, Gaia ottiene esattamente ciò che cercava dal Festival: una passerella che la proietti verso le prossime avventure radiofoniche. Molto meglio la sua serata delle cover, dove il duetto con Toquinho le regala un vero momento musicale.
Voto: 4,5
(Fabio Ferrara)

Giorgia - "La cura per me"
Non ha più la voce di una volta. È inutile girarci intorno. Canta benissimo, ci mancherebbe. Ma le manca la spinta soul che aveva negli anni '90. Il brano è una ballata sanremese cucitale addosso per vincere, con il ritornello azionato da un “oh, oh, oh, oh, oooh” in tipico stile Giorgia che ormai è aria fritta. “La cura per me” è la classica canzone con motivetto agrodolce trita e ritrita nei secoli dei secoli tra i vicoli della città dei fiori. Tra un mese non se ne ricorderà più nessuno, a parte qualche fan irriducibile. Finanche le radio faticheranno a passarla. Forse.
Voto: 5,5
(Giuliano Delli Paoli)

Irama - "Lentamente"
Irama torna a Sanremo con "Lentamente", brano che vanta tra gli autori l’onnipresente Blanco, quasi a certificare che quest’anno non si può fare a meno di lui. La canzone è un compendio dei cliché che il cantante di Carrara ha reso il suo marchio di fabbrica: struggimenti in dosi massicce, ululati da lupo ferito e drammi sentimentali da gridare con la disperazione di chi scopre che il telefono è al 2%. Il tema? Un amore che si sgretola lentamente, proprio come l’originalità nei suoi pezzi. Strofe lamentose, abbondanza di passati remoti e crescendo emotivo che potrebbe cantare con la forza della sua voce (almeno quella ce l’avrebbe...) ma questa volta l’autotune lo trasforma in un cyborg che soffre per amore. C’è qualcosa di positivo in tutto questo? No!
Voto: 4
(Fabio Ferrara)

Joan Thiele - "Eco"
Molti si saranno chiesti chi fosse Joan Thiele, outsider di questa edizione nonostante la recente vittoria al David di Donatello e la collaborazione con Elodie. E altrettanti avranno faticato a pronunciare correttamente il suo cognome dal suono esotico. Ma alla fine, pur senza portare a casa un premio ufficiale, si può dire che sia stata una delle vere vincitrici del Festival. "Eco" ha un groove avvolgente, un giro di basso incisivo e un’atmosfera che Joan attraversa con eleganza felina, muovendosi con sicurezza tra sofisticazione e graffi di chitarra elettrica. Il brano è un continuo gioco di equilibri, tra momenti sospesi e improvvise aperture che tengono alta l’attenzione fino all’ultimo secondo e ha come punto di forza  un ritornello che si insinua lentamente ad ogni ascolto.
Voto: 7
(Fabio Ferrara)

Lucio Corsi - "Volevo essere un duro"
Corsi è il menestrello atipico che in un Festival tipico come quello di Conti volerebbe alto a prescindere. La canzone è corsiana e sembra uscita da uno dei suoi ultimi due dischi, con l'immancabile parte di chitarra alla Mick Ronson, il che è un bene per milioni di italiani che fino alla scorsa settimana non sapevano manco chi fosse Lucio Corsi e da dove arrivasse. Un po’ troppo vittimismo nel testo, che comunque piace a moltissimi, soprattutto in quest’epoca di confessionali a buon mercato. Si porta appresso Topo Gigio nella serata delle cover per strizzare l'occhio agli ultra-cinquantenni e lo si può anche provare a capire. "Volevo essere un duro" non è di certo il suo brano migliore, al netto del ritornello "radiofonico", ma è potenzialmente il gancio utile per mostrarsi ai quattro venti e uscire finalmente a largo dopo aver raccolto tutte le conchigliette insieme con gli amichetti dei circuiti cosiddetti indie.
Voto: 6
(Giuliano Delli Paoli)

Marcella Bella - "Pelle diamante"
Cara Marcella, ti scrivo, così mi distraggo un po’. Perché è difficile valutarti senza pensare a quando eri regina tra le regine della canzonetta italiana. Torni su qual palco con una canzone poco pulsante, né carne né pesce, né antica né giovane, e tantomeno spendibile per una peperonata di notte ad Agosto. Ti si perdona tutto e ti si vuole bene quando ringrazi quel mito di tuo fratello, seduto in prima fila all’Ariston per applaudirti. Anche se i suoi e quelli di tutti noi sono soltanto applausi di gloria passata. Il presente è un’altra storia.
Voto: 5,5
(Giuliano Delli Paoli)

Massimo Ranieri - "Tra le mani un cuore"
Le capacità artistiche di Ranieri sono indiscutibili: attore, presentatore televisivo, cantante a suo agio sia con la musica leggera, sia con quella tradizionale, alla bisogna anche un valido ballerino, il suo ventaglio di soluzioni è impressionante. Per questo motivo dispiace che, ogni volta che si presenta a Sanremo, lo faccia con una variazione della stessa ballata. Non sempre necessariamente d'amore ("Lettera di là dal mare", nel 2022, toccava il tema dell'immigrazione), ma sempre con lo stesso tono lento e drammatico appesantito da un'orchestra più che mai invasiva. La sua carriera musicale, più variegata di quanto non si creda, testimonia che avrebbe molte più opzioni fra cui scegliere: invece, in questo contesto sembra preferire l'usato sicuro, ed è un peccato.
Voto: 5
(Federico Romagnoli)

Modà - "Non ti dimentico"
Kekko a un certo punto ha messo in bilico la sua presenza e quella dei suoi specchi Modà a Sanremo. Purtroppo ha deciso di esserci. E di tornare all’Ariston con l’ennesima sviolinata da urlare ai quattro venti tra parole banali su divorzi alle porte e alzate di tono da karaoke. Si vorrebbe scrivere altro ma è impossibile dire di più su una variante annacquata di Massimo Di Cataldo che piange e strilla.
Voto: 4
(Giuliano Delli Paoli)

Noemi - "Se t'innamori muori"
Noemi è una di quelle artiste che, un po’ come Orietta Berti, è difficile non trovare simpatica. Ha una voce riconoscibile, un timbro che mette tutti d’accordo e una carriera solida, ma sempre in bilico tra il successo e l’occasione mancata. Veterana di Sanremo con otto partecipazioni, è rimasta sempre sufficientemente popolare da restare nei giri che contano, senza però mai raggiungere quell’esplosione definitiva. Si sperava allora che il brano scritto da Mahmood le concedesse finalmente un guizzo, una melodia capace di sorprenderci e dare una svolta alla sua carriera. E invece no: ancora una volta, la canzone è la solita canzone di Noemi, e nemmeno Mahmood può farci niente. Forse, a voler essere generosi, è una delle migliori che abbia interpretato negli ultimi anni: destinata a diventare un punto fisso nei suoi concerti, ma non a cambiarle la carriera.
Voto: 6,5
(Fabio Ferrara)

Olly - "Balorda nostalgia"
Uno dei miracoli che riesce a Sanremo, ancora oggi, è trasformare uno sconosciuto come Olly in una star del nostro mainstream nel giro di due partecipazioni all’Ariston. Questa volta è qui per vincere, con una ballata urlata con il cuore il mano, che lui interpreta con intensità, sguaiatamente e con un difettuccio di pronuncia che aggiunge carisma. Il ritornello lo vede con le vene del collo gonfie, paonazzo, praticamente in lacrime e, alla fine, in fame d’aria. Mezzo melodramma e mezzo coro da stadio, da sgrezzare come un nipote di Vasco ancora troppo emotivo. Testo di una banalità imbarazzante (“Ridere, piangere, fare l'amore/ E poi stare in silenzio per orе”), ma su quel palco Cristicchi è considerato il nostro Nick Cave. Vestito sempre da ragazzaccio. Alla fine, vince davvero e fa tenerezza, perché non sembra essersi preparato all'eventualità. Più che la canzone, vince un giovane cantante che si complimenta con il secondo arrivato Lucio Corsi e che sembra travolto da un successo sognato ma forse ritenuto, da lui stesso, incredibile. Prontissimo per le storie emotive su Instagram dei suoi coetanei.
Voto: 6
(Antonio Silvestri)

Rkomi
- "Il ritmo delle cose"
Uno di quelli che è cresciuto davvero rispetto alla sua prima partecipazione a Sanremo, nel 2022. Questa volta è più coordinato con il brano che canta, più educato al microfono, con una riduzione apprezzabile anche del pernicioso cörsivœ e dell’insicurezza. La canzone è veloce, elettronica e ritmata come poche altre in questa edizione, caratterizzata da vari cali d’intensità annunciati dal ripetersi della parola “decrescendo” nel testo. Al terzo o quarto ascolto, diventa difficile togliersela dalla testa. Arrivano sul palco anche due anziani che ballano, divertenti e poetici senza diventare patetici: nella distruzione c’è anche una rinascita, così come invecchiando si ringiovanisce. Quindi certi temi si possono affrontare anche senza spiegare a tutti cos’è moralmente giusto fare, a quanto pare. Scompare nella cover de “La nuova stella di Broadway” con la Michielin, forse un passo troppo lungo per lui in questo momento. Sempre il venerdì sera condivide il teatro con Topo Gigio, eppure nessuno li ha visti insieme nella stessa stanza: il dubbio, dunque, rimane.
Voto: 6,5
(Antonio Silvestri)

Rocco Hunt - "Mille vote ancora"
Si potrebbe malignare che la parte di Geolier è interpretata in questa edizione da Rocco Hunt. In realtà, l’accostamento è pretestuoso, perché il pop-rapper ritorna all’Ariston più maturo ma con il suo stile, dopo le ubriacature delle hit estive con Ana Mena e un certo calo di ascoltatori. La interpreta bene, intenso senza diventare patetico, e ci butta dentro anche un piccolo messaggio sociale contro la violenza, con tanto di mano che mima una pistola. Coverizza, con la formula sandwich già vista sopra con Fedez, Pino Daniele insieme a Clementino: le strofe aggiunte sono, prevedibilmente, dimenticabili, ma sicuramente si divertono un sacco.
Voto: 5,5
(Antonio Silvestri)

Rose Villain
- "Fuorilegge"
Non aveva funzionato l’ anno scorso, non funziona quest’anno l’idea del brano bifronte: la ballata elettronica non si parla con il meme-pop del ritornello, che però sarà tagliuzzata su TikTok. Il testo non ha nulla di originale, lei lo interpreta alternando gli stili che ci si aspetta in questi tempi strani da una cantante alla moda: un po’ rap, un po’ note lunghe, un po’ parole-chiave che aiutano a caratterizzare il tutto. C’è persino un momento su un registro più acuto, con clap dell’orchestra. Mancavano giusto i due liocorni. Quantomeno, lo stile che porta sul palco le dà un certo vantaggio a livello d’immagine: giunonica, trionfa soprattutto quando si veste come Bulma. Ha acquisito sicurezza di serata in serata. Quando ha rifatto Battisti, però, ha un po’ esagerato, rovinando tutta la delicatezza poetica dell’originale.
Voto: 4,5
(Antonio Silvestri)

Sarah Toscano - "Amarcord"
La proposta più giovane di questa edizione del Festival ha avuto bisogno di ben sei autori (oltre a lei) per comporre una canzone dall'evidente impronta dance, non particolarmente originale. Sarah Toscano ha vinto l'edizione 2023 di "Amici" e approda sul palco dell'Ariston senza troppe aspettative. Il suo obiettivo è fare esperienza, e farsi conoscere da una platea numerosa. E magari da lì partire verso traguardi più sfidanti e interessanti. Chiude al diciassettesimo posto, neanche male. Belle speranze.
Voto: 5,5
(Claudio Lancia)

Shablo feat. Guè, Joshua & Tormento - "La mia parola"
Pablo Miguel Lombroni Capalbo, in arte Shablo, è un dj e produttore attivo da circa venticinque anni, in particolare in ambito rap. Sotto la sua egida sono passati Rkomi, Clementino, Guè, Salmo, Marracash, Fabri Fibra e tanti altri. Al festival si presenta con una squadra di voci al suo servizio: il cantante Joshua, il rapper Tormento (già voce dei Sottotono) e il già citato Guè. La canzone sarebbe anche un pop soul gradevole, perlomeno fino all'ingresso di Guè, che mette come sempre in mostra le sue dote di raffinato poeta: "Io le mando baci lei che per me è la più hot, mi dicevi taci, ora però sono il goat". Non se ne abbia a male Paolo Sorrentino, che lo definisce un uomo buono e una boccata d'aria fresca, ma che palesa tuttavia come essere un grande regista non significa necessariamente essere un critico musicale. E quando più avanti nel brano entra Tormento la situazione peggiora ulteriormente.
Voto: 5
(Federico Romagnoli)

Serena Brancale - "Anema e core"
Brancale, polistrumentista e diplomata al conservatorio in canto jazz, è certamente una delle artiste tecnicamente più preparate di questa edizione. Su YouTube sono disponibili diverse sue esibizioni dal vivo in cui mostra una notevole capacità di improvvisazione e di padronanza dei suoi linguaggi d'interesse (l'R&B, ma anche la jazz fusion applicata al pop italiano, dichiaratamente ispirata da Pino Daniele, in particolare quello dei primi anni Ottanta). Tuttavia, questa canzone l'ha scritta in compagnia di quattro coautori, tre dei quali ripetutamente presenti anche in canzoni altrui, in un festival (ma forse sarebbe il caso di dire, in una scena mainstream nazionale) sempre più imbavagliata dalle tre major e in mano a una manciata di autori onnipresenti, il cui stile tende a dare una continua sensazione di déjà vu. Brancale avrebbe il potenziale per essere un'artista di rottura alla Teresa De Sio (certo, poi eguagliarne la carriera non sarebbe comunque automatico), tuttavia per ottenere visibilità viene ridotta a cantare un surrogato de "La cumbia della noia" di Angelina Mango, con un ritornello giusto un filo più romantico.
Voto: 5
(Federico Romagnoli)

Simone Cristicchi - "Quando sarai piccola"
La canzone è problematica, il tema delicatissimo. Criticarla è scivoloso: si passa per insensibili, degli autentici stronzi. Il problema è che c’è solo il tema, dolente e dolce, della cura per un familiare anziano e malato. Per quanto non sia granché impegnativa da cantare, giocata com’è su un recitato-parlato nelle strofe e pochi allunghi supportati e sottolineati dall’orchestra, lui la sbaglia praticamente tutta: bofonchia, stramazza, si strozza, gna 'a fa. Se il tema è doloroso e importante, poi, il testo è un bigino emotivo, che legge nell’accudimento un dovere morale (“per restituirti tutto, tutto il bene che mi hai dato”; “ci sono abbracci che non devi sprecare”) e concede poco e nulla alle sfumature (“la fatica di doverlo accettare”). L’impianto retorico è faticoso, con l’anafora di “ci sono” nel ponte e i versi lunghi che dominano. Anche le immagini sono prese in prestito da un’antologia del fiabesco e del malinconico che sconfina nel patetico: la “bambina sopra un’altalena”; le “pagine di vita”; i “pezzi di memoria”; la conclusiva “buonanotte”. È un ricatto emotivo, più che una canzone, che si fa scudo di una mamma senile e usa il dolore per commuovere l’Italia, mettendo ovviamente Cristicchi dalla parte del buon figlio che accetta la pena, sorridendo come un Cristo della canzone d’autore. Nel secondo paese al mondo per età media, il gioco funziona benissimo. Quotatissimo dai bookmaker a metà kermesse, sembra destinato alla vittoria del Sanremo della restaurazione di Carlo Conti e invece non ce la fa. Ogni tanto, quindi, le cose vanno anche per il verso giusto. La cover de "La cura" è un ribadire le emozioni del brano in gara, da un punto di vista un po' diverso: ridondante.
Voto: 3
(Antonio Silvestri)

The Kolors - "Tu con chi fai l'amore"
Stash sa suonare, cantare e ha dalla sua una preparazione strumentale (la conoscenza di generi musicali come la italodisco è un’altra storia, Radio Deejay docet) non indifferente. Il punto è che continua a restare agganciato alla coda di (appunto) “Italodisco” come se non ci fosse un domani. E questo è quello che succede quando il successo vero arriva dopo una certa. Usa un microfono vintage che fa il suo dovere, si impegna ma alla fine cosa resta? Una nuova minestra un po’ funky, un po’ disco, un po’ tante cose di cui però non sentivamo troppo il bisogno.
Voto: 5,5
(Giuliano Delli Paoli)

Tony Effe - "Damme 'na mano"
Ci sarebbero da fare delle premesse sul conto di Tony Effe, ossia sul suo essere rapper insignificante e sul suo passato musicalmente a dir poco osceno che con tutta probabilità continuerà a mostrarsi anche dopo Sanremo. Si confida quindi nell’intelligenza generale prima di dire che la sua “Damme 'na mano” è una canzone che non ha nulla a che fare con Dark Polo Gang e caramelle varie. È infatti un brano che omaggia Califano nelle note e nelle parole e che porta questo ragazzino romano a (non) cantare dentro un’osteria, e a biascicare in toni finto-malavitosi e in dialetto senza fare per giunta troppa moina, insomma educatamente (!), magari davanti ai fantasmi dei grandi de Roma, tipo Lando Fiorini. Tony e il verbo cantare nella stessa frase sono olio e acqua, va da sé. Ma resta la sorpresa. E il ritornello da intonare un attimo prima di tornare a discutere sul da farsi con il guanciale nel piatto. Il che è purtroppo "tanto", vista la magra più o meno generale.
Voto: 6,5
(Giuliano Delli Paoli)

Willie Peyote - "Grazie ma no grazie"
Il rapper torinese è l'unico che non abbia portato sentimenti a buon mercato, nell'edizione del festival più reazionaria degli ultimi anni. Il brano è musicato da Daniel Bestonzo e Stefano Genta, due tastieristi parte della band d'accompagnamento di Peyote da anni, che si mostra fortunatamente esterno alle ingerenze degli autori che stanno monopolizzando il festival, e il risultato si sente: le sonorità sono completamente scollegate da qualsiasi altro brano in gara, muovendosi fra funk, pop e jazz fusion, con tanto di organo elettrico e una linea di basso che da sola è più rigogliosa di tutte le altre in gara messe insieme. Il testo parla di alcuni fra i tanti mali della società attuale, prendendo in particolare di mira il vittimismo che i partiti di estrema destra stanno efficacemente utilizzando per erodere il sistema democratico ("E quanto va di moda il vittimismo di chi attacca ma dice che si difende, c’è chi dice non si può più dire niente poi invece parla sempre, almeno sii coerente, almeno per stavolta, che c’è chi ancora ti dà corda"). Talmente superiore a tutto il resto da creare quasi imbarazzo.
Voto: 8
(Federico Romagnoli)

Ecco la classifica finale e i principali riconoscimenti assegnati:

  1. Olly - Balorda nostalgia
  2.  Lucio Corsi - Volevo essere un duro
  3.  Brunori Sas - L'albero delle noci
  4.  Fedez - Battito
  5.  Simone Cristicchi - Quando sarai piccola
  6. Giorgia - La cura per me
  7. Achille Lauro - Incoscienti giovani
  8. Francesco Gabbani - Viva la vita
  9. Irama - Lentamente
  10. Coma_Cose_Cuoricini
  11. Bresh - La tana del granchio
  12. Elodie - Dimenticarsi alle 7
  13. Noemi - Se t'innamori muori
  14. The Kolors - Tu con chi fai l'amore
  15. Rocco Hunt - Mille vote ancora
  16. Willie Peyote - Grazie ma no grazie
  17. Sarah Toscano - Amarcord
  18. Shablo - La mia parola
  19. Rose Villain - Fuorilegge
  20. Joan Thiele - Eco
  21. Francesca Michielin - Fango in paradiso
  22. Modà - Non ti dimentico
  23. Massimo Ranieri - Tra le mani un cuore
  24. Serena Brancale - Anema e core
  25. Tony Effe - Damme 'na mano
  26. Gaia - Chiamo io chiami tu
  27. Clara - Febbre
  28. Rkomi - Il ritmo delle cose
  29. Marcella Bella - Pelle di diamante

Il Premio della critica Mia Martini, assegnato dalla sala stampa Roof, è andato a Lucio Corsi per "Volevo essere un duro".
Il Premio Sergio Bardotti per il miglior testo è stato assegnato a Brunori Sas per "L'albero delle noci".
A Simone Cristicchi ("Quando sarai piccola") è andato il Premio Giancarlo Bigazzi per la miglior composizione musicale.
A Simone Cristicchi anche il Premio della critica assegnato dalla Sala Stampa Lucio Dalla.
Giovedì sera Settembre si era imposto nella sezione Nuove Proposte con il brano "Vertebre".

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